Premessa
metodologica
Il problema dell’identità, attraverso la figura del corpo, è una tematica che
attraversa tutta l’opera di David Lynch ma, se vogliamo, «il cinema stesso è
diventato nella modernità una delle forme principali di problematizzazione del
soggetto. Corpi e soggetti si intersecano e si trasformano offrendosi senza
pudore allo scandalo della perdita dell’identità»[1].
Il cinema inteso come film, infatti, si pone a metà strada tra un evento ed un
oggetto, ed è quindi fra le arti quella in cui la congiunzione di spazio e
tempo è più marcata. Ma riflettere sul problema dell’identità in Lynch,
tracciando un rapporto tra cinema e filosofia, vuol dire seguire la direzione
di una relazione problematica, non tanto perché non ci sia un rapporto o perché
non sia possibile parlarne, ma per l’ovvio motivo che tale rapporto abbraccia
un orizzonte di incertezza dato dal fatto che i termini che compongono questa
relazione non definiscono un campo di interrelazioni definite.
Ripensare il concetto di identità (ma questo vale per moltissime altre idee
filosofiche) a cavallo dei due ambiti vuol dire disperdersi in mille
direzioni di senso. Va da sé che la strada più immediata sarebbe quella di
riconoscere nel cinema (in alcuni autori, in alcuni film) tematiche, forme o
concetti direttamente o indirettamente legati alla filosofia.
All’interno di questa impostazione – assolutamente legittima e ricca di stimoli
teoretici – il rapporto si dispiega secondo un certo percorso più o meno
organizzato: la produzione concettuale tipica del discorso filosofico viene
riattualizzata e trasportata all’interno di un nuovo dispositivo di
dispiegamento delle forme di pensiero – il cinema – acquistando così nuove
possibilità espressive. In quest’orizzonte logico il cinema costituisce semplicemente una nuova forma di illustrazione o trattazione della filosofia. Da un lato si
individua nell’immagine-movimento una particolare esposizione del concetto
filosofico; dall’altro il cinema diventa pretesto per parlare di
qualcos’altro (il concetto filosofico), un qualcos’altro che preesiste
autonomamente e che, in un certo senso, informa di sé le opere cinematografiche[2].
Se si prova a rovesciare il punto di partenza logico – iniziando cioè dal
cinema, per instaurare un movimento verso la filosofia – allora il discorso
cambia di segno e la problematica si capovolge. Ci si accorge come il cinema
diventi non più il risultato di un pensiero, oggetto di pensiero, quanto
piuttosto cosa che pensa, soggetto di pensiero, ed in quanto tale
indagine della filosofia, osservazione del vero, ricerca del sapere e via
elencando. Tutto ciò può avvenire solo attraverso la messa in evidenza nel
cinema di un dispositivo concettuale che rende possibile l’affermazione del
cinema come soggetto di pensiero. E, è strano a dirsi, questo può avvenire
molto più grazie a un’analisi che esamina il cinema partendo dal cinema stesso
servendosi di alcuni strumenti analitici della pittura o della letteratura
piuttosto che ritrovando come in uno specchio i concetti filosofici nelle
pellicole cinematografiche[3].
L’obiettivo di questo scritto è proprio quello di evidenziare come una serie di
concetti filosofici, tra cui il discorso sull’identità, non siano meramente
presenti nel cinema (quasi tutto, ma in particolare in alcune delle ultime
pellicole) di David Lynch, quanto piuttosto pensati e come pongano nuovi dubbi
interpretativi.
Il cinema di David Lynch come terrorismo della quotidianità
Autore a pieno titolo che ha generato deliri
suadenti, incubi terribili e reinventato il linguaggio dello schermo, David Lynch è un cineasta difficile e poliedrico come
pochi; cresce come artista nella pittura e ben presto avverte il bisogno di
mettere in pellicola i suoi quadri impossibili. Le immagini, i personaggi, i
corpi, la materia stessa dei suoi film, da The Elephant Man a Velluto
blu, da Strade perdute a Mulholland Drive determinano uno
smarrimento ed un’inquietudine che nascono da uno sguardo (e da un sentire)
profondamente pittorico[4].
