1. Il rapporto tra immaginazione e politica è declinabile in molti modi, tutti legittimi. Mi limiterò a sceglierne uno, dando sommariamente conto di alcuni altri.
Un primo modo di porre il problema sarebbe collegare l’immaginazione alla decisione politica, come suo presupposto ed anche come suo requisito di efficacia. Intesa in questo senso, l’immaginazione è accostabile alla previsione, distinguendosi da essa perché implica, più che ragionamento o calcolo, intuizione, fantasia, empatia. L’immaginazione sarebbe la capacità del decisore politico di anticipare, grazie a doti di sensibilità emotiva più che di comprensione razionale, le possibili conseguenze della decisione da prendere. L’immaginazione indicherebbe perciò una dimensione estetico-creativa della politica, qualcosa che allude alla sua classica definizione come «arte del possibile». L’immaginazione politica implicherebbe una decisione progettuale, una decisione riguardo a un corso futuro di eventi che non traspare ancora in maniera razionalmente cogente nella realtà data, e che si realizzerà solo se la volontà del decisore sarà capace di forzare creativamente la realtà in quella direzione, identificando in maniera intuitiva risorse e opportunità. In questo senso, l’immaginazione politica chiamerebbe in causa la capacità del decisore politico di volere fortemente più ancora che la sua capacità di comprensione degli eventi.
L’immaginazione politica, così intesa, trapassa dal processo della decisione a quello della comunicazione. È indubitabile, in ogni epoca e condizione della politica, che la forza più grande cui un decisore politico possa fare appello è quella del consenso, e per ottenere consenso a sostegno di un progetto occorre una sorta di trasferimento a livello collettivo dell’immaginazione. Non basta che il decisore politico sappia dire ciò che vuole e indicare ragioni convincenti per volerlo: occorre che il suo sforzo creativo venga sentito a livello di massa, che il suo progetto intersechi e coinvolga gli innumerevoli progetti di vita dei singoli e li faccia confluire in un corso d’azione coerente, sufficientemente forte da superare ostacoli e sconfiggere antagonisti. L’immaginazione del decisore politico deve essere riconoscibile dai consociati come la rivelazione rassicurante e allettante di ciò che essi stessi volevano già senza saperlo. Qui l’immaginazione sfuma verso la persuasione e la propaganda, coinvolgendo sia aspetti talvolta bassamente manipolativi, sia aspetti educativi e culturali nel senso, che non a caso richiama l’immagine, della Bildung. Non sarebbe appropriato, invece, collegare l’immaginazione all’inganno puro e semplice, alla frode consapevole. Il fraudolento non ha un’immaginazione propria, ha piuttosto la consapevolezza calcolatrice dell’immaginazione altrui, e lavora su di essa, non di rado con grande abilità, in direzione di un progetto che si declina però in termini bassamente utilitaristici di potere, arricchimento e privilegio. È comunque improbabile che ci sia una netta divaricazione tra ciò che il decisore pensa di sé e vuole per sé e ciò che riesce a far credere agli altri e verso cui muove le loro volontà. Chi vuole tutto per sé senza credere in se stesso, cioè senza attribuirsi interiormente un diritto, una legittimità, si trova in una posizione autocontraddittoria di cui è poco verosimile il consolidamento e la durata. Il potere, per usare solo per brevità il più difficile e ambiguo termine del linguaggio politico, è capace di violenza estrema e di estremo cinismo, ma quasi sempre, almeno nei casi storicamente rilevanti, violenza e cinismo poggiano su una base solida di buona fede. È in quanto crede in se stesso, a volte con infantile ingenuità, che il decisore politico può convincere o costringere gli altri a credere in lui, anche con piena consapevolezza e sapiente dosaggio della misura di violenza o d’inganno che a tal fine adopera. È il tipico «machiavellismo» – usando un termine distorto con piena consapevolezza della sua distorsione – del potere: s’inganna e si mente con la più cinica consapevolezza, ma partendo da una fede non mentita, a suo modo ingenua e pura, spesso slegata da interessi personali e non priva anzi di uno spirito di sacrificio che a essere frettolosi si potrebbe definire eroico, salvo constatare poi che di fronte a certi esiti non è il caso di sprecare termini nobili. Chi immagina in grande – ma a volte semplicemente in grosso – può poi usare tecniche assai meschine per suscitare nei seguaci immaginazioni che gli restituiscano moltiplicata la propria, e in politica inganno e buona fede non sono necessariamente in contraddizione, tenendo presente che in politica la buona fede non è necessariamente una virtù e non giustifica nulla.
