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Colpa, vergogna, silenzio vittimario a partire dalla Shoah

BARBARA HENRY
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

Premessa

Per accostarsi con le dovute cautele metodiche al tema, è necessario delineare due questioni di sfondo, e i concetti corrispondenti, da cui prendere avvio.

Prima questione di sfondo
Occorre chiedersi come sia possibile avvicinarsi, con un atteggiamento cognitivo assiologicamente connotato, all’eccedenza incommensurabile, allo scarto di fronte a ciò che prima del suo verificarsi era stato impensabile perché inedito in quella specifica configurazione; a qualcosa che per molto tempo da molti/e testimoni o spettatori è stato rifiutato, negato nella sua plausibilità esperienziale. Non si tratta qui dell’acquiescenza, né del diniego di chi fra i cittadini dei popoli e gruppi coinvolti aveva dinanzi e non vedeva o non voleva vedere, ma di un vero e proprio scacco del pensiero e della capacità immaginativa di fronte alla negatività radicale dei fenomeni. Ci si domanda, in altre parole, come sia possibile accostarsi, con l’intento di comprenderlo, al genocidio denominato Shoah, e nella condizione emotiva spaesata e sconcertata che ci viene anche dall’essere figli e figlie di tempi post-metafisici e del pari post-secolari, come lo sono i nostri. Il concetto di sfondo è quindi nient’altro se non la questione del male, e il carattere inaggirabile di essa.

Seconda questione di sfondo
Ci si deve altresì interrogare (senza poter rispondere in questa sede) su come si possa/debba trattare scientificamente e filosoficamente l’intreccio del male estremo (in qualità) con il male “in grandi numeri”, così come si è realizzato nel Novecento sub specie eliminazione sistematica pianificata degli Ebrei d’Europa, e senza poterci permettere di chiudere con la Shoah il novero dei genocidi. Diversificati, numerosi, successivi alla Shoah, retrodatati/negati (nel caso dello sterminio genocidario degli Armeni, nel 1916). Il concetto di sfondo corrispondente è se esista e quale sia la specificità/ruolo canonico della Shoah rispetto ai genocidi storicamente verificatisi. Si tratta di vedere ora quali percorsi appropriati (altrimenti detto, quali metodi) siano necessari a riformulare le due questioni sulla scorta dei due concetti corrispondenti e le loro diramazioni. E quale possibile convergenza emerga, alla fine, in vista di una ricerca futura che si concentri su una specifica modalità di silenzio vittimario.


Cartografia come metodo

Una proposta, già avanzata da alcuni/e, ma ancora da esplorare a fondo, è suggerita dalle due precedenti questioni: in sintesi, di tratta di compiere da un lato una genealogia degli avvenimenti valorizzando apporti archivistici, storici e storiografici, e dall’altro di condurre l’ermeneutica del “senso-non senso” di quanto sia avvenuto in Europa a partire dalla presa del potere di Hitler fino al 1945; ossia, occorre ricercare quale fosse la specificità dei campi di sterminio nazisti, e del sistema tecnocratico e ideologico che li sorreggeva, di quei luoghi e di quella realtà, da prendersi quindi come cifra ma non anche come caso esclusivo/esaustivo dell’universo concentrazionario qua talis, che sarebbe piuttosto da collocarsi nella storia e nel pensiero della modernità occidentale, e non solo. Non lo si può fare né con una perimetrazione, né con una mappatura, essendo entrambe soluzioni descrittive bidimensionali e statiche, ma piuttosto con una cartografia, per usare il linguaggio di Rosi Braidotti e di altre studiose post-strutturaliste (cfr. Braidotti 2002). La cartografia è la raffigurazione in movimento di un territorio che cambia nel mentre lo si osserva, in cui i volumi, i vuoti e i pieni, le asperità e gli scarti, come del pari i punti fissi di riferimento (i sistemi di rilevanza) accanto ai punti mobili sono appresi dall’osservatore/osservatrice che vi si muove dall’interno, e non guarda mai dal di fuori o dal di sopra, negando la possibilità di collocarsi in un non-luogo (che è un’idea frutto di illusioni scientiste). Mai come nel caso della Shoah siamo infatti immersi nell’ambito di indagine, e anche dolorosamente. Mai come in questo caso, tratteggiare