1. Cultura al plurale
Sulla società dell’informazione, ossia sul fatto che il nostro destino è, e sarà sempre più, quello di una società globalizzata della comunicazione a base informazionale, siamo ormai tutti coscienti. Non passa giorno che i media, la stampa d’attualità, l’ambiente accademico, per non parlare delle linee programmatiche della politica degli Stati in tema di formazione, ricerca e sviluppo, ci informano su questo «senso obbligato» delle nostre società contemporanee. Del resto, sono gli strumenti stessi di cui ci serviamo con sempre maggiore insistenza nel nostro lavoro, nella nostra comunicazione, nei nostri consumi a parlarci di questa declinazione informazionale della società. Così come, allo stesso modo, ce ne parla anche lo stile cognitivo e operazionale risultante dal loro impiego.
«Società dell’informazione» e «mondializzazione», osserviamolo subito, sono parti di una medesima costellazione: se la mondializzazione – che è in primo luogo una riorganizzazione produttiva del tempo e dello spazio, e dunque un nuovo esercizio del potere – riesce ad imporsi, è soprattutto grazie a questo inedito trattamento della informazione caratterizzante, ormai, buona parte delle nostre relazioni intersoggettive, sia nei contesti pubblici, sia in quelli privati (per quanto questa divisione abbia davvero ancora un senso).
Non ho ancora chiamato in causa la «tecnologia», ma è evidente che allorquando oggi si parla di informazione, ci si riferisce sempre ad un’infrastruttura dell’informazione a matrice tecnologica. Più precisamente: a un’infrastruttura che consente di generare, archiviare, scaricare e trasmettere informazione grazie ai servizi di un linguaggio che si riorganizza secondo le regole dettate da ciò che siamo soliti chiamare la «rivoluzione digitale». Tra «società dell’informazione», «mondializzazione» e «tecnologia» è dunque possibile riconoscere una solidarietà circolare dove ognuno dei tre poli viene rinforzato retroagendo sugli altri, secondo modalità causali che non hanno nulla a che vedere, però, con il modello determinista della linearità meccanica[1].
Il mio obiettivo, ora, è cercare di capire due cose. Primo: quali significati immediati riveste la cultura nello scenario appena abbozzato. Secondo: se al di là dei significati che essa assume spontaneamente (o che le vengono assegnati «naturalmente» come suoi compiti specifici) sia possibile individuarne uno in grado di sottrarsi a questo, diciamo così, automatismo funzionale.
Stando al primo punto, direi subito che, per un verso, con la nozione di cultura – ripeto, nel contesto odierno - è possibile intendere ciò che contribuisce, mediante le sue forme determinate di sapere (economico, gestionale, amministrativo, scientifico, tecnologico e, non da ultimo, valoriale) all’edificazione di quella società che fa appunto dell’informazione un suo principio organizzativo, produttivo e comunicativo. Ma, «cultura» - ed è il secondo significato che qui ci interesserà - indica anche ciò che viene poi prodotto da questa società, una volta affermatasi, quanto a conoscenze, discorsi condivisi, pratiche intersoggettive, valori e disvalori, comportamenti, rappresentazioni individuali e collettive: tutto quanto una società istituisce al fine di assicurare il suo funzionamento, e anche (fra qualche difficoltà in più) al fine di riflettere criticamente sui suoi contenuti.
Il secondo punto conduce, invece, ad argomentare in favore di un’elaborazione culturale (siamo così al terzo significato del termine) di saperi e pratiche volta a promuovere un’esperienza della temporalità (e quindi del senso) articolata sulla lunga durata. Ma attenzione: qui non penso alla riedizione di una cultura di tipo storicista. Penso piuttosto alle risorse di una prospettiva capace di riequilibrare gli effetti perversi – diciamolo senza perifrasi – di quello che è possibile identificare come il tratto temporale più significativo della struttura produttiva della nostra società: la sua idea della performance come azione di successo o di eccellenza, misurata sulla puntualità irrelata del corto termine. Sappiamo che la cosiddetta «società del rischio» è anche una società dell’urgenza, se è vero – come preciserò più avanti - che il tempo che informa le nostre esistenze quotidiane, con sempre maggiore insistenza, si trova oggi confrontato con la necessità imperiosa di adattarsi all’istantaneità puntuale del presente, secondo il principio dell’«ora o mai più».