2. Quanto detto sin qui può essere vero e non s’intende escluderlo dall’operazione di chiarificazione concettuale che si sta tentando. Però non si è ancora toccato, forse solo sfiorato, il centro del problema, che come di solito accade con i problemi centrali si presenta con tanta evidenza da sembrare banale: il riferimento dell’immaginazione all’immagine. Ovviamente, immaginare significa produrre immagini: tutti gli altri significati sono traslati o metaforici, ed è molto facile che diventino vuoti o arbitrari se si perde di vista il punto d’origine del problema. L’immagine, le immagini, l’immaginare, l’immaginario. Quanto detto fin qui andrebbe riformulato a partire da questo punto. Che significa progettare, prevedere, anticipare, volere, far volere, un’immagine o a partire da un’immagine? Come si può persuadere a un’immagine o mediante immagini? Come ci può essere consenso riguardo a immagini, cioè, come fanno le immagini a produrre – nei vari sensi del termine – un senso comune? Come si possono propagandare immagini? Come si può ingannare tramite immagini? Come possono le immagini provocare obbedienza? Com’è possibile che si giunga al sacrificio, di altri e di se stessi, per un’immagine? Come può un’immagine essere un fine che giustifica mezzi anche estremi?
Forse è proprio ponendo il problema in termini letterali che si comprende la radicale divaricazione di concetti che possono sembrare prossimi, come immaginazione e progettazione. Un progetto è spessissimo un’immagine, ma non – se non secondariamente – in quanto prodotto di «immaginazione». Nasce da calcoli e richiede calcoli, soprattutto misurazioni. È un’anticipazione di una realtà possibile, ma con la funzione essenziale di dimostrare, e non di far intuire o sperare, appunto tale possibilità. Un progetto è l’immagine di qualcosa che deve essere costruito, che ci dice appunto che possiamo costruirlo e come esattamente dobbiamo farlo. La possibilità e l’esattezza sono strettamente congiunte. L’immagine progettuale deve essere chiara, geometrica, senza sottintesi, senza margini d’imprevisto, senza punti di fuga verso il vago o il suggestivo e tanto meno il misterioso. Un progetto è la pre-visione (attraverso una mera figura) di ciò che poi davvero si vedrà e non solo si vedrà, perché sarà cosa. Può anche darsi che l’immagine destinata a diventare cosa sia di per sé bella, coinvolgente, emozionante, ma questo di per sé non ha nessun valore. Un progetto che non si può attuare è semplicemente sbagliato: un ponte bello che non può stare in piedi non è neanche bello, il progetto di un aereo che cade non può essere un bel progetto. L’immagine anticipa la cosa futura, ma è la cosa futura a dare valore all’immagine. L’immagine è l’inizio della cosa, la sua scaturigine, ma se poi la cosa non vien fuori non resta nessun valore all’immagine, che è semplicemente una cosa inutile e abortita, anzi una non-cosa, un puro e semplice errore.
Per converso, dunque, l’immaginazione vera e propria non è mai progettuale. Certo, se parliamo di politica e se si tratta di un atto politico efficace e non di un fallimento totale, l’immaginazione produrrà qualcosa che altrimenti non ci sarebbe stato o non ci sarebbe stato così; però nessuno ne sarà soddisfatto. Ci potrà essere gioia, entusiasmo, senso di vittoria, ma in quanto inizio o indizio di realizzazione di ciò che si era immaginato. Si attenderà sempre un «dopo», un «non ancora». Ma, dato che nessun «dopo» è ultimo e nessun «ora» possibile consuma l’infinità del «non ancora», ci sarà sempre insoddisfazione. È tutto qui? No, tutto non può stare qui. «Qui» c’è solo il «qualcosa»: che non è un niente, che è meglio di niente, ma è solo un qualcosa. Non ultimo, non finale, non adempitivo. Dopo il qualcosa c’è ancora un qualcosa, e ancora, e ancora. La serie è aperta, l’oggetto finale non viene mai. Se l’immaginazione politica fosse progetto, si tratterebbe sempre e solo di progetti sbagliati. In politica si costruiscono soltanto ponti che crollano o non portano da nessuna parte, e gli aerei sono fatti per precipitare, se non precipitassero non volerebbero neppure.