una cartografia, immagine tridimensionale dei luoghi materiali e simbolici in mutamento, è una esigenza metodologica fondamentale. Ne siamo coinvolti/e, che lo si voglia o lo si sappia, e non per motivi di mera imputazione di responsabilità, ma anche per aver condiviso la forma di vita, i sistemi di rilevanza dell’occidente europeo, che ha partorito ancor prima del 1933 una compagine di pensiero e di esperienza e di azione, un’atmosfera culturale fatta di componenti molteplici ma convergenti verso la tecnocrazia e la reazione; questa temperie ha reso possibile, non ostacolandola o facilitandola o promuovendola, la successiva cristallizzazione e il precipitato dei vari elementi in terra tedesca: ovvero, il genocidio tecnologicamente, programmaticamente e consensualmente perpetrato. Ciò di cui parla Jeffrey Herf, nel suo volume degli anni ottanta, e ripreso anche da Cristopher Browning, lumeggia il connubio fra tecnocrazia, e conservazione dei cosiddetti Modernisti reazionari, gli unici veri pre-nazisti e nazisti, che si differenziano da altri filosofi della tecnica degli anni trenta del ‘900, che erano certo di matrice ideale molto variegata, ma sovente tragicamente ignari di quanto si stesse preparando nella società tedesca di quegli anni (cfr. Herf 1984; Henry 1993). La panoramica del terreno di coltura da cui sorse, per volontà di alcuni, per distrazione o errore di altri, la tecnocrazia a impianto e con finalità genocidari, è stata molto ampia e variegata, ed internamente contraddittoria. È un esempio di come potrebbe essere la cartografia chiamata ad apprenderla, con i bordi della rappresentazione sfrangiati, tridimensionali, cangianti, non ‘chiusi’, ma non per questo fluidi, liquidi, o facilmente compenetrabili. Anzi, le Humanities hanno ancora molto da apprendere ed elaborare sulle asperità dei passaggi fra contesti, e sulla dolorosa consistenza, nelle ricerche biografiche, storiografiche, teoriche, dei costi umani e sociali di traduzione/traslazione da un contesto (materiale e immateriale) all’altro.
Non a caso, dunque, la questione dell’intenzione e della colpa individuale rispetto al male estremo, prodotto e inferto a singoli e a gruppi è uno, anche se non l’unico dei nuclei più importanti di entrambe le questioni di sfondo iniziali, il problema del male, la qualificazione della Shoah. Ha una funzione di raccordo, nel senso seguente.
Il tema, scomodo/scabroso appunto per i/le post-metafisici come siamo noi, dell’impossibilità di qualunque forma di teodicea, ancor più se politica, come Ernst Cassirer interprete di Rousseau aveva prospettato, è solo timidamente accennato, e anzi quasi rifiutato in moltissimi studi recenti (cfr. Cassirer 1932; Gatti 1996). Si può concordare con questi esiti, per un verso. Per un altro verso, si può restare non pienamente soddisfatti/e dello stato dell’arte degli studi; come se la concezione del male superficiale e banale, il male compiuto senza cattive intenzioni, quello anti-metafisico per eccellenza, fosse di per sé una mossa vincente, e non fosse invece uno scacco diagnostico nel senso che tutti/e possiamo diventare assassini di massa, nella strategia della normalizzazione dei comportamenti attuata dai cosiddetti, e numerosi, regimi tanatopolitici (cfr. Esposito 2004); sono quelli i cui vertici politici e le cui popolazioni hanno perpetrato genocidi su basi biologiche, etniche e razziste “dopo il 1945”. E neppure questi accenni sono bastevoli a completare il quadro. Quest’ultimo può venir qui soltanto abbozzato, nell’intento di stimolare linee di ricerca future e in una molteplicità di settori scientifici caratterizzati da chiavi di lettura diversificate, ma proprio in quanto tali complementari rispetto al bisogno di avere oggi una storiografia della Shoah interdisciplinarmente “equipaggiata”. Uno sviluppo teorico di rilievo per la storiografia è infatti quello riguardante la normalizzazione dei comportamenti genocidari, se preso dal punto di vista della filosofia delle scienze sociali, e in un significato dischiuso da entrambi i concetti sottesi alle questioni di sfondo, a questo punto così specificati: l’indicibilità/inaggirabilità della questione del male, il significato del carattere “canonico” della Shoah.
