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Populismo e immigrazione: un fatale incontro

MANUEL ANSELMI, ISABELLA CORVINO
Articolo pubblicato nella sezione "Naufragio con spettatori: noi e i migranti"

Premessa

Nel quasi incessante dibattito sul populismo contemporaneo o neopopulismo (cfr. Müller 2016; Anselmi 2018) il fenomeno migratorio assume un ruolo importante, potremmo dire addirittura decisivo, soprattutto se si tengono in considerazione i movimenti populisti di destra e il panorama europeo. La xenofobia, gli atteggiamenti anti-migranti e la paura del diverso si associano infatti spessissimo alle rivendicazioni identitarie di carattere sovranista e nazionalista usate dai leader populisti.
La paura dello straniero è un ingrediente fondamentale nella comunicazione, nelle strategie e nelle nuove forme ideologiche promosse dalle destre populiste, specie del vecchio continente, che Ruth Wodak ha definito non a caso «politiche della paura» (cfr. Wodak 2015). Dietro all’uso ideologico e tendenzioso della tematica migratoria da parte della politica c’è però una dimensione ben più articolata fatta di rappresentazioni sociali, luoghi comuni, escogitazioni tattiche e concezioni diffuse. Su questo punto il populismo mostra di essere più che da altri punti di vista una mentalità (cfr. Tarchi 2015), o comunque un elemento fortemente decisivo del condizionamento del senso comune.
Il tema migratorio è stato infatti usato nella produzione del consenso politico, nell’amplificazione di aspetti securitari, nella promozione di logiche sociali basate sull’individuazione del nemico e di minacce imminenti per una presunta identità italiana.
In questo articolo ci proponiamo di presentare rapidamente alcuni elementi analitici per lo sviluppo di una riflessione critica sulla complessa relazione che lega questi due fenomeni.
Il nostro obiettivo è esplorare alcuni temi fondamentali nella riflessione sulle migrazioni, con particolare riferimento al contesto italiano e con un approccio di carattere sociologico, che trovano una corrispondenza nelle questioni sul populismo. Nella prima parte forniremo alcuni elementi generali sull’immigrazione italiana, nella seconda parte illustreremo alcune misure di carattere legislativo adottate di recente da alcuni governi populisti e che implicano una logica di tipo populistica, in particolar modo populistico penale, in materia di immigrazione. Presenteremo infatti una analisi di questi dispositivi legislativi, sottolineando come l’intenzionalità populista sia finalizzata alla trasformazione dello status del migrante da condizione di difficoltà umanitaria a una minaccia. Nella terza parte invece ci soffermeremo su alcuni aspetti della logica di polarizzazione identitaria promossa dai populisti dal punto di vista comunicativo, in particolar modo attraverso meccanismi di destaticalizzazione e di promozione di schemi di contrapposizione del tipo noi contro loro.