Dunque, la politica alla fine è una specie di «arte dell’impossibile»? A quanto pare sì, e l’immaginazione politica si colloca proprio qui, in questo spazio paradossale ma realissimo in cui l’impossibile è definitivamente tale, ma non per questo è anche insensato, anzi, il minimo di possibilità si congiunge col massimo di senso. Ed è, tanto per dargli un nome, lo spazio del simbolico.
3. Tentare di definire il simbolico, anche ad avere a disposizione molto più spazio, sarebbe un proposito assurdo. Limitiamoci a prendere il simbolo nella sua accezione etimologica di congiungimento o collegamento. Simbolo è una cosa che acquista senso nel congiungersi o collegarsi a un’altra. Chi sa riconoscere un simbolo come tale – e per questo occorre la conoscenza di un codice comunicativo complesso, che richiede un forte radicamento culturale – non lo scambia mai per una semplice cosa, sebbene ogni simbolo sia reale, oggettuale, un ente percepibile, di solito anzitutto visivamente. Il simbolo è una cosa, ma una cosa incompiuta, aperta, incapace di stare da sola, bisognevole di un completamento. Da solo, preso in se stesso, è ma non significa. Il suo significato implica un richiamo, un’invocazione di completamento: come la moneta spezzata in due che è, in greco, il symbolon nella sua forma più originaria. In se stessa è inutile, è un oggetto rotto da buttare, è denaro che nessuno riconosce e accetta come tale, denaro che non compra e non paga. Ma se la metà incontra l’altra metà che completa la moneta, emerge il senso, che non è quello di essere moneta, ma quello di essere segno di riconoscimento, documentazione di un rapporto. Chi possiede l’altra metà della mia moneta è stato mio ospite, mio socio d’affari, mio alleato, oppure è erede o delegato di un mio ospite ecc., e quindi è autorizzato a intrattenere con me una certa relazione che riguarda una qualche intrapresa comune. Già da questo si vede bene che un simbolo è una cosa che non richiama un’altra cosa, ma è una chiave che apre il mondo delle cose al mondo dei significati. La mia metà della moneta non sa che farsene dell’altra metà: ha bisogno della persona che la porta e del percorso comune che quest’incontro di persone mediato da una cosa rende possibile.
L’immagine simbolica, dunque, non è un progetto, è un richiamo, un appello, un’invocazione, persino un’evocazione. Chi è con me? Chi è come me? Chi è dei miei? Forse costui esiste già ed è sufficiente chiamarlo, forse non esiste neppure ed è il richiamo che lo crea. Il comandante chiama accanto a sé la bandiera, o la prende lui stesso, e va. Non ha neppure bisogno di dare ordini: chi è dei suoi, va con lui. Cos’è la bandiera? Uno straccio colorato. Nella sua oggettualità non ha senso, dichiara il proprio non senso: proprio i colori accesi, le figure semplici e percepibili anche a distanza, rendono ben visibile che nella sua natura fisica l’oggetto in questione è solo uno straccio colorato. Ma quest’evidente insignificanza, invece di restare chiusa in sé, si apre: invoca, provoca, evoca. La bandiera dice: non lasciatemi sola, non lasciatemi essere solo l’oggetto inutile che sono. Venite con me, dietro me, siate miei: così sarete vostri, così saprete chi siete, perché saprete dove state andando, e contro chi. E al nemico, la bandiera dice: stiamo arrivando. Abbiate paura, perché questo straccio colorato sventolante che sono si porta dietro i miei, e i miei vi uccideranno. Non sono uno straccio, sono la vostra morte. Può succedere che una bandiera sia nuova, mai vista prima, e quindi non c’è nessuno che sia suo, ancora. Ma appunto le bandiere nuove sono quelle che gridano più forte. Gridano: volete essere nuovi anche voi? Volete esistere per la prima volta come voi, come vostri, e perciò come miei? Perché io vi dico chi siete veramente, e vi porto dove veramente potete esistere. Per questo si muore per la bandiera.