Vittime e carnefici, fiancheggiatori e complici, osservatori imbelli, quelli/e di allora, o quelli/e di oggi, nei rinnovati e pur inediti scenari genocidari che hanno costellato il secolo passato; tutti/e sono coinvolti nel misfatto in una forma inquietante perché latitudinaria, e soggetta a normalizzazione tramite routines, di diverso tipo. È questa la forma indagata anche nella storiografia, che solo erroneamente può venir giudicata obsoleta, degli ordinary men (in questo caso specifico i carnefici erano effettivamente in maggioranza maschi), sviluppata alcuni decenni fa da C. Browning rispetto ai riservisti della Polizia del 1945 (cfr. Browning 2017). Questi individui furono inviati in zone occupate dai nazisti in Polonia a uccidere in massa ebrei di tutte le età, e di entrambi i generi, direttamente, ovvero senza neanche lo schermo della segmentazione del processo di sterminio. Per inciso, la parcellizzazione e la conseguente standardizzazione delle fasi della eliminazione di massa all’interno dei campi è stato uno degli strumenti di “ottundimento” sistematico, e indotto nelle vittime, rispetto a quanto stesse realmente avvenendo: si ricordi che i morti venivano fatti rimuovere da altri ebrei, resi complici dai perpetratori del processo di disumanizzazione compiuto nei loro confronti e dei propri sodali e simili.
Per converso, la storiografia degli “ordinary human beings”, affiancata dai successivi esperimenti psicologici di Stanley Milgran e di Philip G. Zimbardo (cfr. Milgran 2007; Zimbardo 2008) ha un effetto demistificatore aggiuntivo rispetto agli studi sulla neutralizzazione dello sterminio nei campi di concentramento; tale linea di ricerca mostra infatti come sia possibile e facile trasformare persone normali e “per bene” in spietati e benevolenti carnefici, o in fiancheggiatori imbelli, tramite la regolarizzazione del condizionamento all’altrui eliminazione fisica diretta, in una specifica situazione, reiterata e interiorizzata tramite abitudine e mimesi, e quasi sempre in nome del principio d’autorità. Potremmo citare esempi molto recenti, dalle guerre balcaniche all’Iraq, e pertanto molto distanti dalla costellazione storica e culturale del periodo 1933-1945. Questa è una cartografia della “facilità a indurre” e della “disponibilità alla deresponsabilizzazione omicida”, che si affianca a quelle dedicate alla banalizzazione del male tipica della complessa macchina di morte messa in essere dal regime nazista. Nelle modalità in cui si è esplicato in forma integrata tanto il meccanismo di deresponsabilizzazione istituzionalizzata dello sterminio di massa, quanto la neutralizzazione morale dell’omicidio in nome del principio di autorità, si condensa il carattere paradigmatico della Shoah.
