Tra i molteplici effetti che l’età della globalizzazione ci ha reso familiari, l’insieme di fenomeni riassumibili all’interno del concetto di “de-spazializzazione” possiede una rilevanza (anche) per la teoresi filosofico-politica, della quale non sembra ancora essersi diffusa una consapevolezza omogenea. Il concetto di “de-spazializzazione” possiede una gamma piuttosto vasta di significati accreditati, che abbraccia ambiti di discorso anche molto differenti, dall’economia alla politica, dalla tecnologia ai trasporti, dalla demografia alla tutela per l’ambiente, dall’architettura alla cultura, lingua, tradizioni, solo per nominarne alcuni. In estrema sintesi, però, tutti i diversi ambiti semantici in cui esso risulta declinabile sembrano confermare un suo duplice carattere definitorio: da un lato, la percezione di vicinanza e simultaneità di stati di cose e ambiti problematici che hanno i loro contesti di elaborazione e sviluppo in luoghi anche molto distanti dal nostro “qui ed ora” e, dall’altro, la conseguente necessità di prenderne atto, tenerne conto – non di rado – farsene carico in forma diretta.
Tale duplice caratteristica coinvolge inevitabilmente anche la declinazione del concetto di de-spazializzazione che più da vicino riguarda il pur amplissimo alveo delle scienze sociali e, all’interno di esso, la filosofia politica, ambito intorno al quale vorrebbero orientarsi le considerazioni raccolte in questo contesto. Ponendomi dunque all’interno di tale ambito, vorrei prendere avvio da due considerazioni preliminari.
Un prima considerazione mira a evidenziare che la de-spazializzazione causa a sua volta una concomitanza e una quasi tattile percezione dell’esistenza di più banchi di prova – ognuno magari collocato in un differente contesto spaziale – sui quali la nostra riflessione è parimenti chiamata a misurarsi. Abbiamo a disposizione più numerose e dettagliate occasioni di valutazione e rivalutazione, di conferma e smentita di quanto veniamo pensando, ipotizzando, magari anche verificando rispetto ad un determinato campo d’analisi – ma che risulta comunque perennemente esposto ad una drastica sconfessione già a partire dal “campo” immediatamente contiguo. Questo indubbio intensificarsi delle occasioni di prova, se da una parte è fonte di grande arricchimento prospettico e sempre inedita occasione di rinnovamento, incorpora anche, dall’altra, un’inevitabile, inesauribile, non di rado, faticosa esigenza di adeguamento e di “rincorsa” da parte della teoria rispetto al procedere rapido dei fatti in direzioni non sempre convergenti con essa.
Discende da tale consapevolezza una seconda considerazione preliminare. Per svolgere quest’ultima mi sia consentito per il momento procedere in forma di tesi, rimandando a ciò che segue un più articolato tentativo di spiegazione degli assunti che ne stanno alla base. La tesi suona dunque in questa forma: la comprensione del presente e del futuro delle società occidentali sembra richiedere un’integrazione della “cassetta degli attrezzi” che il dibattito filosofico-politico degli ultimi vent’anni ha cercato di elaborare. Se il termine multiculturalismo – e il correlativo concetto di società multiculturale – ha offerto un’amplissima gamma descrittiva di contesti particolari e una molteplice correlata articolazione di modelli di organizzazione politica e sociale, tali contesti sembrano oggi non corrispondere più a quelle descrizioni e originano istanze e problemi che non appaiono più (interamente) sussumibili e risolvibili all’interno di quei modelli[1].
Non intendo qui porre a tema la plurivoca esigenza di cambiamento che quelle stesse società più o meno consapevolmente stanno esprimendo, la cui analisi impegna una parte via via crescente della ricerca sociologica. Restando sul piano più esplicitamente filosofico-politico e antropologico-filosofico, vorrei invece provare a non rinunciare, in una forma del tutto preliminare e necessariamente circoscritta, a svolgere una porzione di quell’inesauribile compito che Hegel consegnava alla filosofia, nel momento in cui le attribuiva la non piccola ambizione di costituire «il proprio tempo appreso in pensieri».
