L’origine
della parola “federalismo”
“Federalismo” è parola (relativamente) nuova
[1],
che nasce alla fine del Settecento, nell’epoca delle rivoluzioni americana e
francese.
In verità, durante i lavori della Convenzione di Filadelfia, “federazione” e
“confederazione” erano citate promiscuamente, e invano cercheremmo il termine
“federale” nella Costituzione degli Stati Uniti. Essa, infatti, non fu il
risultato di un piano preordinato, ma il frutto di un compromesso tra due
correnti politiche, nessuna delle quali aveva ipotizzato una soluzione
federale: l’unico modello istituzionale fino ad allora disponibile era quello
dello Stato unitario e la sola alternativa possibile si trovava nel campo del
diritto internazionale, nella forma delle leghe o alleanze tra Stati sovrani.
Di conseguenza, tra i Costituenti di Filadelfia si contrapponevano i
sostenitori di uno Stato unitario che eliminasse la sovranità dei tredici Stati
e quelli che chiedevano il miglioramento della Confederazione fondata nel 1778,
senza limitazioni della sovranità degli Stati.
La parola “federalismo” emerge dopo la conclusione dei lavori della
Convenzione, per indicare la nuova e originale forma di governo creata attraverso
un’opera di ingegneria costituzionale. In particolare, il termine
Federalist
designa una raccolta di articoli pubblicati tra il 1787 e il 1788 sui giornali
dello Stato di New York al fine di convincere i componenti dell’assemblea di
quello Stato, chiamati alla ratifica della nuova Costituzione, e più in
generale l’opinione pubblica, della bontà del prodotto di Filadelfia. Quindi,
soltanto dopo l’entrata in vigore della Costituzione invalse l’uso di designare
“federazione” la nuova entità politica, la cui caratteristica venne individuata
nel fatto che non eliminava l’indipendenza degli Stati membri. Secondo la
definizione di uno degli autori del
Federalist, Alexander Hamilton, la
federazione è «un’associazione di due o più Stati in un unico Stato»
[2],
nel quale l’autorità dell’unione si estende ai singoli cittadini.
Parallelamente si consolidò l’uso di designare con il nome di confederazione la
vecchia forma di organizzazione, la lega permanente di Stati, e di chiamare
Articles
of Confederation il documento sul quale era fondata.
Il successo del federalismo
Poche parole, nel linguaggio politico e giuridico, hanno conosciuto lo
straordinario successo del “federalismo”, e poche parole presentano un analogo
tasso di ambiguità.
Il successo del federalismo è stato travolgente. Fin dall’Ottocento si è
tentato di riprodurre l’esempio statunitense, in Europa (Impero germanico,
Impero austro-ungarico, Confederazione elvetica), nelle Americhe (Canada,
Messico, Argentina, Brasile, Venezuela), in Australia. Ma la vera esplosione
del federalismo si è avuta nel corso del Novecento, dappertutto nel mondo
(dalla Nigeria alla Malaysia, dall’India al Belgio, dal Sudafrica all’Unione
europea), al punto da poter sostenere, nel 1987, che più del 40% della
popolazione mondiale viveva in comunità politiche formalmente federali, e da
contare ben 58 Stati ispirati ai principi federali
[3].
Se osserviamo più da vicino queste esperienze, non è però azzardato affermare
che ben poche presentavano caratteri in qualche modo accostabili al modello
statunitense.
Nato per indicare una specifica forma di organizzazione del potere politico
(quella disegnata dalla Costituzione degli Stati Uniti del 1787), il termine
federalismo è passato a definire qualsiasi assetto organizzativo nel quale il
potere sia diviso su base territoriale. Il successo della parola non equivale,
pertanto, al successo del modello che essa designava in origine.
L’ambiguità del termine, che cresce di pari passo con la sua diffusione, si è
manifestata fin dalle origini.
Negli Stati Uniti, infatti, il “federalismo” ha una valenza prevalentemente
unitaria: lo Stato federale si contrappone alla Confederazione in quanto vuole
realizzare «a more perfect Union», come recita il preambolo della Costituzione.
