L’etimologia del termine ha segnato necessariamente la vita, la storia e gli sviluppi che il concetto di utopia ha avuto nel corso dei secoli. Il non luogo e, al tempo stesso, il luogo felice: è proprio questa ambivalenza che ha consegnato all’utopia una sostanza del tutto particolare. Le immagini di un possibile altrove che nel corso della storia si sono succedute hanno mantenuto una dialettica, una tensione, un particolare rapporto tra questi due diversi aspetti.
Non luogo perché non esistente e frutto dell’immaginazione. Un’isola, ma non solo. Un altro pianeta, oppure lo stesso paese in cui viviamo, ma spostato avanti nel tempo. In questo senso l’utopia si configura come ucronia e quel luogo non esiste perché è il suo tempo che non è ancora venuto. Al tempo stesso, poi, luogo felice perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di una terra di pace, prosperità, benessere. Felicità, appunto.
A volte le utopie sono solo proiezioni rovesciate dell’esistente, giochi dell’immaginazione e si sbilanciano così verso il fronte dell’outopia. Altre volte diventano delle proposte di modelli di organizzazione sociale, economica e politica, da realizzare parzialmente o totalmente. L’aspetto immaginario e la dolcezza del sogno sono forse, in questo secondo caso, andati perduti e si ha uno slittamento verso l’altro fronte, quello eutopico.
Anche nel momento in cui l’utopia si è distorta per diventare distopia, si è mantenuta questa ambivalenza originaria. La società perversa non esiste, o non esiste ancora, è forse solo la proiezione di un rischio, è ciò che non vorremmo si realizzasse (cfr. Colombo 1997). Il luogo felice diventa il luogo massimamente infelice, ma sempre della compresenza degli stessi elementi si parla.
Ogni momento storico ha le sue utopie. Scriveva Bazcko nel 1979: «Le utopie manifestano ed esprimono in modo specifico una certa epoca, le sue ossessioni e le sue rivolte, l’ambito delle sue attese nonché le direzioni seguite dall’immaginazione sociale e il suo modo di considerare il possibile e l’impossibile. Superare la realtà sociale, sia pure soltanto in sogno e per evaderne, fa parte di questa stessa realtà e offre una testimonianza rivelatrice su di essa» (Baczko 1979, p. 6). Questo segna anche un particolare modo di intendere il rapporto che l’utopia ha con il tempo in generale: essa interessa non tanto come anticipazione del futuro, quanto come segno del tempo presente, anche e soprattutto nel momento in cui riguarda solo il possibile (o l’impossibile).
Una delle ragioni che ci ha spinto a dedicare una delle sezioni di “Cosmopolis” all’utopia è sicuramente questa. Partire dalle utopie per avere una cifra della realtà presente. Che sembra appunto indecifrabile o, forse, è talmente tanto trasparente da suscitare un ragionevole dubbio sulla presenza o meno di qualche nascosto risvolto.
Il nostro punto di partenza è sicuramente la convinzione, espressa nel contributo di Carlo Altini, che l’utopia esprima «una delle principali caratteristiche dell’umano: quella di poter pensare altro, svincolato dal dato fattuale». Il reale, l’ideale, il possibile e l’impossibile legati dalle trame dell’immaginazione e della fantasia.
Oggi si ritorna a parlare di utopia spesso nella forma di un “altro mondo possibile”. Come si configura l’utopia nell’era della globalizzazione? Sicuramente si tratta di un modo diverso di pensare l’organizzazione sociale, economica, politica sulla base di un certo criterio normativo. Si parla, però, di utopie minimaliste (cfr. Zoja 2013). Cioè di ciò che possiamo sperare si realizzi di un sogno più ampio, ma che oggi non è più possibile dire o individuare con completezza. Le utopie tendono a coincidere con le buone pratiche: azioni concrete di miglioramento dell’esistente e molto spesso legate alla volontà (buona) del singolo.