Tentando di avviarsi su questo terreno, tra i molti concetti che sarebbe possibile iscrivere all’interno della dinamica sopra tratteggiata, quello di multiculturalismo sembra particolarmente esposto all’intensificarsi delle occasioni di “tenuta teorica” che la de-spazializzazione impone. Sotto questo profilo, va notato che la de-spazializzazione produce un retro-effetto paradossale a proposito del multiculturalismo: mentre una parte non piccola delle persone che vivono all’interno delle società occidentali ancora stenta ad abituarsi ad essa, l’età del multiculturalismo si trova già per molti versi costretta a pensare oltre se stessa, a inquadrare prospetticamente cosa è stata, cosa è al presente, cosa potrà essere in un futuro tutt’altro che remoto. Consapevole di questa discrasia, dagli evidenti profili pragmatici prima che teorici, in questo contesto vorrei limitarmi a tratteggiare non tanto il punto di partenza di tale processo, senz’altro non il suo punto di arrivo, ma “semplicemente” una sottile linea tematica che può forse offrire una direzione, metodica e tendenziale, per pensare l’ulteriore configurazione concettuale della quale si avverte da più parti il bisogno.
2. Tra coesistenza e convivenza, tra spazi e luoghi
Pensato nella sua radice teorica, il problema principale sotteso al concetto di “società multiculturale” riguarda il come rendere possibile il vivere insieme di più individui e più gruppi che si auto-attribuiscono una chiara consapevolezza identitaria, che si fonda (anche) su un riferimento ad una precisa matrice culturale. Il tentativo di risposta a questa questione di fondo si configura in forma necessariamente molteplice e mai esaustiva. In questa sede, vorrei sondare la “tenuta” di un tentativo di risposta che prende le mosse dalla distinzione tra due modalità idealtipiche di concepire il vivere insieme, ovvero tra due livelli del relazionarsi di individui con individui e di gruppi con gruppi.
Un primo livello, che potremmo qualificare come quello della coesistenza, allude ad un rapportarsi comunicativo e pratico-operativo tra diversi esseri ragionevoli, che possiede però un limite preciso: l’essere un rapportarsi tra monadi contigue ovvero costituire una sorta di rapportarsi monadico, intendendo con monade – in senso certo restrittivo rispetto alla complessità della nozione leibniziana – una dimensione di presunta autosufficienza e costitutiva impermeabilità ad ogni tentativo di contaminazione dall’esterno che si proponga di travalicare una mera coesistenza spaziale o un semplice ed occasionale contatto. Si tratta quindi di coesistenza (innanzitutto fisica) tra persone che non hanno tra loro rapporti diretti o riconosciuti in qualche forma rilevanti; di giustapposizione di individui e di gruppi al posto di integrazione tra gli stessi, ovvero lo stare-insieme-accanto, piuttosto che il mettere-insieme-progetti-di-vita: questo un primo inquadramento problematico del vivere insieme pragmaticamente constatabile.
Tale stare-insieme-accanto può tuttavia essere propedeutico ad un rapportarsi più articolato, più “spesso” (thick)[2], ovvero più chiaramente impegnato dal punto di vista contenutistico. È questo ciò che potremmo qualificare come il livello della convivenza. In via stipulativa, invito con tale espressione ad intendere quella dimensione che racchiude il passaggio da un rapportarsi meramente giustapponente ad una consapevole e reciproca condivisione di valori e destini, di progetti di vita in comune che vanno al di là della mera concomitanza spaziale e temporale ed implicano espliciti tentativi di risposta sul cosa si intende fare di quello spazio e tempo comuni e sul come farlo insieme.
In tale dimensione, tuttavia, non si intende più o meno consapevolmente legittimare una sorta di reductio ad unum, una tendenziale condivisione piena e univoca di un gruppo di valori determinato. Ciò che si condivide è, piuttosto, il punto di partenza, ovvero la necessità di istituire, in modalità più o meno formalizzate, un orizzonte comunicativo tra tutti i diversi soggetti che “abitano” quello stesso spazio e quello stesso tempo, prescindendo quanto più possibile rispetto ai contenuti che andranno a “colorare” quel medesimo orizzonte. Esso non mira necessariamente all’accordo (che potrà per altro raggiungersi in forme analoghe a quelle desumibili dal livello costituzionale democratico): l’orizzonte comunicativo sotteso al modello della convivenza contempla anzi al suo interno la possibilità del conflitto tra le differenti Weltanschauungen in campo ed incentiva direttamente la pluralità e polifonicità delle posizioni, mirando unicamente alla loro espressione in termini non lesivi dei diritti individuali di nessuno/a.