4. Dunque, l’immaginazione politica è essenzialmente la capacità di produrre immagini simboliche che attivino un’appartenenza comunitaria, dandole una nuova carica di senso se già esistente, non di rado creandola ex novo. L’appartenenza, la riconoscibilità di questa e la sua intensità emotiva sono dunque la ragion d’essere dell’immaginazione politica, che solo indirettamente ha a che fare con la progettualità e con la decisione e ben poco, forse nulla, ha a che fare con attività di problem solving di carattere tecnico. In quest’ottica va percepito anche il rapporto dell’immaginazione col consenso. Questo non implica il riconoscimento di una verità o di un bene, non è conseguenza di una dimostrazione e neanche della persuasione ad aderire a valori. Non implica condivisione d’idee e tanto meno d’ideali. Consenso è appagamento nell’appartenenza, è condivisione emotiva, ma non nel senso che con emozione si condivida qualcosa (obiettivo, progetto, fine), ma nel senso che si condivide l’emozione stessa e che il contenuto dell’emozione è il condividere. Consenso è sentire di essere insieme, di essere comunità, di aver superato immense solitudini per incontrare altri e in altri incontrarsi. È secondario che si vada davvero da qualche parte insieme, facendo insieme delle cose. È l’essere che conta, meglio il sentirsi essere. Che è fine a se stesso e di sé pienamente si appaga.
Poi, s’intende, bisognerà anche fare delle cose insieme e andare insieme da qualche parte, appunto perché solo così si danno contenuti concreti all’essere insieme, e l’essere semplicemente insieme senza contenuti pratici non potrebbe avere durata perché non potrebbe mantenere la propria tensione emotiva. Qui necessariamente s’incontra una sproporzione: nulla di ciò che davvero si può fare e nessuna meta realmente raggiungibile possono dare compimento assoluto all’assoluto bisogno di condivisione. Si vorrebbe stare insieme per sempre nell’entusiasmo convissuto, e questo dà una forza immensa e consente il superamento di ostacoli invalicabili: la politica non è per niente l’arte del possibile, è l’arte di fare miracoli. Nascono partiti, nascono città, nascono nazioni, nascono imperi: dove prima non c’era niente, solo tentativi irrelati, idee improbabili, sogni senza speranza, solitudini. Morti solitarie. Poi però, dopo essere stati uniti da vittorie che sarebbero state impossibili, vittorie di elezioni, vittorie di battaglie, vittorie sulla natura, vittorie sulla storia (la politica è sempre antistorica, la storia viene solo dopo per spiegare l’inspiegabile), vittorie sul buon senso, vittorie sull’egoismo e sulla paura, ci si trova di fronte all’ostacolo insormontabile del più tremendo dei paradossi: il tutto qui.
Posto che il bisogno di appartenenza collettiva innescato dall’immaginazione simbolica è tendenzialmente infinito, è evidente che nessun obiettivo specifico può soddisfarlo, fosse pure la conquista di un impero di durata millenaria o l’edificazione di una comunità dotata di un grado elevatissimo di libertà, giustizia e prosperità. Anche le imprese più eccezionali una volta compiute diventano routine, normalità, quotidianità, noia. La tensione svanisce, c’è solo da far durare l’identico. L’attività principale consiste in procedure ripetitive, e questo richiede una buona tecnica amministrativa. La politica propriamente intesa diventa superflua, anzi persino disturbante. La ripetizione dell’identico richiede abitudine, non consenso, adattamento reciproco, non sforzo comune, applicazione di regole, non decisione. Può volerci anche molto tempo, ma il tessuto comunitario si sfilaccia, e alla fine la politica può tornare solo nella forma dell’opposizione e del rifiuto. Ciò che agli antenati era sembrato opera grandiosa diventa cappa soffocante, macigno, catena, e l’entusiasmo condiviso ritorna solo nello sforzo di separare, demolire, lacerare. Attività per cui potranno esserci giustificazioni anche nobilissime, ma sono sempre comunque terribili. La politica non è in sé buona – esattamente come non è in sé cattiva – e sicuramente non è mai attività innocua. Proprio perché è attività aperta, bisognevole di novità e di futuro, mai racchiudibile nella compiutezza di un eterno presente. C’è un solo oggetto possibile della volontà politica che emerge dalla condivisione comunitaria innescata dai simboli identitari, ed è tutto. Ma di fronte al tutto, ogni cosa è un mero qualcosa, e chi voleva il tutto non può volere il qualcosa. Per questo le rivoluzioni falliscono: tutte. Per questo gli imperi crollano: tutti. Per questo nessuna costruzione politica può durare senza che il suo stesso durare sfumi progressivamente nella negatività. In politica, ogni durata è oppressione. Voi ci dite che è tutto qui? Che già questa è libertà, giustizia, buon governo, bene comune? Ma si tratta di una menzogna evidente, e la vostra pretesa di farcela credere è di per sé inequivocabile ingiustizia. C’è poco da fare, simili rivendicazioni sono sempre fondate, perché è innegabile che tutto non è qui.