Ed è significativo che i “federalisti” assumano il ruolo di difensori
dell’unità dello Stato nello scontro che caratterizza i primi decenni e che
culmina con la secessione degli Stati del Sud (i “confederati”) e con la guerra
civile.
Negli stessi anni, nel diverso contesto francese rivoluzionario, il
“federalismo”, in quanto assetto istituzionale volto a valorizzare l’autonomia
e l’autogoverno locale, è proposto in alternativa allo Stato unitario. Ciò è
evidente nell’esplodere del contrasto tra i girondini, federalisti e decentralizzatori,
e i giacobini, sostenitori della unità e indivisibilità della Repubblica.
Questa duplice contrapposizione (Stato federale
versus confederazione;
Stato federale
versus Stato unitario) evidenzia la duplice valenza,
unificante oppure disgregante, del federalismo. Tutto dipende, ovviamente, dal
punto di partenza. Il federalismo può servire sia ad unire che a dividere. Esso
può dare luogo a processi di unificazione di entità in precedenza divise,
oppure a processi di divisione del potere in ordinamenti in precedenza
accentrati.
Emerge inoltre, fin dagli albori, l’importanza del diritto comparato e della
circolazione dei modelli costituzionali nella realizzazione di assetti
federali. Il girondino Brissot ammirava la rivoluzione americana e il suo tentativo
di proporre una soluzione federale era legato alla volontà di riprodurre in
Francia il modello statunitense, come testimonia il suo scritto
De la France et des États-Unis, ou l’importance de la révolution d’Amérique pour le bonheur de la France (1787)
[4].
Pochi anni dopo, un altro esempio dell’influenza del modello statunitense è
rappresentato dall’opera di Alexis de Tocqueville
De la démocratie en
Amérique (1835-1840), che vede nel federalismo statunitense un correttivo
essenziale al processo di corrompimento della democrazia.
Ancora oggi, la scelta federale in un ordinamento è sovente ispirata dalla
osservazione di modelli stranieri. Con la novità, rispetto all’Ottocento, che
le soluzioni disponibili sul mercato del diritto comparato sono molte e differenziate.
All’archetipo statunitense si sono via via affiancati altri sistemi,
caratterizzati da proprie specificità, al punto che l’interrogativo che si pone
per un ordinamento che voglia federalizzarsi ricalca il titolo di un volume
italiano di qualche anno fa:
Quale, dei tanti federalismi?[5].
Federalismo, Stato federale, Stato regionale
Pur nella grande ambiguità di utilizzi e di significati, volendo semplificare e
fare un po’ d’ordine in una materia così semanticamente complicata, possiamo
distinguere due grandi valenze odierne della parola “federalismo”.
In primo luogo essa continua ancor oggi a indicare, così come avveniva alle
origini, nel
Federalist, un assetto istituzionale federale.
Federalismo è quindi sinonimo di “Stato federale”: con questa espressione si
designa una particolare forma di organizzazione del potere politico, nata nel
contesto della forma organizzativa che chiamiamo “Stato” e caratterizzata da
una separazione dei poteri su base territoriale, costituzionalmente garantita.
Tutte le funzioni pubbliche, legislative, amministrative, giudiziarie, vengono
ripartite tra un governo centrale, che si estende su tutto il territorio, e
Stati membri, che ricoprono porzioni limitate. Le linee fondamentali di questa
ripartizione sono contenute nella Costituzione federale: un documento scritto
che si pone al vertice delle fonti del diritto e che è modificabile soltanto
con un ampio consenso tanto a livello centrale che negli Stati membri.
Questa forma organizzativa presenta caratteri in qualche modo avvicinabili
all’archetipo statunitense. “In qualche modo”, poiché il modello disegnato dai
Costituenti di Filadelfia si è rivelato non del tutto praticabile ed è stato
oggetto di una profonda evoluzione.