Ora, per evitare tanto generalizzazioni quanto lamentationes contro la natura rea dell’umanità, occorre riprendere il cammino di ricerche attente al frammento, alla ricorsività interna, all’ermeneutica dei contesti, alla svolta acroamatica (acroamatic turn, la svolta metodica verso l’ascolto) nei metodi empirici qualitativi. Fondamentale in questo caso è il connubio fra discipline, storiografiche filosofiche e psico-sociali, a causa dello spessore del substrato emozionale e immaginale pre-razionale, da cui le ricerche più avvertite sulla Shoah non prescindono più. Un esempio fra tutti, che unisce metodo cartografico, acroamatico, ed esemplare. Il sintagma di difficile traduzione «Unverlierbare Zeit» (tempo che non si riesce a perdere/non si lascia perdere) è divenuto un fattore centrale di conoscenza per la ricerca entro le scienze sociali e della cultura, alleate proficuamente negli studi sul razzismo, sull‘antisemitismo, sulla Shoah. Unverlierbare Zeit è anche il titolo di un volume a più voci, di psicanalisti e psicologi sociali, uscito in Germania nel lontano 2001, e rimasto tuttora poco valorizzato in una verace prospettiva interdisciplinare e internazionale, un testo, ispirato a Jean Améry, ma fondato su ricerche biografiche qualitative e su casi di analisi psicoanalitiche. Il volume rompe il tabù della indicibilità e della pensabilità stessa di un confronto fra gli effetti del silenzio dei rispettivi genitori sulle seconde e terze generazioni tanto delle vittime quanto dei carnefici (cfr. Grünberg, Straub 2001). Pensare ad identificare gli effetti del non-detto trasformantesi in gestualità quotidiana, che impregna e segna negativamente le configurazioni psichiche e le scelte di vita dei figli/e e nipoti, è stato qualcosa di relativamente nuovo e per certi aspetti, di dirompente. La trasmissione involontaria e indiretta del misfatto e della colpa ai figli/e innocenti da parte dei carnefici non è infatti meno consistente della trasmissione ai rispettivi figli/e della vergogna da parte delle vittime, anche se tali processi di trasmigrazione esiziale assumono modalità specifiche e differenziate. E non cancellano, anzi sottolineano la radicale differenza fra chi in origine commette il male e chi lo subisce.
Ammessa la veridicità esemplare difficilmente contestabile di tali ricerche empiriche, di matrice psicanalitica e scientifica (entro le discipline sociali qualitative), che ne è del silenzio come lenimento, come terapia, come spazio di elaborazione di fronte all’ancora più agghiacciante esperienza dell’ignavia collettiva di chi non vuol vedere, sentire, ricordare quanto avvenuto? L’oblìo collettivo è l’altra faccia della menzogna operante come occultamento sistematico dei misfatti accaduti. Proviamo a confrontarci con tale problema raccontando una storia, quella che ritrae alcuni aspetti dell’esperienza biografica di Jean Améry, che appunto è il riferimento anche della linea di ricerca psicanalitica e intergenerazionale sopra citata; è una vicenda necessariamente trasfigurata dalla particolarità del contesto, estremo, liminale; cosa che implica essere ancor più dolorosamente consapevoli/e e rispettosi/e delle ragioni, non tanto del silenzio senza aggettivi, ma di una certa modalità, aporetica e irriducibile, di silenzio vittimario. Una modalità che merita indagini individualizzate, che ricorrano al tipo di validità cognitiva intrinseca alla ricerca biografica, riletta non da ultimo attraverso la produzione letteraria del soggetto di tale indagine. Un’indagine i cui risultati possano assumere significato emblematico, non anche carattere omologante. Per favorire questa specifica sensibilità conoscitiva è opportuno “lasciar parlare” i casi individuali, dando dignità scientifica e rilievo alle specificità singole attraverso pratiche di decostruzione. Ciò significa: far sì che il contesto individuale emerga non all’interno di una definizione sovraordinata che lo normalizzi occultandone gli aspetti peculiari, bensì in una configurazione emblematica, per cui tutti i tasselli microscopici che compongono il contesto abbiano, o possano acquisire, dignità scientifica.