È questo il motivo per il quale, a proposito del nostro odierno orizzonte temporale, è possibile parlare della preminenza della discontinuità episodica sulla continuità progressiva, come declino di quella linea del tempo cumulativa mediante cui la società di ieri poteva ancora articolare narrativamente progetti di vita, figure del lavoro, modalità relazionali. Del resto, basta gettare un colpo d’occhio al sistema mediatico dell’informazione, per capire come debba essere inteso questo predominio della discontinuità sulla continuità. La produzione quotidiana della novità delle notizie, così come il loro consumo – giacché proprio di produzione e consumo si tratta – trova il suo fondamento in un oblio reiterato in cui va completamente persa la capacità, non solo di stabilire delle relazioni fra passato e presente, ma anche di attribuire ai contenuti dell’informazione una loro profondità temporale, quella durata «prospettica» degli eventi e delle situazioni, tolta la quale non rimane altro se non il tempo rapsodico della spettacolarizzazione. Vi è qui una dimensione di oblio e di astoricità che definisce anche le modalità attuali con le quali, quotidianamente, incontriamo, sperimentiamo, manipoliamo e conosciamo, il nostro mondo comune.
Torniamo ora al primo significato del nostro termine. In questo caso, con «cultura» indichiamo il fatto che, come ogni altra forma di società, anche la società dell’informazione possiede le sue condizioni materiali di possibilità. È sempre anche una certa congiuntura di saperi – cui corrisponde sempre una certa congiuntura di poteri – ciò che consente ad una società di strutturarsi come quella società determinata. Così, ad esempio, quando si parla di modernità, il pensiero corre immediatamente alla società della prima industrializzazione (seconda parte del XVIII secolo), con le sue macchine che soppiantano gli utensili manuali; alla società della seconda rivoluzione industriale (un secolo dopo) resa possibile, tra l’altro, dallo sviluppo della chimica e dell’elettricità, dal motore a scoppio, senza dimenticare la diffusione del telegrafo e l’invenzione del telefono; alla società dei consumi, con la sua particolare riorganizzazione della produzione. Mentre nel caso preciso della società dell’informazione, dal lato propriamente tecnologico, l’elemento decisivo è tutto quel novero di conoscenze che, dopo la seconda guerra mondiale, ha permesso lo sviluppo di discipline come la micro-elettronica, di artefatti come i computer, di modalità relazionali come le telecomunicazioni. «Discipline», «artefatti», «modalità relazionali»: sono tre declinazioni della conoscenza che consentono di delineare un’idea di cultura stratificata, composita, articolata, alla quale, dal punto di vista sociale, occorre aggiungere il sapere politico ed economico necessario a giustificarne e promuoverne l’implementazione – secondo linee d’intervento finanziario che traducono «nelle cose» il sistema di valori sottostante a un determinato progetto di comunità. Possiamo definire questa concezione di cultura come strumental-operazionale. Intendiamoci, la società dell’informazione è un fenomeno molto più complesso da spiegare di quanto non lo facciano queste osservazioni, dove l’incrocio di forme culturali eterogenee ha potuto organizzarsi all’interno di un paradigma dell’innovazione, rivoluzionario sotto diversi aspetti: produzione, lavoro, mercati finanziari, accumulazione, scambio, comunicazione, ecc. Qui mi limiterò a citare, a titolo d’esempio, il ruolo giocato dalla regione della Silicon Valley, a partire dagli anni Sessanta: un luogo di sperimentazione e di produzione in cui sono confluite conoscenze (civili e militari), tecniche, risorse economiche, spirito libertario, e che ha saputo imporsi approfittando contemporaneamente della presenza di ricerche istituzionalizzate e informali; di interessi commerciali e di creatività «disinteressata»; di applicazioni industriali e di ricerca «fondamentale». Da questo punto di vista, la «cultura» si presenta come una forza che combina elementi a valore diverso, con il risultato di acquisire un alto potenziale configurativo: se si tiene presente la sua capacità di ridefinire anche radicalmente, proprio com’è il caso oggi, l’orizzonte dove troviamo date le nostre concrete possibilità di agire (il nostro «mondo»).