Se a questo punto proviamo a ricondurre questa sintetica presentazione dei due modelli al tentativo di risposta alla domanda articolata in apertura, potremo riconoscere nelle caratteristiche del modello della coesistenza un’accezione piuttosto diffusa di società multiculturale. Propongo conseguentemente di far corrispondere le caratteristiche che compongono il modello della convivenza all’esigenza di oltrepassamento di quello stesso concetto, che il coacervo fenomenico della de-spazializzazione invita a pensare e a rendere effettiva.
Se proviamo poi ad avanzare nell’accoglimento di quest’ultimo duplice invito, sembra allora legittimo cercare di descrivere ulteriormente il secondo livello del vivere insieme nei termini di quella che potremmo chiamare la sfida della convivenza, problematica che sorge dalla spesso non scelta eppure inevitabile condivisione degli stessi spazi e degli stessi tempi da parte di più individui che sono e, soprattutto, si percepiscono ed auto-interpretano come radicalmente differenti da ogni altro. Si tratta di una sfida che pare sollecitata, da un lato, dalle dialettiche interne alle singole società (ormai decisamente immerse nell’“età del multiculturalismo” e delle relative secche concettuali e pragmatiche) ma anche, dall’altro, dalle dinamiche esterne agli Stati tradizionali e connesse alla globalizzazione dei processi culturali e giuridico-politici. È una sfida che la nostra epoca ha reso indefettibile rispetto all’impegno – individuale e pubblico – nell’affrontarla, tuttavia radicalmente incerta, del tutto contestuale e aperta rispetto ai suoi esiti[3].
Limitando in questa sede la nostra attenzione solo al primo di tali versanti problematici, circoscritto alle società multiculturali, e in conformità all’esigenza di revisione che la de-spazializzazione porta con sé, vorrei qui proporre un tentativo di ridefinizione o meglio di precisazione di uno degli elementi concettuali che compongono tale sfida. Mi riferisco al tema della condivisione dello spazio e in particolare al concetto stesso di spazio. Tale precisazione inaugura una seconda distinzione idealtipica, quella tra spazio e luogo.
Il concetto di spazio, nella connotazione che ora interessa riscattare, si pone come una sorta di entità astratta, indeterminata, impersonale. Paradossalmente, ciò avviene proprio a partire dal suo fondamentale requisito di misurabilità. Uno spazio infatti è ciò che possiamo misurare in più modi e secondo standard comunque universalmente definiti; esso si presta dunque naturaliter ad una sorta di controllo dall’esterno ed è parimenti definibile a partire da un limite e da un punto di vista ad esso estraneo, che dovrebbe all’opposto renderlo quantomai concreto e determinato. Tuttavia lo spazio, anche in quanto spazio determinato, in quanto misurabile e controllabile, risulta pur sempre inseparabile dall’idea di una sua teorica (e pragmatica) infinita riproducibilità in e sovrapponibilità a più contesti, per quanto tra loro diversissimi e assolutamente non contigui. Per questo motivo “uno spazio” resta al fondo qualcosa di impersonale e non personalizzabile; pur nella sua concretezza apparente, risulta effimero e intangibile, inestricabilmente connesso ad una percezione individuale e collettiva di non-possesso e di persistente estraneità.
Il concetto di luogo si pone in termini pressoché speculari. Dire “luogo” significa sempre alludere ad un contesto concreto, determinato, dotato di connotazioni riferibili ad una persona o ad un gruppo di persone conosciute o comunque identificabili. Il concetto richiede non solo e, al limite, non tanto di essere compreso entro categorie misurabili, geometriche o geografiche, quanto in base a significati emotivi. Un luogo è il risultato di un insieme di elementi, una sorta di amalgama virtualmente irripetibile di connotazioni fisiche e materiali peculiari che si fondono con le precomprensioni spirituali, le caratteristiche culturali, le abitudini sociali di chi li vive, ovvero li attraversa e li abita. Un luogo è dunque certo producibile, ma non ri-producibile – e di sicuro non in termini tecnologici e di piena uniformità: è infatti evidentemente la presenza costitutiva di fattori umani in essi a rendere ogni luogo differente e pressoché irripetibile[4].