La volontà di David Lynch di sfruttare tutte le possibilità del cinema,
investigando il reale attraverso le sue forme visive, nasce dalla pittura e dai
suoi problemi estetico-teoretici. Lynch ci propone allora una cinematografia
sempre ai limiti della sperimentazione che affascina ed insieme sconcerta lo
spettatore. Le sue opere vivono di imbarazzi, situazioni ripugnanti, deformità
psichiche e fisiche ed inoltre del contorto rapporto tra il sessuale e il
mentale. Il cinema di David Lynch non si presta mai a decodificazioni dirette,
siano esse di natura psichica, filosofica o letteraria. Spesso nei suoi film
Lynch mette in mostra la parodia di un sistema di significazione proprio per
mostrarne l’inutilità. «Un meccanismo che spinge a vedere in ogni immagine un
segno traducibile in parole, un rebus da decodificare. Meccanismo pericoloso se
applicato al cinema di Lynch, che rischia di limitarne l’importanza o
sottovalutarne la ricchezza»[5].
Questo vale anche nel caso della tematica dell’identità. Si può portare ad
evidenza la sua problematicità, analizzare le strutture (o non strutture) che
la sorreggono, ma certo non si può pretendere di decodificarla, svelando un
presunto meccanismo di impostazione. Il cinema di Lynch non è certo logo-fono-centrico,
anzi, spesso vi regna un’assenza della parola. Tutto ciò determina nei
confronti dei suoi film un atteggiamento che si risolve in una «esperienza di
visione»[6],
piuttosto che in una traduzione in discorso logico-narrativo.
Lynch ama delineare un immaginario fortemente disturbato e disgustato. I suoi
pensieri sono terrorizzati dalla normalità sociale; e più la normalità è
tranquilla e stereotipata e più la stessa nasconde inquietudini e perversioni
indicibili. Per parlare dell’identità nel cinema di Lynch, dunque, occorre
preliminarmente stabilire il contesto ambientale e le storie entro cui si
muovono i suoi protagonisti. Gli ambienti appartengono ad una quotidianità
apparentemente priva di segreti, ma sono gli sguardi del regista che,
attraversando questa presunta normalità con forza, arrivano a modificarla in
profondità, quasi a scomporla (attraverso Primi Piani e dettagli in “funzione
emozionale”). Questi oggetti o personaggi, poi, non possono più esser visti
come rappresentazioni, ma come mezzi di trasmissione per le impressioni e gli
stati d’animo personali del regista tanto da dar luogo ad un perturbante
indotto nello spettatore.
L’insieme surreale e caotico di gesti, suoni, corpi, immagini che
costituiscono l’opera richiede di essere vissuto, e più volte verificato, dallo
spettatore al fine di ricavarne una logica successione. Raccontare la trama di alcuni film di Lynch non è semplice,
in quanto vi è sempre un mistero o un enigma non da risolvere ma da esperire
(anche nei film in cui apparentemente la coerenza narrativa non sembra in
discussione egli rilancia il problema di un’immagine problematica)[7]. Egli, oltre a decostruire stile e narrazione, intesi in senso classico,
produce fabulae aperte, sfuggenti e indeterminate fin dal primo lungometraggio Eraserhead (traduzione
letterale La testa che cancella, di cui è autore di regia, produzione,
sceneggiatura, fotografia, montaggio ed effetti speciali). Questa è senza ombra di dubbio la
sua pellicola più eccessiva e viscerale; nei successivi film, a partire
soprattutto da Velluto blu, le parole d'ordine del regista saranno
delirio, ossessione e crudeltà.
Iniziano quindi a
delinearsi alcuni dei temi e delle ossessioni ricorrenti del regista: Lynch, più che stravolgere o deformare il quotidiano, lo
rende oltraggioso, cercando disperatamente di rivoltare, di sovvertire l’ordine
naturale delle cose comunemente legato al principio di non contraddizione. Il
regista statunitense è l’unico regista contemporaneo a pensare i suoi
personaggi come eventi anziché come soggetti: i loro corpi sono fatti di tempo
oltre che di materia spaziale, e ciò rende problematica la nozione di identità.
Un ritrattista del tempo: Soggetti e Entità.
