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Un ricordo di Enzo Biagi

Annarosa Macrì

Qualcuno di noi, che lo conoscevamo bene, ebbe l'idea di smuovere dolcemente la terra che stava per accoglierlo e di metterci una penna biro, lì, tra le zolle del piccolo cimitero di Pianaccio, il paesino minuscolo dell'appennino emiliano («per essere uno di qua», lui diceva, «ne ho fatta di strada…») che rimase sempre, per lui, il punto di vista, anche fisico, anche morale, da cui guardare il resto del mondo, col disincanto della gente di montagna che ne ha viste tante e la curiosità un po' fanciullesca di chi sa, nonostante tutto, sognare e stupirsi. Era il luogo dove tornare, anzi dove "far tornare" il suo lavoro, perché era proprio la gente semplice di Pianaccio l'ideale fruitrice delle cose che scriveva e di quelle che raccontava in tv: era prima di tutto lì, nel borgo tra le sue montagne che sentiva il dovere di farsi comprendere, da quella manciata di uomini e di donne che lui conosceva uno per uno e che non poteva deludere e neanche imbrogliare. Per questo doveva parlar semplice; per questo quel suo modo di scrivere, nitido senza essere banale, asciutto senza essere freddo, essenziale senza essere povero, era una faccenda che aveva a che fare più con l'etica che con l'estetica.

La sua firma alla fine di ogni pezzo, Enzo Biagi, era quella non solo di un giornalista perbene, ma di una persona perbene. L'essere "perbene", del resto, era il parametro con cui lui giudicava gli altri. Non dalla tessera di partito o dai soldi che avevano in tasca, non dal potere che gestivano o dallo status che esibivano, ma da quel mix di comportamenti, atteggiamenti e modi d'essere e di parlare che lui tout court definiva "perbene" o "non perbene". I governanti e i suoi collaboratori, i preti e i suoi colleghi, i campioni dello sport e i suoi editori. E non sbagliava mai. Tanti suoi "pezzi" controcorrente, tanti editoriali fuori dal coro, tanti suoi scoop, scaturirono semplicemente dal suo saper giudicare "a pelle" gli altri. Quando gli capitava di sentire "perbene" figuri già divenuti mostri e già sbattuti in prima pagina, si adoperava a smontare le accuse e insinuava il dubbio, oppure, viceversa, se giudicava "non perbene" personaggi che l'opinione comune aveva santificato, con due tocchi di penna distruggeva altari e altarini e mostrava presidenti e re e magnati e monsignori e cavalieri nudi come vermi.

Li aveva incontrati tutti i potenti della terra, li aveva interrogati e osservati, di qualcuno era diventato amico, da qualcun altro si era fatto odiare, ma di una cosa era certo: nessuno di loro, diceva, meritava di essere invidiato. Nessuno. E non so se ci fosse più cinismo o più pietas, in questa affermazione. Forse tutti e due, perché cinismo e pietas, nelle giuste dosi e nei momenti appropriati, fanno di un giornalista un grande giornalista.

Ed Enzo Biagi è stato un grande giornalista, forse il più grande del Novecento italiano, anche se lui il palmarès lo attribuiva ad un suo collega quasi sconosciuto ai più, Tommaso Besozzi, che scriveva su "L'Europeo" grandi inchieste con uno stile lucente e graffiante e che un giorno ebbe la ventura di dimenticarsi, alla lettera e improvvisamente, l'arte della scrittura: rimase muto davanti alla pagina bianca come un pianista che tocca invano la tastiera e solo il silenzio gli risponde, e «siccome era un bravo chimico», raccontava Biagi, «preparò una bomba rudimentale, se la mise alla cintura e si fece saltare in aria».

Era un grande affabulatore, Enzo Biagi, e non tutti lo sanno. A noi che lo conoscevamo bene, mancavano, davanti a quella terra appena smossa, lì, al cimitero di Pianaccio, dove gli uomini riposano accanto gli uomini e le donne, da un'altra parte, con le donne, mancavano, mancano, adesso, i suoi straordinari racconti, arguti, malinconici, ironici, che a ripensarci adesso di tre cose parlavano: di amore, di miseria, di morte. Amare, aveva amato tanto, lui: la bellezza dell'arte, delle donne e dei bambini. La miseria, la memoria della miseria, anche quando diventò ricco, non lo abbandonò mai, e fu per quella, forse, che lavorava con una disciplina rigorosa e religiosa, perché «prima i compiti, mia madre mi ha insegnato», diceva, «e poi il divertimento». Ma divertirsi, per lui, voleva dire lavorare. La morte, l'idea della morte, che per lui coincideva con la fine del lavoro, l'aveva già vissuta durante la vita, quando gli fu impedito di fare in televisione quel mestiere che era la sua vita, e che, diceva, «avrei fatto anche gratis, e per fortuna nessuno se n'è accorto» e che davvero si offrì di fare gratis, quando la dirigenza Rai divenne la mano armata del Governo e gli fu definitivamente ostile.