Ora, è proprio interrogando un tale orizzonte quotidiano, negli elementi che definiscono l’esistenza individuale e collettiva a partire dalle regolarità proprie del suo contesto preciso (questo «mondo»), che incontriamo il nostro secondo significato del termine «cultura». Definisco come socio-antropologica questa seconda declinazione del termine.
In questo caso, la cultura non è più definita dall’insieme dei fattori che contribuiscono ad istituire una nuova configurazione societaria. Essa è piuttosto lo strumento pratico-simbolico mediante cui tale configurazione si afferma, riproducendo valori, comportamenti, linguaggi e desideri, che supportano nuove logiche identitarie. Nelle pagine seguenti affronterò la questione delle nuove logiche identitarie inaugurate dall’attuale declinazione socio-antropologica dei processi culturali, connessi all’infrastruttura telematica della società della comunicazione a base informazionale.
2. Disincanto
Come è vero per ogni configurazione societaria, anche nel caso della società dell’informazione vale il principio della circolarità dinamica tra pratiche (le azioni e i discorsi che informano la nostra quotidianità), identità e mondo: siamo quello che possiamo essere nell’esercizio quotidiano di un fare e di un dire che dà corso al mondo secondo linee di senso, di volta in volta, già date nel mondo (in questo senso siamo sempre un «dasein»). Anche se - di qui appunto la circolarità - non si tratta di un «già» cronologico, visto che sono le pratiche, quelle pratiche, ad istituire il mondo, quel mondo, con le sue linee di senso determinate.
Dunque, quali sono gli elementi propri della configurazione di mondo che definisce la nostra contemporaneità? Se la domanda intende riferirsi all’insieme di quei tratti che sollevano questioni di ordine prevalentemente identitario, una risposta possibile è che tale insieme sia dato dall’esperienza temporale attraverso cui, oggi, viene definito il nostro modo di accostare gli oggetti di consumo, di accedere alle informazioni, di disporre delle conoscenze, di sperimentare i legami sociali. L’esperienza del tempo che si profila qui ridisegna non solo il rapporto tra passato, presente e futuro quale è stato delineato nell’immaginario della cultura moderna, ma anche, radicalmente, il significato dell’uno per l’altro. In questo modo, ad interrompersi è la dialettica tra continuità e discontinuità propria del tempo teorizzato dalla modernità filosofica, politica, scientifica, dove – precisiamolo - l’irruzione dell’alterità o della differenza (discontinuità) non sarebbe mai veramente stata tale, dato che, in quanto Storia, il tempo umano inaugurato dall’Illuminismo si presenta proprio come ciò che pretende di ricomporre il tutto nel disegno unitario (continuità) di una finalità ideale.
Da questo punto di vista, è allora possibile osservare come, in quanto portato delle odierne pratiche quotidiane, la temporalità che informa le nostre esistenze di cittadini, consumatori e lavoratori, sostituisca al dinamismo lineare, progressivo e cumulativo dello storicismo, l’intermittenza di un «pointillisme» topologico che, a differenza, però, del «pointillisme» pittorico, non è ricomponibile «nella presa di distanza» ad opera dell’osservatore, perché a venire meno è proprio la possibilità stessa della «distanza». Così, a questo riguardo, non parlerei – come invece hanno fatto in molti nel recente passato - di logica della discontinuità o del frammento come liberazione dalla logica del sistema.
Questa della «liberazione» è una lettura che era possibile fare qualche decennio addietro, quando il postmoderno irruppe sulla scena della cultura occidentale e fu accolto con interesse da tutta una letteratura teorica, proprio in ragione di quelli che allora furono presentati come i suoi caratteri anarchici, leggeri, disorganici, plurali, decentrati e, in ultima analisi, anti-metafisici. La liberazione di giochi linguistici eterogenei, quale espressione dell’irriducibile pluralità delle forme di vita emergenti e dei relativi saperi - alla quale faceva riferimento J. Fr. Lyotard in un testo della fine degli anni Settanta del secolo scorso divenuto celebre – poteva essere interpretata come un sintomo del congedo da quell’unità fondativa di cui il mondo moderno, dall’illuminismo allo storicismo, si era servito in modo da organizzare i saperi all’interno di strutture interpretative universalizzanti e gerarchiche. L’idea secondo cui, nella società informatizzata, il venir meno dei grandi quadri di senso monologici che avevano indirizzato la produzione moderna della conoscenza, segni il passaggio ad un paradigma di razionalità plurale e paratattico, avrebbe dovuto rendere conto dell’emancipazione dei diversi ambiti del reale e del pensiero – un reale e un pensiero riaffermati al livello delle loro logiche locali – dalle forze speculative orientate alla loro riduzione, canalizzazione e centralizzazione.