Nel 1998 con Strade perdute, un noir maledettamente complesso ed
originale, Lynch sovverte completamente l’idea che si ha nel senso comune
dell’identità. «La tesi lapidaria di Quine, “no entity without identity”, nel
cinema di David Lynch si ribalta in un interrogativo: che ne è delle entità
quando l’identità viene messa in discussione? Quale criterio determina l’entità
quando l’identità viene messa in discussione? […] essenzialmente due fattori
risponde il senso comune: la continuità e la somiglianza. L’artificio di Lynch
consiste nel mantenere soltanto una di queste due condizioni indebolendo
quindi, ma non annullando la nozione di identità»[8]. Sostiene a riguardo lo stesso
regista: «Il mio film è composto della materia di cui sono fatti gli incubi».
Nel film, un personaggio chiuso in una cella carceraria alla fine della notte è
diventato un altro. La coerenza del corpo è rispettata attraverso la continuità
della cella che garantisce l’unità, ed è per questo che la sequenza genera
meraviglia e sconcerto. L’inquietudine è data dal fatto che l’identità non è
del tutto svanita, e lo spettatore continua a credere che ci sia un nesso tra
un corpo ed un altro, e proprio questo diventa l’assurdo del film. Lynch non
rinuncia quindi al criterio di identità, ma lo trasforma attraverso
l’annullamento di una delle componenti che lo garantiscono (non c’è
somiglianza, si tratta di un altro corpo). La nuova entità contraddice le leggi
della fisica e della logica, ma non quelle della poetica: si tratta di un ente
impossibile di fatto, eppure presente nel film.
«In Mulholland Drive assistiamo ad una metamorfosi speculare, quando la
protagonista del film Betty Elms, si trasforma in un’altra donna Diane Selwyn.
Qui però – a differenza di Strade perdute – il criterio della
somiglianza resta valido (l’attrice ed il suo corpo sono grossomodo gli stessi)
mentre è la continuità spazio-temporale a saltare: ritroviamo Diane in un tempo
precedente a quello in cui abbiamo visto Betty, ed in un’altra casa)»[9].
Questa nuova situazione stravolge la linearità del racconto e si estende
parallelamente ad altri personaggi: Rita diviene Camille, la portinaia diviene la madre del regista. La sensazione affascinante e
perturbante insieme nel cinema di Lynch sta nel fatto che il suo talento riesce
a dare credibilità a queste entità senza identità; ciò che altrove potrebbe
risultare artificioso o cerebrale, in Lynch, pittore del cinema come evento
temporale, si staglia in una sorta di terra di nessuno, un nuovo orizzonte che
non è sogno, ma realismo attenuato.Il prima e
il dopo impazziscono e il cortocircuito degli eventi spiazza lo spettatore che
non sa più dove si trova e a che punto della storia riprendere e riprendersi.
Il puzzle si affolla di personaggi: un regista che lotta per realizzare il suo
film con i suoi attori, misteriosi e silenziosi mafiosi, commesse che cambiano
nome e giovani che sono perseguitati da allucinazioni progressive. La macchina
da presa si agita come in un thriller psichico, è instabile come un occhio
infingardo che si intrufola dove non dovrebbe.
Fino ad arrivare alla sequenza in cui le due protagoniste si recano, nel pieno
della notte, in un teatro nel cuore di Hollywood. All’interno del club
“Silenzio” Rebekah del Rio interpreta in play-back la versione spagnola di Crying
di Roy Orbinson (Llorando); ad un certo punto, presa dall’eccesso di
emozione crolla sul palco, mentre la sua voce continua a diffondersi
nell’ambiente del teatro. È proprio in questo punto che il regista suggerisce
allo spettatore di abbandonare la razionalità e di lasciarsi andare
all’intuito, ma soprattutto di godere di ciò che vede. Lynch mostra la
possibilità dei soggetti di frammentarsi dando vita a nuovi eventi-entità che
possono moltiplicarsi all’infinito.