La questione migratoria in Italia

Negli ultimi decenni il nostro paese si è interessato, come mai prima, al fenomeno migratorio, al punto che questo è diventato una delle priorità dell’agenda sociale e politica. Tuttavia, approcciando questo tema ci si rende conto di come esista una grande differenza tra il piano della realtà e il piano della comunicazione promossa da giornali e politici insieme a una grossa confusione che deriva dalla trattazione della questione migratoria come una emergenza, quasi fosse qualcosa di recente e imprevedibile, un problema da “risolvere”, quando invece stiamo parlando di una questione strutturale da gestire. Al di là delle posizioni ideologiche e strumentali, le migrazioni sono un dato di fatto che può rappresentare una opportunità sia contro la crisi demografica in atto sia per far fronte alle continue richieste del mercato del lavoro.
Secondo i dati presentati e analizzati nel XXIV Rapporto sulle migrazioni 2018 della Fondazione ISMU al 1° gennaio 2018 c’erano in Italia più di 60 milioni e 484.000 persone: i migranti sarebbero 6 milioni e 108.000 gli stranieri presenti sul territorio, con il superamento della soglia simbolica del 10% (cfr. Ambrosini 2017). Per quanto riguarda la richieste d’asilo la situazione che emerge dai dati CIR (2017) è la seguente: la crescita delle domande di asilo in Italia è continuata nel 2016 confermando il trend degli ultimi anni; dalle 26.000 richieste del 2013 si è passati alle 64.000 del 2014, alle 83.000 del 2015 fino alle 123.000 del 2016. L’Italia è al secondo posto per il numero di persone accolte in numeri assoluti, ma solo decima se si calcola la percentuale di richiedenti in rapporto al numero di abitanti come rilevato da Eurostat (2017). Le nazionalità dei richiedenti asilo in Europa non sono cambiate rispetto al 2015: al primo posto ci sono i siriani (334.800), seguiti da afghani (183.000) e iracheni (127.000), mentre in Italia si tratta di nigeriani (26.934), pakistani (13.597), gambiani (8.919) e senegalesi (7.610); la maggioranza delle richieste (85%) proviene da uomini.
Gli sbarchi avvengono in alcuni porti del sud Italia, per lo più in Sicilia (60%), Calabria (25%), Campania, Puglia e Sardegna, spesso sotto la regia dei soggetti impegnati nelle operazioni di salvataggio. Entro settembre 2017 avrebbe dovuto esserci il ricollocamento di 160.000 persone da Grecia e Italia ad altri paesi europei. L’accordo per la ricollocazione fin dall’inizio ha trovato non pochi problemi d’applicazione, tanto che la Commissione Europea ha dovuto ridurre il obiettivo a 98.000 persone e durante il maggio 2017 solo 20.000 persone sono state rilocate.
Dal 2012, in relazione alla presenza straniera in Italia, continua la tendenza negativa del flusso di nascite, ma si mantiene comunque positivo il saldo naturale. I flussi migratori esteri negli ultimi 30 anni hanno contribuito non solo all’incremento della popolazione residente, ma hanno anche contribuito a un suo ringiovanimento, di fatti la popolazione straniera è più giovane di quella italiana (età media al di sotto i 34 anni), la classe di età tra 15 e 39 anni per gli stranieri pesa quasi il 45% sul totale, mentre per quella italiana solo per il 26,2%. Si conferma la massiccia frequenza di acquisizioni di cittadinanza italiana, che nel 2017 sono state 147.000 e nel 2018 112.523 (confermando una flessione rispetto agli anni precedenti).
Sono state contate circa 200 nazionalità straniere: l’elemento interessante è che, tra i residenti, provengono dall’UE-28 1 milione 562.000 unità, contro 3 milioni 582.000 unità che provengono da Paesi Terzi. In relazione a questi, poco meno di 1,1 milioni sono provenienti da paesi europei extra UE, altrettanti dall’Africa e sempre poco oltre il milione sono provenienti dall’Asia. Dalle Americhe provengono circa 370.000 unità, smentendo l’immaginario comune che ci vede invasi dal vicino continente africano. Secondo l’ISTAT, dati aggiornati al 2015, le prime dieci maggiori comunità d’origine rappresentano il 64,2% del totale dei residenti stranieri. Si tratta perlopiù di comunità di origine: rumena, albanese, marocchina, cinese, ucraina, filippina, indiana, moldava, bengalese, egiziana. La presenza femminile conta per circa il 52,6% del saldo migratorio, anche questo dato smentisce la percezione comune di una presenza straniera preponderante al maschile. Sempre secondo i dati ISTAT è possibile avere un quadro delle motivazioni delle migrazioni. La maggior parte degli stranieri arriva in Italia per cercare un lavoro. A differenza delle rappresentazioni mediatiche, tutte concentrate sui richiedenti asilo, l’Italia è un paese di migrazione economica fatta di catene migratorie che vanno a nutrire le fila di lavori specializzati e differenziati per gruppi spesso nazionali (pensiamo ad esempio ai lavoratori del tessile cinesi, a quelli del settore della ristorazione egiziani e ai lavoratori dell’edilizia dell’est Europa).
Non si sente parlar spesso del ruolo che gli stranieri occupano nel mondo dell’impresa, non sorprendentemente questi hanno un tasso d’imprenditorialità più alto degli italiani, che, invece, continuano a far registrare un trend negativo rispetto all’apertura di nuove aziende e un aumento delle chiusure delle aziende esistenti. Questo dato non dovrebbe essere inaspettato, le condizioni di lavoro in Italia per gli stranieri non sono tra le migliori e spesso mettersi in proprio risulta essere la strategia per la mobilità sociale più efficace che si possa concepire. Secondo dati Leone Moressa, nel 2018 circa 700.000 aziende erano a guida migrante, pari al 9,5% dell’intero numero delle imprese iscritte ai registri delle Camere di commercio italiane. L’auto-imprenditorialità è una caratteristica distintiva dei migranti che hanno una maggiore propensione al rischio rispetto agli autoctoni, che però si spiega pure in termini di necessità. Essi non solo si inseriscono nella vacancy chain “occupando” gli spazi vuoti dei lavori non desiderabili da parte degli autoctoni, ma sempre più spesso acquisiscono aziende italiane e fanno proprio il made in Italy, approfittando della loro posizione di ponte tra l’Italia e i paesi d’origine, impegnandosi nell’export di prodotti e anche di un modo di fare impresa tutto italiano. Crescono anche i numeri degli artigiani immigrati: i più numerosi sono rumeni, albanesi e cinesi, non solo tra le fila di imbianchini e muratori, ma anche in professioni sempre più specializzate. Sarti, giardinieri, svolgono un ruolo attivo nel recupero e nella difesa di quelle tradizioni nazionali che non riescono a garantire margini di guadagno abbastanza alti da essere mantenuti dagli autoctoni. Negli ultimi anni le imprese individuali artigiane dei migranti stanno realizzando una crescita del tutto inedita e forse anche insperata: 181.494 aziende, al 71% guidate da un imprenditore straniero sono una vera e propria rivoluzione, realizzatasi a partire dal 2011. Il contributo degli immigrati per la crescita economica e la capacità non solo di far impresa, ma di coltivare le arti tradizionali ha qualcosa di straordinario. Le migrazioni sono potenziali leve di sviluppo per l’economia dei paesi di destinazione. Tuttavia, non si può guardare ai fenomeni migratori solo in questi termini, è necessario superare la logica di breve periodo del solo mercato del lavoro.
L’importanza del tema è tale per cui l’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile 2030 include molti obiettivi relativi alle migrazioni e si incoraggiano gli stati a prendere in seria considerazione lo status migratorio per poter intervenire in maniera efficace, ma molto resta ancora da fare. A esser preoccupanti non sono i numeri delle migrazioni di per sé, è la risposta al fenomeno a risultare ancora troppo poco lungimirante ed efficace, soprattutto in termini di integrazione. Secondo l’ultimo rapporto Ocse, gran parte delle proposte finalizzate all’integrazione riguarda programmi locali di piccole dimensioni e di breve durata o progetti poco coordinati tra loro e con una generale mancanza di consapevolezza su ciò che funziona o meno. Bisognerebbe far fare il salto di qualità all’accoglienza liberando il potenziale positivo di questo fenomeno.