Esemplarità come metodo. Jean Améry, il silenzio, l’aggiramento dell’indicibilità radicale della Shoah

1. Accettiamo come esergo la frase (generalmente attribuita a Todorov) secondo cui, se il coraggio e la generosità sono di pochi, «quello che si può comunque sperare è che si riconoscano i momenti di sofferenza, e si colga allora l'appello che ci viene rivolto». In omaggio ad essa, si può dire che sia stato precisamente un appello, lucido e appassionato, ciò che Jean Améry rivolse ai suoi contemporanei attraverso la sua intera opera di filosofo, scrittore, intellettuale. Jean Améry, pseudonimo di Hans Mayer, nacque il 17 ottobre 1912 a Vienna. Si formò inizialmente nell'ambiente nostalgico rispetto ai fasti del passato, e denso di suggestioni irrazionalistiche, della provincia viennese, ma fu per contrasto nella capitale, alle lezioni di Schlick, Carnap e Wittgenstein, che lo scrittore sviluppò una salda fede nella chiarezza del ragionamento e del linguaggio comune. Anni dopo, ammise di aver conservato, dall’assimilazione di quelle idee, una convinzione, pur debole, circa la parziale convergenza fra ragione e morale: la non-verità, come menzogna e come errore, per Hans Mayer divenuto Jean Améry, la figura tragica di un intellettuale sopravvissuto alla Shoah, partorisce misfatti (cfr. Risari 2016; golemindispensabile.it). La menzogna sistematicamente creata, diffusa, inculcata nelle menti dei cittadini, ridotti a sudditi, è il tipico segno dei regimi totalitari, ma essa, al contempo, corrompe gli stessi regimi democratici qualora questi vengano meno alle proprie ragioni d’essere, nonché al proprio nucleo identitario legittimante, che è specifico e distintivo per il potere del demos. Questo potere, ben oltre la circostanza di essere semplicemente e riduttivamente quello dei “molti”, resta tuttora, nelle società liberal-democratiche contemporanee, e nonostante la retorica populista, l’inveramento in chiave garantistica e procedurale dell’ideale greco dell’isonomia; il concetto indica l’imperio delle leggi sull’arbitrio dei singoli, siano essi aggregati in assemblea, siano essi separati e responsabili di fronte ai molti nell’esercizio delle loro cariche. Qualora la menzogna divenga lessico politico e instrumentum regni non occasionale, accade qualcosa di inquietante a causa della pervasività e tendenza dell’habitus menzognero a radicarsi nelle prassi e nelle attitudini mentali di governanti e governati, dei rappresentanti liberamente eletti e dei loro rappresentati. La menzogna aggira e depotenzia la rule of law e corrobora l’arbitrio e la discrezionalità dei poteri occulti. Questo aspetto, ad esempio, fu messo in luce da Hannah Arendt rispetto ai Pentagon Papers (cfr. Arendt 1971), i documenti segreti riguardanti il ruolo degli Stati Uniti in Indocina tra la Seconda Guerra mondiale e il 1968; forse lo avrebbe fatto anche oggi, riferendosi in forma ancora più icastica ai casi più recenti di smascheramento degli arcana imperii tramite Internet. La perversione o snaturamento delle democrazie a causa della menzogna, di cui parlava decenni fa Hannah Arendt, si verifica ogni qualvolta i detentori del potere democratico cedano alle lusinghe ideologiche del realismo politico per cui la suprema necessitas, identificata nella salvezza dello stato, può giustificare comportamenti aberranti, mistificatori e occlusivi, contrari alla supremazia delle norme sull’arbitrio e sulla discrezionalità illecita degli esseri umani insigniti di potere strategico e decisionale. Questo riferimento è per dire che una sensibilità affine a quella di Hannah Arendt contrassegnò tanto il giovane Hans Mayer, quanto il maturo Jean Améry; questi non soltanto patì l’esperienza dei campi di sterminio per mano delle autorità naziste durante il conflitto, ma subì l’ingiuria ancor più grave da parte dei cittadini/e (e le opinioni pubbliche) delle società democratiche del dopo guerra: l’occultamento della verità sulle abiezioni totalitarie.