Fin dai primi anni di vita della federazione, è apparsa difficilmente gestibile
la sua caratteristica principale, ovvero la divisione della sovranità. Dopo
decenni di incertezze e di indefinizione, lo scontro tra Stato centrale e Stati
membri nella lotta per la sovranità ha visto il prevalere dello Stato centrale
che, a seguito della guerra civile e della conseguente approvazione del XIII,
XIV e XV emendamento, è divenuto il garante dei diritti fondamentali e
dell’uguaglianza dei cittadini. È diventato pertanto impossibile continuare a
definire lo Stato federale con le parole usate da Hamilton nel
Federalist ed
è risultato evidente che Stato federale e Stato unitario non si differenziano
sulla base della spettanza della sovranità.
Un altro importante impulso alla trasformazione del modello originario è dato
dal passaggio dallo Stato liberale, nel cui contesto si sviluppa l’esperienza
statunitense, allo Stato sociale
[6].
Il modello del federalismo duale, basato sul principio della piena separazione
tra federazione e Stati membri, caratteristico dello Stato liberale e
compatibile con la concezione di uno “Stato minimo”, si è rivelato del tutto
inadeguato a fronte delle nuove esigenze poste dallo Stato sociale. La
necessità, per i governi centrali, di procedere al varo di politiche e
programmi nazionali è emersa con evidenza proprio negli Stati Uniti,
nell’era di Roosevelt e del
New
Deal, e con essa il rafforzamento degli apparati amministrativi centrali e
l’assunzione da parte della federazione di nuove competenze non enumerate, con
la progressiva invasione delle aree costituzionalmente riservate alle entità
federate. La perdita della nettezza e della precisione nell’attribuzione delle
responsabilità e nell’esercizio delle competenze ha parallelamente sollevato il
bisogno di coordinamento, imponendo la predisposizione di meccanismi di
raccordo e di coordinamento intergovernativo: si parla, al riguardo, di
federalismo cooperativo
[7].
Negli Stati federali di antica data, come gli Stati Uniti, il passaggio dal
federalismo duale a quello cooperativo è avvenuto attraverso l’azione congiunta
del legislatore federale e della giustizia costituzionale, anche se non mancano
emendamenti costituzionali che accrescono le competenze e le disponibilità
finanziarie della federazione. Altri ordinamenti, come la Germania, nati nel contesto dello Stato sociale, hanno introdotto il federalismo cooperativo
già nel testo costituzionale originario, allontanandosi pertanto fin
dall’inizio dall’archetipo statunitense.
A ciò si aggiunga, come ulteriore elemento di confusione, il fatto che, nel
corso del tempo, sono state messe a punto, nell’ambito di Stati unitari, altre
modalità di divisione territoriale del potere che, se per certi versi
richiamano quelle contenute nella Costituzione degli Stati Uniti, per altri
invece se ne differenziano profondamente, come lo Stato regionale, nato con la Costituzione della Seconda Repubblica spagnola, e ripreso in Italia nel 1947, in Portogallo nel 1975, in Spagna nel 1978, in Francia nel 1982, in Polonia nel 1998.
In definitiva, è oggi assai problematico definire che cosa si intende per
“Stato federale”: il federalismo è un termine da declinare al plurale
(federalismi), e accanto all’espressione Stato federale va sempre affiancato un
aggettivo, che indichi in concreto di quale esperienza stiamo parlando. Allo
stesso tempo, è molto difficile individuare i paesi che possono essere
qualificati come “Stati federali”.
In questo contesto, si identificano di solito alcuni elementi che sarebbero
essenziali per parlare di Stato federale, distinguendolo da altre forme di
organizzazione del potere, come lo Stato unitario o lo Stato regionale:
a) la ripartizione costituzionale delle funzioni legislative, amministrative e
giurisdizionali fondata sulla riserva allo Stato centrale di competenze
enumerate e sull’attribuzione della competenza generale agli Stati membri;
b) l’esistenza di autonomia costituzionale degli Stati membri, che possono
darsi proprie costituzioni;
c) l’esistenza di autonomia impositiva degli Stati membri;
d) la possibilità, per gli Stati membri, di concludere accordi internazionali;
e) la partecipazione degli Stati membri alla formazione di organi della
federazione e, in particolare, l’esistenza di una seconda camera federale;
f) la partecipazione degli Stati membri alla revisione della costituzione
federale;
g) l’esistenza di organi di giustizia costituzionale che garantiscano il
rispetto del riparto delle competenze;
h) l’esistenza di un diritto al territorio degli Stati membri, che si traduca
nella impossibilità di modifiche sprovviste del loro consenso.
