Sono due le interpretazioni prevalenti su Togliatti come leader internazionale e massimo dirigente del principale partito comunista dell'occidente. La prima è quella che vede il leader del Pci come uno stalinista prono ai voleri del dittatore sovietico, articolazione in salsa italiana del comunismo terzinternazionalista. La seconda è quella che lo accredita come uno dei fondatori della democrazia repubblicana italiana che, grazie alla sua moderazione e al suo progressivo sganciamento dall'esperienza russa, ha consentito l'ingresso delle masse popolari nella storia d'Italia, temperandone le spinte sovversive.
La realtà è, come sempre, meno lineare di quello che si vorrebbe e, d'altra parte, siamo di fronte ad un personaggio sfaccettato, non privo di tratti d'ambiguità, capace com'era di piegarsi alla corrente dominante e, contemporaneamente, di leggere, con notevoli capacità analitiche e con spregiudicatezza, i processi che stavano attraversando la società italiana e lo stesso movimento politico di cui faceva parte.
Detto fuori di chiave non è possibile comprendere Togliatti fondatore dell'Italia repubblicana senza tener conto della sua matrice d'origine, del suo rapporto con il comunismo staliniano e delle ragioni che ne fecero un interprete della linea cominternista in Italia. Per capire il Togliatti della svolta di Salerno e la paziente tessitura che ad essa seguì, che ne fece uno dei protagonisti prima della Costituente e poi della vita della Repubblica, è dunque necessario definire, sia pure sommariamente, alcuni passaggi della vicenda italiana ed europea tra le due guerre e la strumentazione culturale con la quale il leader comunista li affrontò.
Il primo è l'Ottobre russo e il mito della rivoluzione mondiale. Esso sopravvisse per lunghi anni, ma la sua realizzabilità già appariva compromessa dopo il 1924-1925. L'avrebbero impedita sia la tenuta dei partiti e dei sindacati socialdemocratici, sia lo sviluppo economico impetuoso che attraverserà i principali paesi europei e, soprattutto, gli Stati Uniti d'America durante gli anni del primo dopoguerra e, in Europa, il diffondersi di movimenti reazionari e conservatori, di cui il fascismo italiano rappresenta la punta estrema. Si passa, insomma, per utilizzare la terminologia gramsciana, da fase di guerra di movimento ad un periodo di guerra di posizione, in cui contano la difesa delle "casematte" conquistate, la politica delle alleanze sociali e politiche, le conquiste parziali che il movimento operaio riesce a realizzare. L'Urss e la scelta del "socialismo in un solo paese" sono parte di questa consapevolezza. Togliatti subisce la svolta staliniana verso l'industrializzazione e a lungo, non a torto, sarà sospettato, nonostante la sua prudenza, di essere un seguace di Bucharin, il dirigente bolscevico che si era opposto alla scelta pianificatrice e collettivizzatrice della fine degli anni venti.
Il suo ruolo diverrà centrale, invece, dopo la conquista del potere da parte del nazionalsocialismo in Germania, quando verrà inaugurata la politica dei "fronti popolari". Togliatti, che insieme al bulgaro Dimitrov, ne è il principale ispiratore e teorico, aggiunge rispetto all'Italia un nuovo elemento che rappresenta un tratto di comprensione delle modificazioni intervenute durante tre lustri di fascismo. Esso si compendia nella definizione della dittatura come "regime reazionario di massa", che sostituisce l'asse analitico delle Lezioni sul fascismo tenute ai quadri del partito. Emerge come il regime rappresenti una sostanziale novità rispetto alle esperienze autoritarie del passato. La "nazionalizzazione della masse" costituisce, infatti, anche l'ingresso dei ceti popolari nella vita nazionale, certamente come soggetto irreggimentato e subalterno, ma non per questo meno essenziale per definire gli equilibri del paese.
È con queste acquisizioni d'analisi, la guerra di posizione e il nuovo ruolo delle masse popolari nella vita del paese, che Togliatti rientra in Italia nel marzo 1944. Da esse nasce la "svolta di Salerno", ossia la scelta di un fronte ampio che comprenda anche la monarchia e i vertici dell'esercito, finalizzato alla condotta della guerra ed al raggiungimento della vittoria sul nazismo. Anche in questo caso si è a lungo discusso se la "svolta" altro non sia che un'articolazione della politica internazionale staliniana, come vogliono i detrattori del leader comunista, o sia il frutto del "genio" togliattiano. In realtà si trattò di una politica costruita a partire dalle premesse che ricordavamo prima e dalle accelerazioni che la guerra aveva indotto. Non a caso già dal 1940, al momento dell'entrata in guerra, Togliatti esprimeva la sua disponibilità ad accordarsi con la monarchia, purché questa togliesse il suo appoggio al regime ed evitasse il coinvolgimento dell'Italia negli eventi bellici. In definitiva il leader italiano applica una politica di cui era uno degli ispiratori, non è un semplice esecutore. Ha quindi un fondo di verità quanto affermerà nel 1950 in una lettera a "Belfagor": «Nel marzo 1944, tornato in Italia, non feci altro che applicare logicamente e con coraggio questa politica alla situazione che trovai. […] E non riesco nemmeno a capire come potessero attendersi da noi una politica diversa coloro i quali avessero seguito con un po' di attenzione la nostra agitazione degli anni precedenti».