Le consequenzialità di tale distinzione rimandano direttamente al centro del nostro tema: mentre risulta difficile pensare che il concetto di spazio così inteso nella sua astrattezza, indeterminatezza e impersonalità possa originare, offrire lo sfondo e costituire il contesto di maturazione di legami sociali tra individui e tra gruppi, il concetto di luogo non solo ne è esso stesso esito e testimonianza, ma li rinnova costantemente, incentiva alla loro costruzione creativa. Ed è proprio di una maggiore, ovvero di una più estesa e più intensa rete di legami sociali che le nostre società hanno bisogno, per sfuggire o contrastare due pericoli tutt’altro che futuribili. Si tratta, da un lato, delle crescenti dinamiche di estraniazione che le attraversano – intendendo qui con tale termine le infinite variazioni di clichés già abbondantemente evidenziati e dagli effetti quantomeno ambigui, come quello del ritrarsi nella sfera privata e del corrispondente ridursi dell’impegno pubblico[5] – e, dall’altro, delle non corrispondenti ma ugualmente perniciose dinamiche di estraneizzazione, che consistono del rendere estranei "gli altri", nemici "i diversi" e nel costringere reattivamente chi risulta compreso in quelle definizioni a rafforzare un rapportarsi verso gli appartenenti al proprio gruppo di riferimento "dal carattere endogamico e tribale", sicuramente chiuso e potenzialmente ostile verso l’esterno, appunto verso quelli stessi che li hanno definiti o li trattano da "altri" o "diversi"[6].
3. Tra multiculturalismo e interculturalità, tra luoghi e non-luoghi
La distinzione sopra tratteggiata tra spazio e luogo trae ispirazione dalla celebre riflessione che Marc Augé dedica alla distinzione tra luoghi e non-luoghi. Ripercorrere qualche passaggio di tale riflessione consente forse di portare avanti in altra forma quell’esigenza di ripensamento dalla quale si è preso avvio. Deve innanzitutto essere ricordato che Augé definisce il luogo come relazionale, in quanto sostanziato da rapporti interpersonali, storico, in quanto esito di stratificazioni di memoria collettiva, implicato di identità, ovvero sfondo e contesto di elaborazione di infinite biografie individuali[7]. Laddove tali caratteristiche risultano assenti, ci troviamo di fronte ad uno degli innumerevoli non-luoghi che la modernità tecnologica ha prodotto e ci ha reso familiari, ovvero, all’occhio dell’antropologo francese, di fronte ad uno dei numerosi spazi di anonima e impersonale «intersezione tra corpi che si muovono». Come Augé avrà modo di precisare anche in una serie di studi successivi, nella sua prospettiva corrispondono a questo ritratto innanzitutto le stazioni, i metrò, gli aeroporti, i supermarket, e così via, insomma concrezioni spaziali che incarnano il cosiddetto paradosso della surmodernità: «nei non-luoghi nessuno si sente a casa propria, ma non si è nemmeno a casa degli altri»[8]. Il rapporto di opposizione che esiste tra luoghi e non-luoghi si riconosce anche nelle forme di socialità che essi rispettivamente incorporano: mentre i luoghi sarebbero all’origine del «sociale organico» i non-luoghi creerebbero la «contrattualità solitaria» e sostanzialmente impersonale, tipica del viaggiatore che compra un biglietto in una stazione ferroviaria o dell’acquirente che fa shopping in un centro commerciale.
Tenendo presente la distinzione sviluppata dall’antropologo francese, in ciò che segue impiegherò quest’ultima nozione slegandola volutamente da ogni riferimento a spazialità concrete, lasciando dunque il concetto di non-luogo intenzionalmente rarefatto e circoscritto alla manifestazione della negazione del carattere relazionale, storico e identitario che, nella prospettiva di Augé, connota invece il concetto di luogo. Ciò al fine di poter ricondurre più liberamente il concetto di non-luogo a quello di spazio sopra descritto, e di poter usare entrambi in termini quasi sinonimici.
Se anche alla luce di queste ulteriori precisazioni proviamo a riepilogare quanto fino a qui articolato rispetto alla chiarificazione dei termini definitori della società multiculturale, possiamo a questo punto rilevare l’esistenza di almeno tre livelli di specificazione del concetto. Come già sopra sottolineato, una prima e più larga accezione di società multiculturale risulta comprensibile nei termini del modello della coesistenza, della giustapposizione e della contiguità monadica e statica tra individui e gruppi. Si tratta di uno stare-insieme-accanto tra alterità per lo più inconsapevoli e reciprocamente ignoratesi (se è questa una società composta da monadi, si può allora attribuire ad essa lo stesso efficace adagio usato spesso per descrivere il concetto leibniziano: “le monadi non hanno né porte né finestre”).