«Se gli venisse voglia di scrivere, chissà, ha anche il suo blocco a righe, nella tasca della giacca», aggiunse qualcun altro di noi che lo conoscevamo bene, davanti alla sua tomba. Come potevamo pensare che non l'avremmo visto mai più togliersi gli occhiali, curvarsi davanti al foglio bianco e scrivere, sempre rigorosamente a mano, mai con la macchina da scrivere, il computer neanche a parlarne, mentre noi, la sua redazione, nella stanza accanto, abbassavamo la voce per non disturbarlo?

Era ieri, due anni fa o poco più, e sembra passato un secolo, o solo un attimo, e questo Paese, così confuso e così perso e disperso è davvero più povero, come noi, da che Enzo Biagi se n'è andato. Gli manca, e ci manca, l'inimitabile nitore della sua prosa limpida, la forza del suo dire: «sì se è sì, no se è no», e «buongiorno», come amava ripetere, «quando è davvero buongiorno che voglio dire». Ci manca la sua straordinaria capacità di rendere semplici i fatti complicati e, magari artatamente, ingarbugliati e viceversa il suo genio nel dar corpo e significato alle cose più semplici e ordinarie, e renderle mitiche. Ci manca quel suo acchiappare dall'aria che tira, insomma dallo spirito del tempo quotidiano il personaggio che ha da dire qualcosa e il problema che davvero interessa la gente per farlo diventare "il fatto" quotidiano, e centrarlo, con pochi tratti, scarne essenziali ed efficaci parole, immagini… «ma quali immagini, è la faccia della gente che parla in tv», diceva.

"Il Fatto", cesellato e rastremato, sommesso e autorevole, classico e modernissimo, lo studiavano nelle università, altro che format acquistati agli ipermercati del villaggio globale, e ci si sono cimentati in tanti per imitarlo, e nessuno c'è davvero riuscito. Nel giornalismo, come nella vita, o si è Mozart o si è Salieri. E Biagi era Mozart. Come Mozart, raffinatissimo e popolare, bravo a parlare e farsi capire dagli intellettuali e dagli ignoranti. Sapeva farsi dare del lei dalla politica, dai potenti, da quelli che contano, e invece aveva rispetto, assoluto, totale, per gli uomini piccoli, per gli eroi quotidiani, quelli che combattono la loro battaglia ogni giorno e non contano nulla. È la lezione forte che ci è rimasta, insieme all'indimenticabile editoriale – il suo testamento, professionale e umano, che è la stessa cosa – della prima puntata di "Rt-Rotocalco televisivo", il programma che segnò il suo ritorno in Rai, dopo l'editto bulgaro.

Bisognò aspettare che tacessero le campane della chiesa accanto alla sua casa milanese di via Vigoni per cominciare a registrare, perché era lì che si lavorava, a casa sua e accadeva, per la prima volta nella storia della televisione, una cosa così: nel salotto giallo si tenevano le riunioni, nella stanza guardaroba era stata approntata la sala trucco, la "camera delle bambine", come lui chiamava la stanza delle sue figlie, era diventata uno studio televisivo, il suo ultimo studio televisivo. Perché dopo l'ultima edizione de "Il Fatto", quella che scatenò le ire dell'allora (e attuale) Presidente del Consiglio, Biagi invecchiò in fretta e si ammalò, perché quasi contemporaneamente, anche la vita degli affetti gli portò un conto amaro, morirono una dopo l'altra sua moglie e la più piccola delle due figlie, e lui, appesantito dalla consapevolezza di essere ormai arrivato, come lui diceva "ai tempi supplementari", non tornò mai più nelle sue "due stanze e cucina", come lui chiamava la sua redazione di Corso Sempione, da cui era stato malamente sfrattato "con una raccomandata con ricevuta di ritorno", diceva, e dove aveva lavorato per quarantun anni, come un operaio, come era suo padre, allo zuccherificio della famiglia Monti, puntuale ogni mattina alle nove e fino a sera, sempre, a fabbricar notizie.

Dunque, nella "camera delle bambine" registrò quel suo editoriale. Era emozionatissimo, faceva il giornalista da più di sessant'anni, aveva diretto giornali come "Il Resta del Carlino" e "Epoca", aveva guidato l'unico telegiornale della Rai, all'inizio degli anni sessanta, firmato migliaia di inchieste, "fondi" storici per il suo amatissimo "Corriere della Sera", "Repubblica", "La Stampa", e si emozionò come un debuttante quando pronunciò il suo editoriale, dopo tre anni di silenzio forzato. Tutti si aspettavano parole di fuoco contro Berlusconi che l'aveva imbavagliato, ed era in quel momento in difficoltà, con Prodi al governo e lui all'opposizione e un po' in affanno. Nessuna invettiva, invece, nessuna parola di rancore o di rivalsa: Enzo Biagi fu efficace, elegantissimo, essenziale. Spiccò il volo e planò alto alto dicendo cose semplicissime. Era di nuovo Enzo Biagi. Parlò di un incidente tecnico, che aveva interrotto il suo dialogo con la gente, parlò delle nebbie della politica, che gli avevano impedito di guardare le cose e raccontarle. E poi disse: «Ci sono dei momenti, in cui si ha il dovere di non piacere a qualcuno, e noi non siamo piaciuti».