Quello che una certa tradizione (diciamo dalla «Teoria critica» al «Poststrutturalismo») poteva individuare ancora solo come condizione di una emancipazione possibile, viene ora (anni Ottanta) riconosciuto in quanto cifra di una circostanza di fatto che ridisegna, pluralizzandola, l’immagine epocale del tempo umano. Ma oggi?
Oggi – anche a prescindere dalle inarrestabili spinte standardizzanti in atto nel campo del consumo, dei comportamenti, dei linguaggi e dei desideri – dobbiamo domandarci dove e come l’innegabile pluralizzazione delle sfere di vita e delle forme di pensiero, la sottrazione del tempo allo «schematismo» della Storia, il potenziamento informazionale delle attività, delle disposizioni e delle facoltà umane, hanno prodotto l’emancipazione auspicata. Dove e come l’affermazione di tutto ciò – attesa prima e registrata poi – si è tradotta in effettive opportunità di liberazione per gli individui, le società, le minoranze? Piuttosto che segno di un alleggerimento dinamico della cultura e delle identità, l’insieme di questi fenomeni è all’origine di un processo che, sul piano sociale e psichico, precarizza gli individui (una gran parte di essi), inscrivendoli in orizzonti di vita incerti, mutevoli e discontinui, dove è famigliare – quando lo è – ancora solo la routine quotidiana o quel che resta di essa.
Se vi è un aspetto che riassume in sé incertezza, mutevolezza e discontinuità, si tratta del venir meno del tempo biografico come trama di vissuti ricapitolabili in una narrazione in cui il presente individuale, l’attualità vissuta dai singoli soggetti, possa presentarsi quale prodotto di una storia «sostanzialmente» lineare e continua. E quando dico «lineare e continua» intendo cumulativa: ciò che dal punto di vista dell’individuo significa esperire una figura del tempo sottratta alla dimensione meramente cronologica. Quando il tempo perde la sua profondità – l’insieme di significati, esperienze, eventi che consentono di esperirlo come, appunto, una figura, e più precisamente una figura della crescita progressiva –, quello che rimane è la frantumazione dei vissuti temporali, la loro reciproca esteriorità: esperienze di vita (lavorativa, affettiva, ricreativa) scollegate. Questa frantumazione non è di per sé un fatto negativo. Può, anzi, dare luogo ad una dinamica di riprogettazione che solleva l’individuo dal peso, per così dire, della sua storia, del suo passato: se è vero che là dove c’è tradizione, c’è anche sempre, in una certa misura, ripetizione. Diventa invece un fatto negativo allorquando la frantumazione dei vissuti temporali scaturisce dalla loro impossibilità di significare l’uno per l’altro: ciò che precede possiede ancora solo il significato di accadere prima, così come ciò che segue quello di accadere dopo. Allora, anteriorità e posteriorità risultano irrelati.
Ne consegue l’affermarsi di una dimensione del tempo soggettivo che manifesta la relativa irrilevanza della funzione della memoria. Il che ha, evidentemente, una ripercussione sulla narrazione del sé. Non che l’identità smetta necessariamente di essere un’identità narrativa – quand’anche, in questo caso, sia difficile immaginare una narrazione lineare del proprio sé («lineare» – precisiamolo – après coup, proprio in quanto capace di riallacciare, là dove le esperienze della vita li hanno disgiunti, i diversi fili del vissuto). L’identità rimane nell’alveo della dimensione narrativa, poiché è sempre dell’ordine del racconto del sé, ciò che mira a confermare, riconfermare, o «aggiustare», la rappresentazione, ma soprattutto la stabilizzazione, delle nostre identità di cittadini, lavoratori, consumatori, fruitori del tempo libero. Solo che il tipo di narrazione in atto, non è più supportato da alcun intreccio in grado di operare quella ricomposizione della discontinuità che Ricoeur, nei suoi studi sull’identità, definisce con la nozione di «sintesi dell’eterogeneo»[2]. È come se il racconto si disarticolasse in una serie di micro-narrazioni centrate su nuclei episodici refrattari alla concatenazione, ma soprattutto refrattari alla possibilità di una loro interpretazione in chiave unitaria. Così, l’identità è ogni volta assorbita da un’episodicità puntiforme che la consuma e la rigenera, secondo la logica dettata da una prassi dove ad essere inibito è proprio quel fenomeno che le analisi di Ricoeur riconoscono quale principale fattore di coesione, di unità esistenziale e di totalità temporale. Vale a dire la trasformazione, mediata dall’intreccio narrativo, della contingenza in necessità: il caso che si fa destino[3].