Per questo il governo migliore non può essere il governo dei migliori, e per questo il classico problema dell’ottimo governo è, a ben guardare, un falso problema. Il governo dei migliori, se davvero sono migliori, non dovrebbe mai cambiare, e l’ottimo governo, se è davvero ottimo, dovrebbe ripetersi identico per sempre: ma basterebbero pochi anni o decenni o secoli (che sono comunque pochi, un tempo circoscritto) perché questa perfezione immobile venga travolta dal furore universale. Il punto, infatti, non è quanto bene governa chi governa, il punto è come facciamo a sapere chi siamo, e come facciamo a esserlo insieme. E siccome la tensione identitaria non ha durata, deve essere riattivata, riplasmata, rinnovata. Il miglior governo è, del tutto indipendentemente dai suoi risultati, quello che più si avvicina a un’inesauribile fluidità, e questo è il vantaggio supremo di quella forma politica se si vuole persino pessima – perché è la negazione in linea di principio del governo dei migliori – che è la democrazia. Che non è un modo di procedere un po’ macchinoso, per tentativi frustrati e ripetuti errori, verso il buon governo, nella speranza che prima o poi vincano i migliori. Al contrario, la democrazia è la rigorosa espressione del principio che nessun governo è buono e quindi nessun governo deve durare, perché quello che conta non è chi governa né come, ma fino a che punto si riesce a riattivare, in forme programmate e regolate e perciò a distruttività controllata, il sentimento comunitario, l’emozione dell’essere insieme.
5. La democrazia dunque è altamente simbolica, perché è seriale. Torniamo per un momento al symbolon nella sua forma originaria, alla moneta spezzata. Abbiamo già visto che ciascuna metà della moneta non cerca per niente l’altra metà, non saprebbe che farsene. Cerca la persona che la porta: si tratta di una relazione tra persone, non di un rimando reciproco tra cose. Ma non cerca l’altra persona per quello che è, come individuo specifico: la cerca in quanto portatrice di un richiamo simbolico che non collega le persone tra loro, bensì le collega, entrambe, alla loro relazionalità. Chiunque tu sia – e importa poco chi tu sia – sei mio ospite, ed io lo sono per te. Dovunque e in qualunque tempo ci incontreremo, noi o chiunque altro per noi, la relazione simbolica che ci lega darà un senso al nostro incontro. Non un senso vago e impalpabile, ma un senso molto preciso, codificato, fatto di diritti, doveri, aspettative, garanzie. Però un senso aperto, indefinito: il legame simbolico può durare per generazioni, può coinvolgere direttamente centinaia di persone e indirettamente forse migliaia. E non soltanto: in quanto manifestazione esemplare di una relazionalità carica di valore, il legame simbolico può incarnare l’identità di un intero popolo nei millenni: noi veneriamo gli ospiti, questo è nostro, così si fa, questo noi siamo. E non soltanto: Zeus Xenios protegge il legame ospitale, e chi onora questo legame onora il dio. Quindi il rapporto tra due mezze monete non è un rapporto tra due mezze monete: è un rapporto di famiglie, città, popolazioni, tra di loro ma soprattutto di ciascuna di loro con se stessa, è un rapporto tra uomini e dèi, è un anello di un’indefinita e perciò infinita catena di senso.
Ma allora diventa vero persino che è tutto qui. Non perché qui s’incarna e perciò qui finisce tutto il senso, ma perché questo momento ci apre non a uno specifico significato, ma all’intera infinita catena del senso, riconduce il qui nell’ambito del tutto, ne realizza una sorta di autotrascendimento. L’immaginario simbolico agisce sempre in questo modo. L’immaginazione politica, in quanto simbolica, conferisce tale supremo valore alla contingenza dell’agire insieme, e solo in questo modo forse si agisce davvero insieme. E allora si muore per la bandiera, e allora si vive come espressione di libertà sovrana il mettere un pezzo di carta scarabocchiata in un’urna, e allora si scende in piazza per inseguire per l’ennesima volta un’aspirazione di giustizia che, come sempre, verrà frustrata.
Naturalmente, nulla garantisce che ciò sia di per sé un bene. Ma questo sarebbe un altro discorso.
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