Il migrante come minaccia nelle leggi italiane

Nel 2009, il governo Berlusconi, con Roberto Maroni ministro dell’Interno, introdusse la legge n. 94 - 2009, che sanziona la condotta dello straniero che fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni che disciplinano. Si tratta di una normativa tesa a regolare l’ingresso ed il soggiorno in Italia dei cittadini di Paesi non appartenenti all’Unione europea. Si tratta di un reato per il quale è prevista una contravvenzione con una ammenda che può andare da 5000 a 10000 euro. Il reato mostrava subito una incongruenza di fondo: è molto poco sensato condannare a una pena pecuniaria una persona, peraltro straniero irregolare e privo di permesso di soggiorno, che, in quanto tale, non può aprire né un conto corrente né essere titolare di beni mobili e immobili, ma soprattutto che arriva in una condizione di povertà. Non avrebbe infatti beni aggredibili alla luce del sole. Pertanto, la legge risultò subito inefficace sia da questo punto di vista sia dal punto di vista generale della deterrenza perché difficilmente un soggetto che ha superato ben più gravi rischi per la propria incolumità si spaventa davanti a una pena pecuniaria.
Negli anni successivi ci sono state diverse proposte di depenalizzazione di questo reato, a seguito di puntuali critiche all’impianto di questi provvedimenti da parte di molti giuristi. La critica di maggiore importanza, da un punto di vista della logica del populismo penale che vogliamo illustrare, è quella che concepisce la condizione di migrante una condizione criminosa oppure come una minaccia. Quando invece è una condizione umanitaria che necessita di un intervento di aiuto secondo i principi universali dei diritti umani. Non si tratta solo di una criminalizzazione, ma di una vera e propria trasformazione di una speciale condizione umana di difficoltà in una condizione di inimicizia. Lo straniero è nemico, è una minaccia.
Il reato di immigrazione clandestina, seppur di natura amministrativa e sebbene già con la precedente legge n. 189 del 2002, cosiddetta Bossi Fini, fossero già previste, ha avallato e rinforzato una serie di misure come il respingimento, l’espulsione o la detenzione per motivi amministrativi. A questo scopo il governo in oggetto - ma anche i successivi - hanno potuto rinforzare il sistema di centri finalizzati alla detenzione e all’identificazione che vennero istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco Napolitano (art. 12 della legge 40/1998) come i Centri di Permanenza Temporanea, che poi sono stati ridenominati CIE (Centri di identificazione ed espulsione) dalla legge Bossi Fini (L 189/2002), e infine rinominati C.P.R. (Centri di Permanenza per i Rimpatri) dalla legge Minniti-Orlando (L 46/2017). Appunto strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno.
Queste leggi hanno promosso una immagine del migrante come minaccia e come nemico, che poi si è sedimentata negli anni nel senso comune italiano e servendo da base per le campagne comunicative sovraniste e nazionaliste promosse dai movimenti xenofobi populisti.
I populisti di destra trasformano quindi il migrante in un nemico pubblico, in una minaccia costante di tutto: per l’identità, per la propria cultura, per la propria ricchezza e per la sicurezza sociale.


La creazione del nemico: destatisticalizzazione e discorso ideologico

A favorire la propagazione di questo schema cognitivo e comunicativo, nello specifico della retorica populista, è possibile individuare fattori che sarebbe meglio definire condizioni di possibilità della retorica populista a riguardo: la destatisticalizzazione e la strategia noi contro loro.
La de-statisticalizzazione è un fenomeno che si riscontra spessissimo nei contesti dove si sviluppano i fenomeni di populismo politico e che si associa alle questioni migratorie, ma anche della sicurezza sociale in generale.
Si tratta dei processi di de-statisticalizzazione, come li ha definiti John Pratt, vale a dire di discussione dei problemi sociali senza alcun riferimento ai dati statistici reali, ma piuttosto basandosi aspetti di spettacolarizzazione (cfr. Pratt 2007). Per esempio, non si ragiona sulle effettive dimensioni della criminalità oppure sul reale numero di sbarchi, piuttosto l’immagine pubblica promossa dai media è basata su singoli casi che trovano una eco mediatica particolare. Questo scollamento della dimensione comunicativa dal principio di realtà, per usare un linguaggio freudiano, è alla base di molta comunicazione populista. Il politico populista, grazie alla destatisticalizzazione, non ha alcun vincolo con la realtà e può promuovere campagne di consenso fortemente emozionali basate sulla paura.
Questa è secondo noi tra le caratteristiche più interessanti sul piano filosofico critico del fenomeno populista: la promozione costante di una politica della doxa contro una politica della verità, dove per verità ovviamente non si intende una verità assoluta, ma quella intersoggettiva e controllata dai meccanismi scientifici a disposizione dell’opinione pubblica. Questo genere di atteggiamento rientra in una più ampia tendenza anti-istituzionale tipica dei populismi, volti alla delegittimazione delle autorità pubbliche.
Un altro aspetto è la retorica noi contro loro. Spesso molti studiosi del fenomeno hanno evidenziato come, soprattutto da un punto di vista comunicativo, il populismo può essere considerato un'ideologia sottile (cfr. Mudde 2004). Vale a dire non un'ideologia strategica e di lunga durata come quelle novecentesche, bensì una forma ideologica più tattica e meno strutturata, dove però è possibile ravvisare alcune caratteristiche fondamentali come la contrapposizione noi vs loro.
In questa prospettiva è possibile riscontrare che buona parte dei discorsi dei populisti di destra sul tema migratorio rispecchiano quella che il filosofo del linguaggio e sociolinguista Teun Van Dijk ha definito “strategia del discorso ideologico” e che ha schematizzato secondo una serie di coppie proposizionali:

Non dire cose positive riguardo a Loro
Non dire cose positive riguardo a Loro

Non dire cose positive riguardo a Loro
Non dire cose positive riguardo a Loro ;

De-enfatizzare le cose positive riguardo a Loro
Enfatizzare le cose negative riguardo a Loro;

De-enfatizzare le cose negative riguardo a Noi;
De-enfatizzare le cose positive riguardo a Loro (cfr. Van Dijk 2004).

Questa teoria fu sviluppata da Van Dijk studiando il dibattito parlamentare sui problemi migratori nel parlamento belga. Van Dijk notò come nelle ideologie razziste, la carica polemica nei confronti della dimensione del loro raggiunge il massimo grado: la volontà di eliminazione. Si tratta di dinamiche che vanno spiegate alla luce delle dinamiche di gruppo. Marcare questa distinzione tra noi e loro, vuol dire infatti riconoscersi in un gruppo sociale che si rappresenta attraverso l’apparato culturale che il nome dell’ideologia designa, ma vuol dire porsi pure in una condizione di estraneità e di esclusione nei confronti di chi non si riconosce in quel gruppo. L’ideologia populista appare così una forma di rappresentazione di sé (e dell’altro) e svolge una forte funzione identitaria, riassumendo le credenze collettive e quindi i criteri per l’identificazione dei membri del gruppo. Il discorso populista fa leva continuamente sulla distinzione tra un Noi, relativo a chi è del gruppo, e un Loro, relativo a chi non lo è.
Per concludere è possibile dire che il rapporto tra populismo e questioni migratorie è basato fondamentalmente su un approccio diffuso che tende a considerare il fenomeno non per le sue dimensioni reali e le distinzioni che la complessità del fenomeno meriterebbe, quanto piuttosto per la rappresentazione sociale diffusa e semplificata. Su questo scollamento dal reale si innesta il secondo tema: l’impianto identitario e manicheo dei discorsi populistici sui fenomeni migratori. Destituita ogni forma di aggancio reale l’immigrazione diventa così un serbatoio inesauribile per una macchina di produzione del consenso basata su contrapposizioni emotivamente forte che sanno intercettare paure ed emozioni del cittadino.


Bibliografia

Ambrosini M. (2017), Migrazioni, Egea, Milano.
Müller, J. (2016) What Is Populism?, University of Pennsylvania Press, Philadelphia.
Mudde C. (2004), The Populist Zeitgeist, in “Government and Opposition”, Vol. 39 (4), p. 543.
Pratt J. (2007), Penal Populism, Routledge, London.
Tarchi M. (2015), Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, il Mulino, Bologna.
Teun A. van Dijk(2004). Ideologie, Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, Roma.



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