In che modo il racconto investe la contingenza? Fissandosi su di essa, facendone il proprio centro di gravità, fintantoché un'altra contingenza non interviene a scalzarla, sostituendosi ad essa. L’«assoluto» della contingenza, il chiudersi della contingenza in se stessa senza prevedere transiti, il suo essere senza legami, si riflette in una frammentazione narrativa in cui il racconto ricomincia ogni volta da zero, e ogni volta seguendo direzioni che la memoria non aiuta a percorrere: perché è una memoria che non riconosce più nelle cose e nelle situazioni l’eco del proprio vissuto. Una memoria che in tanto non riconosce, in quanto non si riconosce. L’ordine del tempo quale emerge in questo caso è quello dettato da un avvicendarsi di contingenze autosufficienti, il quale mette appunto fuori gioco quella necessità retrospettiva che permette di rileggere gli episodi più o meno discontinui della propria vita attraverso la figura del destino: è un tempo che, come le merci, si consuma affinché altro tempo possa essere disposto al consumo. La stessa obsolescenza che colpisce oggetti, situazioni, informazioni, affetti, colpisce così anche il tempo. Se qui vi è allora un’irrilevanza della memoria, essa si spiega con l’incapacità del tempo di «distendersi», agostinianamente, in quanto durata.
3. Messa all’incanto del passato
Tornando all’identità narrativa, si può dire dunque che il «ricominciare ogni volta da zero», non deriva da un’insufficienza dell’intrigo, ma da un’impossibilità dei vissuti; vale a dire dalla loro incapacità di lasciarsi ricapitolare in una narrazione lineare e cumulativa. Al limite, si potrebbe parlare di una narrazione che non dà più luogo a nessuna storia. E là dove viene meno la storia è difficile immaginare un uso della memoria differente da quello che consegue inevitabilmente dall’attuale prova della sua disfunzionalità: irrilevanza del passato individuale e collettivo, declino dello spazio di esperienza.
Cosa è dunque, qui, il passato? Nel caso si tratti del passato individuale, è l’orizzonte di una serie di vissuti che, per così dire, non riescono più a «fare testo», poiché il loro riferimento è a situazioni di cui scompare il nesso con i vissuti su cui si misura l’attualità e l’urgenza della prassi presente: perciò, esso può essere – e forse addirittura deve essere – dimenticato, reso inessenziale, superato. Il presente, con il suo modo assoluto di mettere in scena il mondo, condanna di fatto alla scomparsa il passato autobiografico, lo squalifica soppiantandolo a favore di una ripetizione autoreferenziale di sé che neutralizza la lezione del passato, poiché ad esso, in queste condizioni, non è più riconosciuta alcuna «autorità»: vi è infatti motivo di collocare le cose sulla sfondo della loro profondità temporale, quando queste ultime sembrano staccarsi, di volta in volta, da una superficie piana senza spessore?