Un’utopia in questi termini si legge allo stesso modo di un manuale di buona condotta, che può o meno essere seguito. E l’immagine del luogo altro è, forse, il mondo che si darebbe se tutti si comportassero in un certo modo. Ciò che conta è quanto, come singoli, facciamo o dovremmo fare per realizzare un mondo migliore, felice, eccetera. Del carattere «onirico», che Altini caratterizza come tipico delle utopie, rimane il fatto che sogniamo un mondo diverso, frutto delle scelte dei singoli, ma difficilmente riusciamo a raffigurarci questo mondo in un’immagine d’insieme, come fosse un dipinto. Con estrema difficoltà riusciamo a pensare questo come frutto di un libero lavoro della fantasia.
Per questo abbiamo deciso di parlare di utopia, ma interessandoci alla forma che oggi assume il discorso utopico. Ci siamo resi conto che parlare di questo, di come l’utopia oggi si dà nella scrittura di essa, rimanda ad una riflessione che necessariamente investe il piano antropologico, quello sociale e politico. Un metadiscorso che, per sostanziarsi, ha bisogno di riferirsi ad altre dimensioni. I contributi presenti nella sezione ne percorrono aspetti e sfumature molto diversi tra di loro. Segnano ciascuno il tratto di una strada più lunga, alla cui fine arriviamo fortunatamente con più interrogativi che risposte.
Scrivere l’utopia oggi significa, da un lato, fare i conti con lo statuto che reale e irreale hanno. Nel suo contributo Fiammetta Ricci si riferisce a ragione a Baudrillard perché, nella sua idea di società simulacro, «il reale non cede più a vantaggio dell’immaginario ma dell’iperreale; e, di conseguenza, all’utopia, al sogno, ai miti della modernità, oggi è stata sostituita la forma dell’indifferenza e della positività totale dei sistemi e delle funzioni». L’utopia perde il suo significato più specifico per diventare semplicemente «realizzata»: non ha alcun senso pensare o sperare di realizzare una società altra, «siamo quasi indifferenti alla possibilità dell’impossibile». Questa riflessione, che potrebbe essere considerata anche solo una radicale provocazione, ci dice comunque qualcosa della difficoltà di ritrovare nell’attuale discorso utopico elementi collegati a ciò che di “fantastico” esso deve necessariamente possedere, proprio nel momento in cui, invece, di utopia si sente comunque il bisogno di parlare. Su un versante molto diverso, ma ad esso collegato, Annamaria Loche, esaminando le utopie contemporanee, si riferisce a Rawls che, con la sua «realistic utopia», fa di fatto coincidere un modello utopico con un modello «ragionevole» di organizzazione politica, l’unico che sembra possibile agli uomini conseguire.
Tutti i contributi sono percorsi da una tensione: da una parte la natura inclinazione umana a pensare “altro” e dall’altra l’appiattimento di ogni possibile eccedenza sullo stesso reale che limita inevitabilmente tale inclinazione. Galliano Crinella scegli due autori di riferimento (Jonas e Andres) che ci dicono di riflettere in maniera disincantata sulle reali possibilità dell’uomo, molto poco perfettibile. Contemporaneamente collegano questa condizione al discorso sulla tecnica, diventata per Anders «il sigillo dell’impotenza dell’uomo». Un ridimensionamento dell’utopia che passa, perciò, dal ridimensionamento del suo soggetto: l’uomo.
È questo, forse, il vero e più profondo cuore del metadiscorso. Chi scrive l’adesso, cercando di guardare oltre ciò che è dato (come abbiamo visto, anche con il rischio che ciò che vede sia, in realtà, una copia amplificata e potente dello stesso reale), è alle prese con un racconto che si snoda molto spesso come narrazione di un singolo, che con difficoltà riesce a prendere la forma di un discorso collettivo. Quando si tenta di proporre una nuova narrazione in tal senso – è il caso dell’Europa considerato da Flavio Piero Cuniberto - esso fallisce: anzi, ha bisogno di un maggiore aggancio alla realtà per avere sostanza. Se la si cerca nell’ambito dell’immaginazione, si perde tra i vari e limitati tentativi di creare un originario e originale mito fondativo. Ancora Loche cita a ragione Nozick, che nel suo individualismo radicale, «ritiene che ciascuno abbia il “diritto” di immaginare il “suo” mondo migliore e tutti gli altri, singolarmente presi, abbiano il parallelo diritto di volervi rimanere o di volerne uscire ». In questo caso di tratta di una metautopia, intesa come tessuto, struttura di utopie, che alla fine coincidono con i personali desideri di ciascun individuo.