2. Hans Mayer aveva acquisito certamente coscienza politica e capacità critica non da ultimo grazie alle sue frequentazioni di eccezione nel periodo precedente al conflitto: ebbe a che fare con intellettuali che segnarono l’epoca con il loro coinvolgimento, discreto o diretto che fosse, con il mondo socio-politico, come Thomas Mann, Robert Musil, Elias Canetti. Non limitandosi a questo, e di fronte alla tensione sociale e alla violenza antisemita, si volse ad un ambiente politicamente attivo e, come tanti ebrei assimilati, entrò nella Resistenza. Nel luglio del 1943 fu arrestato dalla Gestapo e portato nella fortezza di Breendonk, dove fu torturato e rinchiuso in cella d'isolamento per tre mesi, in quanto sospettato di avere informazioni nevralgiche per il Reich, e che avrebbero dovuto essergli carpite, con metodo, ad ogni costo. Sopravvisse. Da quel luogo di supplizi fu trasferito al campo di Mechelen, ed infine deportato ad Auschwitz. I due anni di reclusione nel campo lo segnarono ulteriormente, e per sempre, determinando un'irrimediabile perdita della fiducia nel mondo e la scomparsa di ogni illusione metafisica. L'intera sua esistenza risultò privata di senso. La lingua nella quale aveva espresso ogni emozione divenne il gergo degli aguzzini e nuovi suoni, ormai strumenti non più di comunicazione ma di annientamento, si sovrapposero alle parole e al fraseggio un tempo familiari. Un'analoga estraniazione la provò Améry davanti alla cultura della quale era completamente imbevuto, ma che non aveva saputo opporsi alla distruzione di milioni di innocenti. La patria, infine, che era venuta meno al dovere di preservare la vita del cittadino, cessava di costituire un riferimento emotivo, di essere la terra natale. Così Hans Mayer, dopo la liberazione, si autoesiliò da tutto ciò che l'aveva contraddistinto in precedenza, e divenne Jean Améry, apolide, "non-non ebreo". L'esperienza di prigionia e le considerazioni scaturite da essa nel corso di un ventennio costituiscono la materia del suo primo e più noto saggio: nell'originale tedesco, Jenseits von Schuld und Sühne, noto in Italia col titolo, inspiegabile nella sua genericità conciliatoria e moderata, di Intellettuale ad Auschwitz (cfr. Amery 1966). L’opera viene tuttora considerata una pietra miliare nella storiografia della Shoah. Iniziata nel 1964, durante il primo dei due processi di Francoforte sui misfatti perpetrati ad Auschwitz dai ‘perpetratori ordinari’, essa nacque inizialmente per rispondere ad un problema specifico, ovvero la condizione dell'intellettuale in un campo di concentramento. Nella stessa necessità di articolare i frammenti di intuizioni inespresse, emerse «l'esigenza di dire tutto», e scomparve la proibizione di parlare della propria esperienza; ciò avvenne pur sempre in forme non lineari, pur sempre scabrose e urticanti per chi le impiegava per venire a patti con le proprie lacerazioni a lungo soltanto celate e mai guarite, come cicatrici indelebili. Come emblematicamente rivela il caso di Amèry, le lacerazioni inflitte sugli individui sono traumi di primo e anche di secondo grado, in quanto inneschi potentissimi di un particolare senso di sofferenza e anche di vergogna, un sentimento, se vogliamo, paradossale, ma non facilmente eludibile da chi voglia seriamente trattare e curare il trauma e i suoi effetti. Il senso o il sentimento dell’impotenza, il senso di inadeguatezza per le umiliazioni ingiustamente patite, e a cui non ci si è potuti sottrarre, è un sentimento derivante dal ricordo personale, addirittura idiosincratico dal punto di vista biografico, della specifica violenza subita; il momento che non si riesce a perdere, a lasciar cader in virtù del risanamento (e dell’oblìo) terapeutico. In ogni caso, il silenzio venne rotto da Amèry, non soltanto con le parole, come si vedrà fra poco.