Nel caso poi si tratti del passato collettivo, esso è invece l’immagine insufficiente e inefficiente di un presente che, superandolo, ne radicalizza le potenzialità; esso è dunque una dimensione del tempo rispetto a cui occorre sempre procedere oltre: poiché nulla di ciò che è stato manca a quel presente che concepisce se stesso quale operatore di incremento, di sviluppo e di accelerazione dei percorsi che lo hanno condotto ad essere così come è. Per questo, ora, il passato può essere tranquillamente dimenticato: esso non insegna e non aiuta a capire nulla che il presente non insegni e non aiuti a capire meglio. Naturalmente vi è in questa rappresentazione ideologica del presente un pensiero del passato cha fa tabula rasa di qualsiasi progetto o di qualsiasi speranza che non abbia trovato realizzazione in quella storia, in quell’insieme di tradizioni e di vicende, cui appartiene anche il presente: qui il passato non è mai «il cimitero delle promesse non mantenute» su cui Ricoeur, sulla scorta della lezione benjaminiana, invita ad orientare la coscienza storica[4]. E questo perché il passato vale ancora solo per quel tanto che serve a confermare e a legittimare il presente, e non certo a rischiararlo criticamente sulla base di un lavoro della memoria capace di risvegliare e rianimare quanto di inadempiuto giace in esso[5].
Il rischiaramento critico del presente presuppone invece una coscienza per la quale il commercio con il mondo non può essere solo circoscritto ai compiti di comprensione e di azione che il presente impone di volta in volta.
La riproduzione del presente, che agli occhi del soggetto si confonde con la riproduzione stessa della vita nel qui e ora dell’esistenza storica, impone compiti di ordine prevalentemente funzionale. Si tratta di una funzionalità dettata dalla contingenza, ma il cui modo di presentarsi è quello della necessità. È questa la via per mezzo della quale il presente può assumere il volto dell’assoluto, e quindi giudicare come operativamente irrilevante il proprio rapporto con il passato. In questo senso, tutto quello che serve all’orientamento di una prassi efficace lo si trova qui, nei segni e nelle direttive che il presente, come realtà inaggirabile, dissemina sul suo terreno. Allo stesso modo, tutto ciò che occorre essere, in quanto identità agente, lo si trova qui, palesato da questi stessi segni e da queste stesse direttive.
Il rischiaramento critico del presente presuppone allora una coscienza in grado di ricondurre la contingenza al cuore stesso della necessità. Il che significa darsi gli strumenti per attivare la memoria di quel processo nel corso del quale si è prodotta la confusione dell’una con l’altra. Dopo Nietzsche (e Foucault) la memoria di questa storia si chiama genealogia. La coscienza genealogica è insieme storica e critica perché colloca il presente nel corso di una vicenda che dimostra l’inconsistenza della sua pretesa di assolutezza. Dal punto di vista dell’identità, l’attivazione di una coscienza di questo tipo, produce anche sempre un effetto disorientante, dal momento che facendo di ogni essere sociale un divenuto, riconsegna la realtà sociale al divenire. Il disorientamento consegue da un certa duplicità dello sguardo, poiché per un verso l’identità che si dà dentro questo essere, ha bisogno della sua stabilità per potersi riconoscere come tale, e quindi lavora al suo mantenimento, contrastandone il divenire. Per altro verso è perfettamente cosciente che come divenuto, il mondo appartiene al divenire, così come è proprio dell’identità rinegoziare continuamente le proprie coordinate.
Da una parte vi è lo sguardo funzionariale dell’identità che, definendosi attraverso lo scambio con un preciso contesto, fa di questo contesto il suo mondo vitale, “lavorando” alla sua riproduzione (come accade nel corso delle nostre azioni quotidiane). Dall’altra vi è lo sguardo sospensivo della critica che interviene riflessivamente su questo scambio, interrogandosi sulla sua legittimità.
4. Per una cultura critica
In fondo, il modello di questa differenza di sguardi è sempre ancora quello kantiano della distinzione tra uso privato e uso pubblico della ragione[6], dove per un verso è in gioco la stabilità di una certa relazione operativa con il mondo e per altro verso, invece, il suo possibile superamento. In questo modello, la ragione presenta due modalità distinte, ma non in contraddizione tra loro, di inscrivere il singolo nella relazione con il suo mondo. Una modalità esecutiva, in cui la ragione supporta passivamente lo svolgimento di singoli compiti nel quadro istituzionale di una determinata funzione civile, secondo le regole della professionalità che le sono proprie. E una modalità critico-valutativa, in cui la ragione affronta invece in modo attivo e libero l’analisi dei diversi istituti, delle diverse prassi e delle diverse dottrine in cui si riconosce e si rappresenta il corpo sociale. Nel primo caso, si tratta di una ragione al servizio delle funzioni cui il singolo è chiamato nel quadro delle attività che definiscono una determinata organizzazione della società, nel secondo la ragione chiama in causa questa stessa organizzazione, sottoponendola a un giudizio argomentato e trasmissibile. La differenza tra i due usi della ragione parla di un soggetto razionale capace di riflettere sulle condizioni della propria esistenza e sul contesto che ordina il vivere sociale. Un soggetto in grado di distinguere il proprio ruolo in quanto funzionario legato ad un’istituzione particolare e il proprio ruolo in quanto intellettuale rivolto al pubblico dei suoi lettori. La capacità di assumere alternativamente questi ruoli definisce l’ideale kantiano dell’uomo illuminato e libero, nel quale l’uso della ragione non è limitato alle attività che definiscono una certa professionalità (impiegato, ufficiale, funzionario ecclesiastico, ecc.).