Se la svolta è direttamente collegata all'ingresso dei comunisti al governo, essa, tuttavia, si correla al secondo polo del ragionamento, ossia all'iniziativa di massa che, fino al 25 aprile 1945, si esplica soprattutto nell'attività combattente e nella costruzione del partito che Togliatti definisce "nuovo". Una forza politica popolare che non si limita alla chiusura nel proprio mondo di riferimento (ossia quello del lavoro e delle fabbriche), non si rinserra nella propria subalternità, ma si pone il problema del cambiamento del paese attraverso il raggiungimento d'obiettivi concreti, muovendosi con cautela, cercando alleanze politiche e sociali. C'è di più. Il partito nuovo è una forma d'organizzazione autonoma di massa delle classi popolari italiane, in cui si costruisce una comunità solidale che consente l'acquisizione di diritti di cittadinanza, permettendo l'ingresso dei ceti subalterni nello Stato.
Si è osservato che il partito di massa è un portato del fascismo, che i partiti maggiori dell'età repubblicana si strutturano, come il Pnf, su un modello in cui intorno al partito si articola una galassia d'organizzazioni collaterali sociali, economiche e culturali. La novità del partito togliattiano è che questo non viene fatto utilizzando le leve del governo, ma dall'opposizione, in un'epoca di duro scontro internazionale (la guerra fredda) e d'esclusione dei comunisti dall'area di governo.
È indubbio che questa politica raggiunse alcuni obiettivi importanti, destinati a segnare il quadro della democrazia repubblicana.
Il primo fu quello di garantire il passaggio dalla monarchia alla repubblica senza scosse traumatiche, nonostante la vittoria di misura della scelta repubblicana al referendum istituzionale. Il secondo fu quello di tacitare, almeno momentaneamente, i residui della guerra civile che avevano attraversato il paese, attraverso i decreti d'amnistia. Il terzo fu la Costituzione, ossia il "compromesso" alto raggiunto tra forze politiche di diversa ispirazione ideale.
Se si guarda il patto costituzionale emerge come questo aspetto di compromesso, per quanto riguarda i comunisti, è il frutto di un atteggiamento culturale ed ideologico estremamente attento alle forze in campo. Si è, ad esempio, a lungo discusso sull'opportunità o meno del voto del Pci a favore dell'articolo 7, quello che regola i rapporti tra Stato e Chiesa. In realtà dietro all'atteggiamento comunista c'è - indipendentemente dai giudizi di merito sulla questione specifica - un'attenzione ai poteri reali esistenti nel paese. Togliatti, al contrario di Stalin, non avrebbe mai domandato con iattanza quante divisioni avesse il Papa. Era, infatti, consapevole del fatto che lo stesso fascismo aveva dovuto fare i conti con il potere e il prestigio della Chiesa, come aveva dovuto tener presente la forza della monarchia e dell'esercito.
Accanto al raggiungimento di questi obiettivi stanno le sconfitte di lungo periodo del partito, dovute, per un verso, all'eccessiva prudenza e, dall'altro, alle culture diffuse al suo interno. Non v'è dubbio che Togliatti e il suo partito non compresero i nuovi assetti del capitalismo italiano nel dopoguerra. È un fatto che a tale proposito il Pci mostra due propensioni che si dimostreranno sul lungo periodo sbagliate.
La prima affonda le sue radici nella cultura del primo ventennio del Novecento, nelle influenze salveminiane sul gruppo dell'"Ordine nuovo", nell'eredità "vociana" che lo permea, ossia nell'agitazione del liberismo contro il protezionismo imperante per tutto il primo cinquantennio del Novecento. Lo stesso Togliatti era allievo di Luigi Einaudi, il principale teorico di questo orientamento, che era stato suo relatore di laurea.