Muovendo dalle caratteristiche dello Stato federale si individuano quelle dello
Stato regionale, in quanto di origine assai più recente. Si rileva, così, che:
a) le regioni non dispongono di competenze giurisdizionali; le competenze
legislative e amministrative loro spettanti sono espressamente elencate nella
costituzione, mentre allo Stato centrale è attribuita la competenza generale;
b) le regioni non dispongono di autonomia costituzionale, ma statutaria; esse
possono cioè determinare la propria organizzazione, nei soli limiti consentiti
dallo Stato centrale;
c) l’autonomia finanziaria delle regioni è circoscritta entro confini definiti
dallo Stato centrale;
d) le regioni sono sprovviste di potere estero;
e) non esiste una seconda camera che rappresenti le regioni;
f) le regioni non partecipano alla revisione costituzionale;
g) esistono organi di giustizia costituzionale che garantiscono il rispetto
delle sfere di competenza;
h) l’autonomia degli enti locali è costituzionalmente garantita e sottratta
agli interventi regionali.
Federalismo e regionalismo, Stato federale e Stato regionale rappresentano,
secondo questa impostazione, assetti istituzionali qualitativamente
differenziati, benché accomunati dal tentativo di fornire risposta a una
medesima esigenza: quella di conciliare un certo tasso di unità e un certo
tasso di autonomia nell’ambito della forma organizzativa dello Stato moderno
[8].
La devolution britannica: un’esperienza sui generis?
Un discorso a parte, per la difficoltà che si incontra nel collocarlo entro
la modellistica consolidata, merita il processo di decentramento che ha avuto
luogo alla fine del XX secolo nel Regno Unito, e che va sotto il nome di
devolution[9].
Questa consiste nella creazione di assemblee elettive in Scozia, Irlanda del
Nord e Galles e nel trasferimento ad esse di competenze normative (legislative
per le prime due, soltanto regolamentari per l’Assemblea gallese), a seguito di
tre leggi adottate dal Parlamento di Londra e sottoposte a referendum locali (Scotland Act 1998
of Wales Act 1998).
Le radici storiche della
devolution vanno rintracciate nella genesi del
Regno Unito che, come indica il suo nome, è frutto di un processo di
unificazione di distinte realtà politiche. È nel contesto della “questione
irlandese” che, ai primi del ‘900, nacque il concetto di “devolution”, con la
prima applicazione di un regime decentrato (tra il 1920 e il 1972) all’Irlanda
del Nord. Un tentativo di realizzare un decentramento di competenze in favore
di Scozia e Galles fu compiuto nel 1978 dal partito laburista, allora al
governo, ma la possibilità di avviare la
devolution si scontrò con
referendum
popolari che diedero esito negativo.
Caratteristica della
devolution – e elemento distintivo rispetto alle
esperienze federali e regionali – è la flessibilità del riparto di competenze,
che resta sempre disponibile per il livello centrale.
Infatti, nonostante in tutti e tre i casi vengano espressamente elencate le
materie riservate al parlamento di Londra (
reserved matters), mentre le
devolved
matters sono individuate attraverso un criterio residuale, tuttavia è
sempre presente una disposizione la quale ribadisce la possibilità, per il
parlamento britannico, di continuare a legiferare nelle materie devolute.
Pertanto, la
devolution si configura non come una vera e propria
ripartizione di competenze tra livelli di governo diversi, bensì come una
“devoluzione” compiuta dal centro di competenze proprie, che sono
momentaneamente assegnate agli organi dell’entità locale “devoluta” (parlamento
e governo scozzesi), ma possono in ogni momento essere riattratte al centro,
sia attraverso una modificazione espressa del riparto delineato nelle leggi
istitutive, sia attraverso il semplice esercizio da parte del parlamento e del
governo britannici, che non abbisogna di specifiche giustificazioni.