Una seconda e più ristretta accezione inserisce un elemento di dinamicità accanto ad uno di tendenzialità normativa. Tale accezione inscrive infatti il concetto di società multiculturale entro i termini della sfida della convivenza e, più precisamente, della convivenza entro spazi, per quanto astratti, indeterminati e, sostanzialmente, impersonali. S’inaugura così una significativa assunzione di consapevolezza circa l’esistenza di spazi da condividere e la necessità di renderli “nostri” in un senso allargato e necessariamente diacronico. Si apre a questo livello, in altri termini, l’esigenza di una cornice comunicativa, di un contesto di discussione su cosa fare di quegli spazi, su come pensarne una destinazione futura non unilateralmente guidata (da parte del gruppo sociale in quel contesto dominante), bensì multilateralmente condivisa.
È per altro possibile individuare un’ulteriore accezione, sempre nell’ambito della sfida della convivenza, che pare spostare il suo significato oltre il concetto medesimo. Alludo qui alla declinazione di società multiculturale come convivenza entro luoghi. Quest’ultima mantiene l’esigenza del contesto di discussione già contenuto nella precedente declinazione; essa ne richiede tuttavia un rafforzamento, sia dall’interno – attraverso una più articolata strutturazione e formalizzazione delle modalità decisionali –, sia dall’esterno – incorporando l’istanza di relazionalità tra più individui e gruppi e sollecitando la messa in disponibilità dei reciproci “serbatoi” di memoria e di identità in vista della creazione o continua ri-creazione di un insieme inestricabile ed irripetibile di connotazioni fisiche (originarie) e spirituali (portato di chi li ha abitati o continua a farlo). Per rendere maggiormente esplicita la portata concettuale ulteriore di quest’ultima accezione rispetto al tema della società multiculturale, potremmo stipulativamente qualificarla come società interculturale. Alcuni chiarimenti di tale stipulazione, pur in forma sintetica, confido emergeranno da ciò che segue.
Nel tentativo di precisare l’accezione appena proposta, si deve porre innanzitutto in atto un chiaro contrappunto, al fine di evitare gli effetti di una tentazione culturalista che facilmente accompagna ogni discorso circa la società multiculturale; un contrappunto nei confronti del quale bisogna però allestire un più ampio esercizio di consapevolezza. Detto nei termini di un altro noto antropologo, Clifford Geertz, bisogna resistere all’aspirazione a «formare goccioline, per così dire, monocrome di politica e di cultura»[9], ovvero alla tentazione di reificare i luoghi, pensandoli come l’esito di un’identità già da sempre e comunque condivisa, di una stratificazione storica e memoriale definita una volta per tutte, di una relazionalità fissa e determinata rispetto ai suoi canoni e ai suoi attori di riferimento. Tale tentazione svierebbe l’attenzione – non solo dell’antropologo e del filosofo politico, ma di ogni singolo/a cittadino/a – dagli aspetti problematici, instabili o dialettici dei luoghi, dalle loro faglie di superficie e da quelle più profonde, come pure a quelle che si potranno creare a seguito dell’inserimento di nuovi elementi.
Al pari della cultura, del mondo delle relazioni sociali, della personalità individuale dei soggetti che lo abitano, un luogo non può mai dirsi un amalgama stabile, un insieme di elementi cristallizzato in via definitiva. Sotto questo profilo, se per un verso va evitata l’anomia, l’impersonalità radicale o la scarsa comunicazione effettiva che caratterizza i meri spazi o i non-luoghi, bisogna per l’altro essere cauti nell’accogliere acriticamente il rinvio alla nozione di luogo quale ambito di compensazione di tutte le problematiche che i primi non riuscirebbero a risolvere.