“Le parole per dirlo” sono il vero dilemma filosofico, psicanalitico, psicologico, esperienziale, e storiografico, in quanto designano nella loro “nudità ammutolita” un vuoto cognitivo, emotivo, pragmatico, che ci si attende sia alle loro spalle, o che forse si può soltanto ipotizzare. Parole sospese, come prove indiziarie di ben altro, come le vite sospese dei singoli esseri umani, fatti oggetto di violenza. Impossibile dire con quale linguaggio si potesse e si possa parlare, un linguaggio che non mimi, e indirettamente legittimi, quello degli aguzzini, che avevano la stessa Muttersprache di milioni delle loro vittime. La frase di Arendt, «Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache», da lei pronunciata durante l’intervista televisiva omonima rilasciata a G. Gause il 28 ottobre 1964, in questo caso non è affatto risolutiva. Al contrario, la condivisione della medesima lingua materna non fa che accentuare lo iato, la distanza incolmabile fra le vittime sopravvissute e i carnefici. Per tematizzare questa aporia nella sua radicalità disincantata, Jean Améry accompagna al rifiuto vibrante e coraggioso del proprio destino la sua controparte: la rassegnazione e l'abbandono alla fatalità. Come emerge nella sua produzione letteraria successiva. L'ultima opera che Améry scrisse prima di cedere, nel 1978, a quella che considerava l'“inclinazione alla morte”, suicidandosi, è Charles Bovary, medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice. Si tratta della commovente apologia del personaggio più sfortunato e afflitto che sia stato inventato da Flaubert. Nelle pagine di Améry, si legge che alla morte della moglie, Charles Bovary si riscuotesse, in un lampo breve quanto doloroso di autoconsapevolezza riflessiva, e lo facesse per ribellarsi alla propria sorte, e per intentare un processo a Flaubert, artefice distaccato e sadico di un destino per lui impietoso e unilaterale, che lo aveva reso impotente comprimario di eventi ineluttabili, decisi altrove. Nell'antagonismo tra Charles, uomo della fatalità, e Flaubert, genio creatore ma dispotico, si ritrova il contrasto tra rivolta e rassegnazione, spinta eversiva a superare il passato e consapevolezza dell’ultimativa sconfitta esistenziale. La vittoria dello scrittore Flaubert sul personaggio Charles, se rimanesse definitiva, confermerebbe il prevalere della storia come historia rerum gestarum sul ricordo del testimone violato, coinvolto in prima persona. Una conclusione alternativa viene comunque inibita dalla chiusura della narrazione, con il gesto imperioso dell’autore-autocrate. Dentro la cornice narrativa imposta dall’autore Flaubert, al personaggio Charles non resta che rinunciare al suo J'accuse e ritirarsi tra le ombre: «Ritiro la mia denuncia. Io, ombra eterna, siedo di nuovo sotto la pergola. Ancora una volta resto in attesa della grazia della morte, tra le dita stringo una ciocca di capelli. Sono ormai muto» (cfr. Riseri 2016, p. 173).
Ciò detto, scavando dentro il significato del messaggio di Jean Amèry, si può affermare che: l’indicibilità diviene scacco della parola, certo, ma non sconfitta della testimonianza, che è quanto mai ineludibile e prepotente nel suo darsi ai sensi dello spettatore, perché è scritta nel e sul corpo della vittima, quella e non altra. È un’istanza accusatoria che resta, impassibile e incontrovertibile, senza recedere, né cedere, e lo fa anche qualora si scelga, come nel caso di Améry, e con una fermezza non occasionale né subitanea, il proprio atto volontario di auto-soppressione. Il re-sentir del risentimento irriducibile è la fonte originaria della coscienza riflessiva e della sensibilità morale. Queste facoltà definiscono il perimetro di una denuncia radicale che non lascia spazio alla commiserazione, ma solo ad una dimensione acroamatica altrettanto radicale, socchiude un varco all’ascolto, sull’orlo dell’abisso, del silenzio più totale perché irreversibile. Si tratta dunque di un “aggiramento” di tipo pragmatico ed esemplare, certamente non risolutivo, della tesi che sostiene l’incomunicabilità della violenza annichilente l’umano. Un atteggiamento che riapra il dibattito a future, e inevitabili, nuove interpretazioni, non consolatorie, né omologanti, del silenzio vittimario. Un’agenda di ricerca, questa, di cui, accanto alle altre macroscopiche carenze, non si vede ancora traccia nel panorama della filosofia politica, italiana, in particolare.


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