Conseguenza di questo tipo di impostazione è l’esistenza di una serie di
controlli stringenti di tipo preventivo sugli atti (legislativi, regolamentari,
amministrativi) degli organi devoluti, nonché la possibilità dell’insorgere, di
fronte ai giudici, di
devolution issues, ovvero di questioni relative al
rispetto, da parte di tali atti, dei limiti ad essi posti dalle leggi
istitutive. Naturalmente, sottostante a ciò, è la irrisolta questione della
limitazione della sovranità del parlamento britannico in nome di una
costituzione rigida, le cui norme, tra le quali quelle relative al riparto
delle competenze tra i livelli di governo, si impongano a
tutti i
legislatori. Nonostante gli sviluppi registrati negli anni più recenti,
soprattutto in conseguenza del diritto comunitario, tale decisivo passaggio è
ancora da compiere nell’ordinamento britannico. Riguardo alla
devolution,
ad esempio, la dottrina è concorde nell’identificare una impossibilità, per Westminsterdi, sopprimere il parlamento scozzese e di revocare lo
Scotland Act, in quanto approvato con referendum (e quindi
rinforzato) – e ciò configura indubbiamente una limitazione della sovranità –
mentre assai più dubbia è la questione delle modifiche o deroghe alle
disposizioni dell’
Act, anche se la maggior parte degli autori concorda
sulla necessità del consenso del parlamento scozzese.
Come spesso avviene nell’ordinamento britannico, in mancanza di rigide regole
costituzionali, anche la concreta evoluzione della
devolution è rimessa
a fonti di fatto, a convenzioni costituzionali. Lo sviluppo di queste
convenzioni, nei primi anni di vita della
devolution, è stato nel senso
di privilegiare il momento cooperativo e collaborativo rispetto a quello
conflittuale.
Per quanto riguarda, ad esempio, le competenze legislative della Scozia, si è
sviluppata una convenzione costituzionale (la
Sewel convention, così denominata in omaggio a Lord Sewel che, nel corso del dibattito parlamentare
ne aveva per primo sottolineato la necessità) sulla base della quale quando un
disegno di legge introdotto a Westminster tocca materie devolute, il Parlamento
scozzese è invitato a esprimere, attraverso l’approvazione di una
Sewel
motion, il suo consenso. Essa costituisce un elemento fondamentale dei
rapporti esistenti tra Regno Unito e Scozia, che contribuisce a integrare
profondamente il dato normativo dello
Scotland Act, al punto che proprio
sulla sua esistenza e sul suo rispetto si basa la definizione della forma di
Stato come “quasi federale”.
Inoltre, l’attuazione della
devolution è stata affidata in larga parte,
specie per quanto riguarda le funzioni amministrative, ad accordi
intergovernativi , il principale dei quali è il
Memorandum of understanding,
una sorta di
agreement siglato il 1 ottobre 1999 tra gli esecutivi di
Londra, Edimburgo, Cardiff e sottoscritto nel 2000 anche da Belfast.
Per comprendere la reale sostanza della
devolution britannica non è
sufficiente quindi la lettura dei tre
Acts del 1998. Da questi emerge
uno Stato decentrato assai debole, ove è assente qualsiasi garanzia
costituzionale dell’autonomia regionale, che è rimessa completamente nelle mani
del parlamento di Westminster. Se si osservano anche le convenzioni
costituzionali e gli accordi intergovernativi, il quadro si fa più complesso, e
si può affermare che, pur con le consuete peculiarità britanniche – connesse
all’assenza di una costituzione rigida e al principio della supremazia del
parlamento – la
devolution si inserisce a pieno titolo nei processi di
decentramento che hanno investito in molte parti d’Europa lo Stato unitario
alla fine del XX secolo.
Uniti ma diversi: la “volontà di federalismo”
Alla visione del federalismo e del regionalismo incentrata sullo Stato federale
e lo Stato regionale come forme di organizzazione del potere se ne affianca
però, sempre più frequentemente, un’altra: quella che collega la soluzione
istituzionale federale con la esistenza di una
affectio foederalis della
società, con la necessità di rispondere ad aspirazioni profonde di una società
caratterizzata da un pluralismo – non importa se economico, religioso,
razziale, storico, linguistico – di tipo territoriale e che focalizza la sua
attenzione sulla base sociale del federalismo, più che sui congegni giuridici.