L’agire responsabile a beneficio dell’interesse di un settore della comunità e in armonia con l’opera del governo mette in gioco una intelligenza delle operazioni che in molti casi non richiede altro se non passive abilità meccaniche. Attraverso l’attività lavorativa, l’individuo si vede in ogni caso affidato un compito che egli deve eseguire («dovere d’ufficio»[7]) in quanto necessario alla conferma di un certo ordine sociale. Ma questo ordine sociale definisce una comunità i cui interessi non si esauriscono nella riproduzione dei suoi singoli istituti (politici, religiosi, commerciali, educativi, militari). In quanto membro della comunità, l’individuo si riconosce, infatti, in un’appartenenza che supera quella della sfera stabilita dalla sua funzione professionale. In quanto uomo, poi, il cerchio si allarga ancora di più, estendendosi a quella che Kant chiama la «società generale degli uomini»[8]. L’individuazione di questa sfera, allargata all’intera umanità, colloca l’individuo singolo al di sopra delle istituzioni storiche cui appartiene come professionista e cittadino. L’impegno nei confronti di queste ultime contribuisce al buon funzionamento della società, ma non contempla anche la riflessione sulla società stessa. Dunque, la libertà di poter discutere su ciò che, a questo riguardo, dovrebbe essere migliorato per il bene comune, si legittima sulla base di una appartenenza che non mette in gioco l’individuo al livello della sua storicità congiunturale, bensì come rappresentante dell’umanità in genere. È in quanto uomo che l’individuo si riconosce libero di sottoporre al giudizio dei suoi simili quegli stessi ordinamenti nei quali egli, assecondandone le direttive, trova posto come cittadino e professionista. La libertà di cui parla Kant è la libertà illimitata dello studioso di «manifestare apertamente il suo pensiero»[9], cioè la possibilità di presentare al pubblico dei lettori i risultati di un lavoro della ragione capace di applicarsi ai suoi oggetti, sulla base di un esame severo e coscienzioso. Come studioso, l’individuo si libera dei vincoli che, al contrario, egli è tenuto ad osservare quando opera in qualità di professionista e cittadino. Poiché in questa veste, egli non ha dinnanzi a sé una comunità particolare di persone o una istituzione che lo impiega per svolgere compiti precisi, bensì il mondo intero, ossia il pubblico dell’umanità tutta. Questa liberazione da vincoli e obbligazioni, definisce uno scambio tra individuo e pubblico che sostituisce all’onere dell’ubbidienza l’esercizio del giudizio. Non v’è aspetto della realtà sociale che possa essere sottratto al giudizio della riflessione, così come non v’è riflessione che non possa essere sottoposta al giudizio del pubblico dei lettori. Kant pensa, qui, alla possibilità di un libero esame razionale delle istituzioni e delle convenzioni sociali attraverso cui far progredire il genere umano sulla strada dell’estensione delle conoscenze, della liberazione dagli errori, della affermazione generalizzata dell’autonomia e dell’emancipazione. La diffusione dell’illuminismo, come sviluppo dell’umanità sull’asse della storia, è – dice Kant – una destinazione originaria della stessa natura umana[10], tuttavia onde potersi realizzare occorre che il giudizio razionale sia libero di esercitarsi incondizionatamente, per poi essere messo alla prova attraverso un confronto pubblico. Questo uso pubblico della ragione presuppone una comunità, allargata all’intero genere umano, di scrittori e di lettori, capaci di indossare a turno, e senza restrizioni, i panni dello studioso. Il che significa accettare di discutere con i propri simili, grazie alla mediazione della scrittura, le proprie opinioni argomentate: nella convinzione che, dal punto di vista del progresso umano, nessun ordinamento può legittimamente pretendere di sottrarsi a un «esame severo e coscienzioso»[11].