Molti critici hanno visto i suoi film come una fuga determinata dalla
razionalità verso un sentiero che conduce ad un universo onirico dove
l’immagine diventa illusione e la concretezza sfuma nella percezione. Crediamo
si tratti di una scorciatoia semplicistica. In Mulholland Drive, come in altri suoi film, siamo ben lontani
dall’incoerenza e dalla gratuità: tutte le componenti si legittimano
all’interno di questa architettura in cui, genialmente, se è vero che la storia
deraglia, è altrettanto vero che il detour è nella Realtà, dal Sogno da
cui proveniva. Piuttosto crediamo sia valida la conclusione di Dottorini in
merito al rapporto tra realtà e sogno nel cinema lynchiano, soprattutto per ciò
che concerne l’identità , il quale afferma: «in Lynch il sogno non interviene
come oggetto della narrazione filmica, ma come elemento espressivo. L’uso del
mondo psichico in Lynch non costituisce un allontanamento dal reale, ma una
possibilità in più di penetrare in esso: “la potenza del cinema è quella di
rendere concreti i sogni”, afferma il regista»[10].
fioravantiandrea@libero.it
[1]
D. DOTTORINI, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Genova 2004,
p.75.
[2] Il rapporto tra cinema e filosofia è molto frequentato da alcuni anni a questa
parte, ed è facile capire dai titoli stessi come alcuni saggi più recenti
vadano nella direzione indicata: J. CABRERA, Da Aristotele a Spielberg:
capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondadori, Milano 2000; U.
CURI, Lo schermo del pensiero. Cinema e filosofia, Raffaello Cortina ,
Milano 2000; ID., Ombre delle idee. Filosofia del cinema, da “American
Beauty” a “Parla con lei”, Pendragon, Bologna 2002; A. SANI, Il Cinema
tra storia e filosofia, Le Lettere, Firenze 2002. L’elemento che accomuna
questi testi è la considerazione del cinema come forma particolare di
trattazione di tematiche filosofiche.
[3] Molto diversi tra loro, ma di importanza capitale per
il sentiero tra cinema e filosofia (ma a questo punto sarebbe meglio dire cinema
come filosofia), secondo il percorso che abbiamo indicato, sono i testi di
J. AUMONT, L’occhio interminabile, Marsilio, Venezia 1991; AA. VV., Estetica
del film, Lindau, Torino 1995; R. BARTHES, Sul cinema, Il Melangolo,
Torino 1995; E. BRUNO, Film altro reale, Il formichiere, Milano 1978;
ID., Il pensiero che muove, Bulzoni, Roma 1998; ID., Del gusto.
Percorsi per una estetica del film, Bulzoni, Roma 2001; A. BAZIN, Che
cosa è il cinema, Garzanti, Milano 19993; G. DELEUZE, L'immagine-movimento,
Ubulibri, Milano 1987; G. DELEUZE, L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano
1989; A. GAUDREAULT, Dal Letterario al filmico. Sistema del racconto,
Lindau, Torino 1999; P. MONTANI, L'immaginazione narrativa. Il racconto del
cinema oltre i confini dello spazio narrativo, Guerini, Milano 1999.
[4] È da queste premesse che si sviluppa il bellissimo testo di D. DOTTORINI, David
Lynch. Il cinema del sentire, cit., il quale segue il percorso delle forme
lynchiane, dei corpi, dei soggetti, delle stanze e degli universi narrativi in
un dialogo costante con le forme pittoriche che appartengono all’arte di
Cézanne e di Bacon, di Hopper e di Duchamp, fino a scoprire il cinema come
grande dispositivo pensante.
[7] «Affermare questo non significa però negare valore al problema della narrazione
in Lynch, liquidare cioè come inutili tutte le analisi critiche e teoriche
dell’opera lynchiana che partono proprio dalla dissoluzione della linearità
narrativa del regista statunitense. Al contrario. Il problema della narrazione,
della possibilità o meno del raccontare, di dire un senso, così come la
presenza dell’enigma o del mistero sono elementi centrali nell’opera di Lynch
ma lo sono proprio all’interno di una più generale e fondante problematica
dell’immagine» (ivi, p. 10).
[8]
E. TERRONE, Vedere il tempo. Fuori e dentro “Mulholland Drive”,
in “Segnocinema”, n. 117, Ottobre 2002, p. 18.
[10]
D. DOTTORINI, David Lynch. Il cinema del sentire, cit. p.100.