In questa ottica lo Stato federale viene a costituire una manifestazione, forse
la più rilevante e riuscita, di un fenomeno di più ampia portata, che ha
caratterizzato, con una crescita esponenziale, l’evoluzione dello Stato
liberale prima, di quello democratico poi, in vaste aree del pianeta, fino a
diventare uno dei tratti caratteristici dei contesti politico-sociali del tempo
in cui viviamo: il diffondersi dell’autonomia e dell’autogoverno delle
collettività territoriali. In tale prospettiva lo Stato federale perde quella
singolarità che lo aveva connotato all’inizio della sua esistenza, nella
lontana epoca delle grandi rivoluzioni, alla fine del Settecento, per venire
riportato entro la categoria generale degli ordinamenti politicamente decentrati,
dei sistemi fondati sul pluralismo degli ordinamenti e sulla distribuzione del
potere in favore di collettività stanziate su porzioni di territorio.
Si può poi discutere su quali siano gli elementi – riguardo alle tecniche di
riparto di competenze, alla organizzazione dello Stato centrale o degli
ordinamenti decentrati, alla partecipazione dei soggetti periferici alle
funzioni e agli organi dello Stato centrale – secondo cui ricostruire le varie
tipologie nelle quali la categoria degli Stati politicamente decentrati si
articola: è indubbio che sussistano diverse opzioni di tecnica istituzionale
per realizzare il principio di autonomia.
Quello che rileva, tuttavia, è che, per comprenderne appieno la portata, è
imprescindibile collegare il fenomeno federale alla “volontà di vivere insieme”
(di con-vivere) di gruppi territorialmente individuati. Si ha “vero
federalismo” soltanto ove esista un “desiderio di federalismo” (si potrebbe
dire, ove esista una
Wille zum Föderalismus, riprendendo in un diverso
ambito –
Wille zur Verfassung – un’espressione usata dal
costituzionalista tedesco Konrad Hesse), un’aspirazione di comunità stanziate
su un territorio che «
desiderino (corsivo nostro) nello stesso tempo
stare riunite sotto un unico governo centrale indipendente per taluni scopi e
di organizzarsi sotto l’autorità di governi indipendenti per altri»
[10];
ove, in altri termini, convivano due distinte cerchie di appartenenza, quella
federale e quella locale, per cui al desiderio di unione si affianchi la richiesta
di riconoscimento di peculiarità locali.
Come è stato detto, «l’essenza del federalismo non consiste nella struttura
istituzionale o costituzionale, ma nella società stessa. Lo Stato federale è un
congegno attraverso il quale i caratteri federali della società si articolano e
trovano protezione»
[11].
Il federalismo appare una delle possibili manifestazioni della volontà di
mantenere “l’unità nella diversità”, della volontà, in altri termini, di
convivere nella diversità e di dotarsi, conseguentemente, di strumenti
istituzionali per agevolare questa convivenza. Alla base dell’assetto
istituzionale federale sussiste la volontà del corpo sociale di coniugare unità
e diversità: da questo punto di vista, sembra particolarmente riuscita la
definizione di “Stato federale unitario” presente nella dottrina tedesca. Non
sempre tale volontà riesce a tradursi in soluzioni istituzionali adeguate,
quanto all’
an o al
quantum di assetti istituzionali federali:
potremmo ritenere che, nella fase storica in cui viviamo, l’Unione europea,
l’Italia o l’Indonesia costituiscano, pur con le enormi differenze che le
separano, esempi in questo senso, ricordando che il federalismo ideale è quello
che è confezionato su misura per rispondere ai bisogni di un certo paese.
La natura federale di uno Stato è indipendente dalle forme attraverso le quali
il processo di federalizzazione ha luogo. Gli assetti costituzionali federali
possono essere il risultato di un processo tanto centrifugo quanto centripeto,
conseguente o alla aggregazione di unità politiche precedentemente divise, o
alla decentralizzazione di Stati in precedenza unitari.