Difficile tenere le fila di un discorso univoco nel momento in cui l’utopia assume oggi anche questi tratti: soggettiva, personale e, quindi, frammentata. Nel suo contributo Nevio Genghini cerca di riflettere su un particolare risvolto di questo aspetto: dell’utopia non c’è più l’ambito dell’attesa di un qualcosa che si darà (forse), e che si darà per tutti, ma la dimensione del novum, che l’individuo narcisista traduce come «l’illimitato incremento di ciò che, qui e ora, ci procura soddisfazione e benessere».
In questo approccio metadiscorsivo all’utopia, anche essa, alla fine, ne esce parcellizzata. Da una parte esiste come buona pratica da realizzare per un mondo migliore solo ipotizzato; dall’altra tende a coincidere essenzialmente con la possibilità del singolo di soddisfare liberamente i propri desideri. Quando si dà come autentica ulteriorità del reale, del quale vuole anche essere denuncia e contestazione, quel reale che ha di fronte sembra però non essere più tale. E allora la sua intenzione è vanificata.
Non è possibile parlare di un linguaggio, di un registro, di un codice univoco utilizzato dall’utopia oggi perché essa si trova ad affrontare forze molto potenti che la spingono verso la decomposizione. Eppure essa resiste, perché probabilmente solo di una metamorfosi si tratta, ma che dobbiamo riuscire a governare. È in questo caso che la riflessione diventa necessariamente di tipo antropologico: «E se è pur vero che di utopia l’umanità ha avuto bisogno per poter incidere e trasformare il presente attraverso la capacità di immaginare il futuro, forse oggi dovremmo chiederci di quale umanità ha bisogno l’utopia per sopravvivere» (Ricci).
Il metadiscorso sull’utopia è allora un discorso sulle donne e sugli uomini del nostro tempo. Sulla loro capacità di ritrovare quell’ingenuità del fanciullo di cui parla Marx, che abbiamo scelto come esergo di questa modesta introduzione: fuori dallo spazio e dal tempo in modo che è da questo punto davvero “altro” che si possa sviluppare una narrazione nuova.
Probabilmente questo processo di ritorno ad una sorta di stadio infantile, altamente ricettivo e, al tempo stesso, allegramente fantasioso, significa anche recuperare quelle risorse di senso e significato che col tempo si sono dissipate, ma che possiamo far tornare a vivere ,come ci suggerisce Ricoeur: «Abbiamo alle spalle così tanti progetti incompiuti, così tante promesse ancora non mantenute, da poter costruire un futuro attraverso la rivivificazione di queste molteplici eredità». Ricucire passato e futuro, dando vita a una nuova narrazione dal e sul presente: «Le utopie future non possono sorgere dal nulla, e non potrebbero derivare direttamente dal passato: ma sarebbero senza forza se non recuperassero ciò che non si è ancora esaurito di questo molteplice passato" (Ricouer 1994, p. 103).
Riferimenti bibliografici
B. Baczko (1979), L’utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo, Einaudi, Torino
A. Colombo (1997), L’utopia: rifondazione di un’idea e di una storia, Dedalo, Bari
P. Ricoeur (1994), La città è fondamentalmente in pericolo. La sua sopravvivenza dipende noi, intervista di Roger-Pol Droit, in F. Riva (a cura di), Leggere la città. Quattro testi di Paul Ricouer, a cura di F. Riva, Città aperta, Roma
L. Zoja (2013), Utopie minimaliste. Un mondo desiderabile anche senza eroi, Chiarelettere, Milano