La seconda è di carattere più ideologico e cioè l'idea che il capitalismo, dopo la prima guerra mondiale, si configuri come capitalismo monopolistico di Stato, di per sé espressione di una saldatura tra interessi finanziari e industriali e poteri dello Stato. Non a caso corollario essenziale della svolta frontista degli anni trenta era stata l'idea che il capitalismo moderno fosse incompatibile con la democrazia, ma anche che esso perpetuasse un quadro stagnazionista che impediva lo sviluppo dell'economia. Tutto ciò portò a forme d'incomprensione del nuovo quadro economico e sociale che si andava strutturando nel paese. La convinzione che il sistema dell'industria pubblica fosse uno spreco pericoloso, l'idea che le forme di programmazione economica fossero momenti di dirigismo autoritario, che le politiche keynesiane altro non fossero che forme d'integrazione delle masse popolari, furono pregiudizi duri a morire. Ciò non permise al Pci nell'immediato dopoguerra di entrare nel merito della ristrutturazione del sistema economico e sociale e gli fece assumere una visione dello stesso che non ne comprendeva né le modificazioni né le potenzialità. Insomma i comunisti non si accorsero che si stava avviando una nuova fase economica che avrebbe modificato radicalmente la fisionomia sociale e politica dell'Italia. Ancora nel 1962 al Convegno economico del partito sulle tendenze del capitalismo italiano si censuravano come pericolosi eretici coloro che individuavano le trasformazioni del capitalismo come fattori di discontinuità nella storia italiana, che modificavano radicalmente le stesse forme dell'agire politico. Si registrò, così, in pieno boom, una visione del paese attardata nella denuncia di un pauperismo che si andava gradatamente attenuando sotto l'onda dello sviluppo economico. Ciò politicamente portò ad un'ipostatizzazione della guerra di posizione come orizzonte permanente del partito, data la minaccia, considerata strutturale, del fascismo. Era questo che spingeva ad una cautela francamente eccessiva e che poneva come obiettivo quello di rilanciare la politica di unità nazionale sperimentata nell'immediato dopoguerra, di cui il compromesso storico, negli anni settanta del Novecento, rappresenterà l'estremo tentativo.
L'ulteriore dato che costituirà un elemento di blocco della strategia togliattiana è il legame con l'Urss. Si tratta di una contraddizione interna alla stessa politica dei fronti popolari. L'idea che la crescita delle forze di progresso nei paesi dell'occidente fosse strettamente legata alla difesa dello Stato sovietico, fu sul lungo periodo un vincolo ed un limite che impedì il dispiegarsi delle stesse potenzialità presenti nella politica del leader comunista italiano. Essa perdurerà, nonostante gli strappi e i dissensi, fino allo scioglimento del Pci e sarà abbandonata non tanto per scelta quanto per necessità, nel momento in cui crollerà per consunzione interna l'esperienza sovietica.
Se si esamina, ormai a quasi un cinquantennio dalla morte del dirigente comunista, la sua politica e il portato di lungo periodo della sua attività, non si può non rilevarne gli elementi di contraddittorietà. Da una parte c'è una costante rappresentata dai punti di riferimento ideologici e di carattere internazionale (il campo socialista); dall'altra un realismo fatto di cautela, di calcolo prudente delle forze in campo, ma soprattutto di cura di un blocco sociale ed elettorale ampio e composito, da coltivare con attenzione, trasformando in cittadini masse popolari fino allora prive di diritti. Pure, tale ambiguità incise solo in parte sulle performance elettorali e sulla tenuta politica del partito, che continuarono ad essere consistenti, finché esso restò in vita.
Ciò spiega perché, nonostante che già al momento della sua morte i caratteri dati da Togliatti alla sua politica e al suo partito dimostrino momenti d'usura, pure essi gli sopravvivono quasi fino allo scioglimento del Pci, per un quarto di secolo. È questo che permette di capire perché ancor oggi, ad un ventennio dalla fine del Pci, in un quadro internazionale, sociale ed economico sostanzialmente diverso, continuino ad operare, nella cultura e nell'iniziativa del leader postcomunisti, alcuni stilemi derivati da quel passato. Il fatto è che quella togliattiana, nonostante le sconfitte e i limiti, si è rivelata come un'esperienza di successo. Nonostante il 18 aprile 1948, la guerra fredda, la repressione nelle fabbriche, i contraccolpi della crisi ungherese, le divisioni del campo socialista, il Pci continuò ad acquisire consensi, ad essere un grande forza politica presente in tutti i comparti della società italiana, un elemento fondante della democrazia italiana. La sapienza con cui Togliatti diresse il suo partito, impedendogli di confinarsi nella pura testimonianza, rappresentano un punto di riferimento per due generazioni di dirigenti comunisti e, ancor oggi, viene rimpianta come momento di una grandezza passata, che comunque è presa a modello di azione politica in un quadro che, tuttavia, ne rende difficile la riedizione. In definitiva il comunismo novecentesco d'origine terzinternazionalista, di cui Togliatti era parte non secondaria, ha concluso definitivamente la sua parabola; gli sopravvive il "togliattismo", nella forma di pura pratica d'azione politica che, però, dimostra sempre più l'usura del tempo e che risulta essere sempre più uno strumento inadeguato di governo delle contraddizioni del presente.