Nel primo caso, scopo iniziale dell’assetto istituzionale federale è quello di
“diventare uniti” (
come together): la genesi dell’ordinamento statuale
deriva da un procedimento di unione di entità in precedenza indipendenti (o,
comunque, separate), oppure dal rafforzamento di vincoli confederali già
esistenti; da un movimento centripeto, in definitiva, nel quale l’anelito di
federalismo è evidente nello stesso processo federativo.
Ma, benché in modo meno evidente, anche nel secondo caso il federalismo mostra
la sua valenza a produrre unità, in quanto, tramite il decentramento dello
Stato unitario, ossia attraverso il riconoscimento giuridico della diversità delle
sue componenti territoriali, esso consente di mantenere un legame tra entità
che, in assenza di una organizzazione federale, troverebbero insopportabile il
vincolo unitario, dando probabilmente luogo a spinte centrifughe e
disgregative: si tratta dei sistemi federali il cui scopo è quello di
“mantenersi uniti” (
hold together).
Si potrebbe dire così: non esiste un modello universale di federalismo, il
federalismo si manifesta in molteplici forme e dimensioni. Ogni Stato federale
ha la sua struttura istituzionale e i suoi meccanismi di funzionamento, tenuto
conto di elementi interni e propri (storici, geografici, sociologici o
economici), che determinano la cultura politica del paese. Ma,
indipendentemente dal tipo di
federalizing process (centripeto/centrifugo),
l’assetto federale tende a esprimere una aspirazione profonda della società,
configurandosi come una soluzione storica volta a dare risposta a esigenze
specifiche di gruppi sociali che vivono su un certo territorio.
La scelta di dotarsi di un assetto istituzionale federale, secondo quelli che
ne vengono comunemente considerati i caratteri, e l’autoqualificazione in senso
federale di un ordinamento non sono peraltro ininfluenti neppure secondo questa
prospettiva. In ciò, le due impostazioni convergono: adottare e conservare una
costituzione federale è forse il primo e principale mezzo attraverso il quale
una comunità esprime la sua “volontà di federalismo”.
[1] Cfr. C. Malandrino,
Federalismo.
Storia, idee, modelli, Carocci, Roma 1998.
[2]A. Hamilton – T. Madison – J. Jay, Il federalista, tr. it. di L. Levi, Il Mulino, Bologna 1997.
[3]
D. Elazar,Idee e forme del
federalismo, tr. it. di L.M. Bassani, Edizioni di Comunità, Milano 1995.
[4]
F. Pepe,Un progetto “americano” per la Francia tra antico regime e rivoluzione, in S. Delfino (a cura di), Federalismi
e democrazia, USIS, Roma 1999, pp. 16 ss.
[5]
A. Pace (a cura di), Quale,
dei tanti federalismi?, Cedam, Padova 1997.
[6]
G. De Vergottini, Stato
federale, in Enciclopedia del diritto, Giuffré, Milano 1990, vol.
XLIII, pp. 831 ss.; G. BOgnetti, voce
Federalismo, in Digesto delle discipline pubblicistiche, Utet,
Torino 1991, vol. VI, pp. 273 ss.
[7]
Per questa evoluzione, ci sia consentito rinviare a T. Groppi,Il federalismo, Laterza, Bari 2004.
[8]
M. Volpi,
Stato federale e
stato regionale: due modelli a confronto, in G. Rolla (a cura di),
La riforma delle autonomie regionali,
Giappichelli, Torino 1995, pp. 33 ss.
[9]
A. Torre, “On
Devolution”. Evoluzione e attuali sviluppi delle forme di
autogoverno nell’ordinamento costituzionale britannico, in “Le regioni”,
2000, pp. 203 ss.; P. Leyland,L’esperienza
della devolution nel Regno Unito: uno sconvolgimento dell’assetto
costituzionale?, in ivi, pp. 341 ss.
[10] K. Where,Del governo federale,
tr. it. di S. Cotta, Il mulino, Bologna 1997.
[11] W.S. LIVINGSTON, Federalism
and Constitutional Changes, Clarendon Press, Oxford 1956.