Se, attraverso l’uso privato della ragione, l’individuo si afferma come funzionario di istituzioni storiche che definiscono un certo stadio nello sviluppo della vita associativa degli uomini, l’uso pubblico della ragione mette invece in gioco l’individuo come funzionario di questo stesso sviluppo, ossia come soggetto della storia. La non contraddizione tra questi due diversi funzionamenti della ragione, il fatto di poterli agire all’interno di una stessa identità grazie ad una distinzione chiara e precisa dei diversi ruoli che competono all’individuo, e soprattutto delle diverse forme di obbligazione e di responsabilità che lo legano agli altri uomini, nonché al proprio tempo, tutto ciò secondo Kant permetterebbe al «cammino dell’umanità»[12] di non subire battute di arresto nella sua aspirazione a procedere in direzione del miglioramento delle società umane.
Siamo, come si capisce, all’interno di una filosofia della storia che riconosce nel «libero pensiero»[13] la facoltà umana grazie alla quale l’umanità si emancipa dall’oppressione e dal pregiudizio, rendendo così effettivo il progresso delle proprie istituzioni. è una filosofia della storia che incrocia una antropologia per la quale ragione e intelletto costituiscono il terreno a partire da cui l’umanità perviene a fare luce sulla propria destinazione. Autonomia nell’uso dell’intelletto e uso pubblico della ragione sono le due esperienze che elevano l’uomo dal piano della singolarità a quello dell’universalità, nella misura in cui intelletto e ragione in questo caso riguardano l’individuo in quanto uomo, prima ancora che nella sua qualità di cittadino, fedele o funzionario. L’illuminazione circa la propria destinazione è in questo caso un sapere che storicizza l’individuo in quanto appartenente alla società generale degli uomini e alla storia dei suoi possibili progressi.
Noi, oggi, fatichiamo a comprendere l’utilità di questa distinzione, non solo perché la nozione di utilità domina le nostre esistenze, secondo una logica che rende del tutto obsoleta l’idea che l’illuminista Kant poteva farsi della dimensione pubblica, come orizzonte di comunicazione retta da una produzione razionale controllabile nella sua aperta e concentrica emendabilità. Prima ancora, scontiamo l’obsolescenza dei sottostanti modelli antropologico e di filosofia della storia. Quella immagine di uomo e quella immagine della storia si sono infrante nel corso del secolo scorso, quando una serie di eventi catastrofici dalle dimensione inaudite ha reso risibile l’idea che dietro il corso delle vicende umane sia possibile riconoscere la continuità di un processo di civilizzazione orientato al progresso e coinvolgente, passo dopo passo, l’intero genere umano. Il punto sul quale intendo, però, soffermarmi e concludere è un altro.
La società della conoscenza, per attenerci alla vulgata dominante, smarrisce la dimensione critica del pensiero, perché privilegia un tipo di produzione del sapere che corrisponde a quella modalità di prestazioni intellettuali che Kant identifica con l’uso privato della ragione. Risorse pubbliche ed energie individuali sono indirizzate prevalentemente all’incremento di una conoscenza volta a rispondere con sempre maggiore pertinenza alle esigenze - per rimanere all’interno del lessico kantiano - di una comunità di interesse limitata («una riunione domestica, per grande che sia»[14]). Il fatto è che se, come abbiamo detto, il mercato si estende alla totalità della dimensione pubblica, vuol dire che, a loro volta, anche le comunità di interesse assumono rilevanza pubblica, nel senso preciso di sostituire i loro interessi particolari agli interessi della «società generale degli uomini». È l’affermazione del privato sul pubblico. In questo quadro l’uso pubblico della ragione non ha più nessuna ragion d’essere, perché è la nozione stessa di pubblico che si è trasformata. La distinzione tra uso pubblico e uso privato della ragione viene a cadere, dal momento che ciò che appartiene alla sfera privata si percepisce come rappresentante stesso della sfera pubblica.