Nello spostare la nostra attenzione filosofica e politica sulla prospettiva aperta dal concetto di luogo, dovrebbe inoltre essere attivata una più estesa assunzione di consapevolezza nei confronti di un duplice tribalismo che tarda ad assumere profili più contenuti: da un lato, quello che potremmo chiamare un tribalismo residente, che caratterizza il gruppo sociale (finora) unico o comunque dominante in un determinato luogo, che tenta di riprodurre e perpetuare stilemi culturali e comportamentali per principio esclusivi e non trasmissibili al suo esterno, innescando così una chiara dinamica di esclusione nei confronti degli individui e gruppi di più recente ingresso in quello stesso luogo. Dall’altro può riconoscersi il profilo di un tribalismo immigrato, che mette in atto classiche dinamiche di immunizzazione[10] nei confronti dell’ignoto – sia esso una persona, un gruppo di persone, un luogo –, per di più quando questo si palesa come potenzialmente e fattivamente ostile e costringe i “nuovi arrivati” a ricreare porzioni di luoghi – dei loro luoghi di origine – all’interno di spazi estranei e occasionali, che per lo più non sono in grado di contenerne le specificità e, soprattutto, di consentire il sorgere di forme di socialità stabili e reciprocamente soddisfacenti, sia al suo interno sia verso l’esterno.
Inquadrata da questo punto di vista, la dialettica oppositiva tra luoghi e non-luoghi o tra luoghi e spazi non può più dirsi leggibile in senso diametralmente valoriale e contrastivo, ovvero in forme che dipingerebbero come sempre e comunque positivi i primi e sempre e comunque negativi i secondi. Se restano irretiti nelle opposte e reciprocamente ostili forme di tribalismo, i luoghi rischiano anzi di consumare ed esaurire le loro grammatiche di senso senza avere la concreta possibilità di rigenerarle. Nel nostro tempo i luoghi, tradizionalmente intesi, tendono a parlare a sempre meno persone e rischiano concretamente di veder scemare il loro fascino di amalgama materiale e simbolica al tempo stesso, se non cessano di sentirsi immuni dall’esigenza di trasformarsi e se non accettano – e, soprattutto, praticano – l’inesauribile sfida della loro costante ridefinizione.
Provando a tracciare un bilancio, necessariamente provvisorio, il contesto per pensare quella che sopra abbiamo qualificato come società interculturale, al di là della tentazione culturalista e delle “secche di tribalismo” ancora residuali del concetto dal quale quest’ultima promana, potrebbe dunque collocarsi all’interno di quel costitutivo rapportarsi che comunque lega il concetto di luogo a quello di spazio. All’interno di questa prospettiva, un punto di avvio può forse essere individuato nel tentativo di concepire più esattamente il “tra”, quella liminarità che unisce e al tempo stesso distingue i due concetti, che avvicina fino a quasi unire due estremi prima facie polari e incomunicanti. È forse in quelle microporzioni di spazialità locale o di località spaziale, in quegli anditi che sono non-più-spazi e non-ancora-luoghi che possiamo rinvenire i semi di una rinnovata socialità interculturale; una socialità che risulta connotata di quello stesso carattere di dinamicità che distingue il concetto di spazio – e di non-luogo – ma che i luoghi possono aver perduto, rallentato o rimosso.
Possono riconoscersi in queste forme non più spazializzate né ancora localizzate quelli che quasi ossimoricamente potremmo chiamare i non-luoghi dell’interculturalità: forme ibride di spazialità, che partono dall’indeterminatezza e impersonalità, ma tendono ad una ri-localizzazione creativa, consapevole e comprensiva delle reciproche alterità che andranno ad abitarle. Possono riconoscersi in questi profili dimensioni pubbliche di vita (anche) quotidiana, animate da condivisione come da conflitto e certo da differenze, che risultano non etero-dirette, ovvero non sottoposte ad una logica assimilatoria, bensì volontaristicamente orientate e in direzioni non predeterminate.
Quella che anima tali forme di spazialità ibrida si propone come una “tensione” dal profilo mutevole e necessariamente contestuale, ovvero come una progressiva dinamica di alterazione ed estrazione relazionale dall’anonimato e dall’impersonalità di quelle spazialità e, soprattutto, delle persone che li abitano e contribuiscono a trasformarle, in vista della creazione di nuovi costrutti di senso che, in forme durevoli ma del tutto aperte rispetto ai contenuti, sappiano tenere insieme ciò che è stato e ciò che potrà essere, con e dopo di noi. Sembra essere questo il destino che le nostre compagini sociali sono indirizzate ad interpretare, ma che oggi, in ultima istanza, facciamo ancora immensa fatica ad immaginare, in modalità già disponibili e concrete.