In epoca di share dominante, di dittatura dei sondaggi, di piacionismo dilagante, lui tirò fuori una categoria morale, "il dovere" per affermare una verità sacrosanta: il giornalista deve essere contro, dall'altra parte, da quella sgradita, ha il dovere, per le cose che pensa e per quelle che dice, di non piacere a qualcuno. E lui non piacque a tanti, a tutti quelli che non amano essere messi in discussione, che vogliono essere adulati, che credono di potere comprare tutto, che non sanno cosa sia la parola libertà, quando riguarda gli altri, perché conoscono solo la propria, di libertà, e la vogliono e la usano senza controlli e senza ritegno. Lo definirono "comunista", "sovversivo", "fazioso". Lo accusarono di fare un uso "criminoso" della televisione di stato. Era solo una persona perbene, un ex partigiano di "Giustizia e libertà", socialista nenniano, moderato per indole e cultura, che non piacque a qualcuno che gliela fece pagare cara.

A tanti, Enzo Biagi non piace neanche da morto. La televisione per la quale ha lavorato quarant'anni, sfornando reportage e inchieste, dibattiti e grandi interviste che sono nella storia della tv, in fondo se l'è dimenticato, e anche i grandi giornali per i quali ha lavorato. Milano gli ha dato un posto nel Famedio dei Milanesi illustri, al Cimitero monumentale, ma non l'Ambrogino d'oro alla memoria, che evidentemente non s'è meritato.

Il Paese vero, invece, quello che lui amava profondamente, e che avrebbe voluto ancora una volta ripercorrere e raccontare, prima di morire, quello dei farmacisti di provincia, come lui diceva, dei professori senza storia, degli operai delle fabbriche, degli impiegati postali, invece, lo ha amato e lo ama profondamente. Ci sono biblioteche, piazze e giardini dedicati al suo nome, nella provincia della gente perbene e degli uomini di buona volontà. Non c'è famiglia che non abbia riservato un piccolo posto nella libreria di casa ai libri di Enzo Biagi. Lui ne era particolarmente fiero, e anche stupito, quando gli capitava di rivedere suoi vecchi volumi, qua e là per l'Italia: diceva che certamente sarebbero stati utili, forse più dei saggi storici, a comprendere la storia del Dopoguerra di questo paese.

Era un maestro delle interviste, Enzo Biagi. Preparare le domande prima dei suoi incontri, ed era la stessa cosa che l'intervistato fosse un capo di stato o un immigrato clandestino, era un'operazione delicata, che richiedeva cura e approfondimento, e poi dibattito insieme alla sua redazione. Bisognerebbe che gli studenti delle scuole di giornalismo studiassero "le domande di Biagi", perché costituivano un "genere" giornalistico particolarissimo, con una sua vita autonoma, erano da sole un editoriale, che aveva vita sua, paradossalmente, anche senza le risposte dell'intervistato.

Una volta, io che lo conoscevo bene, provai a intervistarlo, Enzo Biagi. Gli chiesi se scrivere è cosa facile o difficile. Lui, che aveva un humour finissimo e l'ironia graffiante dei timidi, disse sorridendo che bisogna intanto essere in grado di pensare, e la faccenda non è da tutti, e che scrivere è un fatto successivo e poi mi piantò l'indice davanti al viso e mi disse: Non dimenticarti mai che si è testimoni, solo testimoni, dei fatti che si raccontano, mai protagonisti. E ancora una regola. Tassativa, questa. Tutto si può raccontare. Tutto, ma il modo in cui si racconta, il linguaggio, è fondamentale. Poni che devi raccontare di una prostituta che viene arrestata, chessò io, perché ha ucciso un suo cliente. Bene, tu devi raccontare tutto. Tutto: com'è andata, perché, tutti i particolari, se li conosci, chi è lei, da dove viene, perché. Ma come se la poveretta fosse tua sorella. Stesso atteggiamento, stesso linguaggio, stessa pietà.

E come si fa a scegliere gli argomenti di cui occuparsi?

Il sommario di un giornale lo fa il Padreterno, tu non devi scegliere niente. Sono i fatti che scelgono noi. I fatti hanno una loro logica ineluttabile. E ai fatti bisogna attenersi. E raccontarli come sono, mantenendo la propria testa nel giudicarli. Perché, attenzione: un conto è sbagliare in proprio, un conto è sbagliare in conto terzi. Ecco, non fare mai l'errore di sbagliare in conto terzi. Anche se, certo, non esiste giornale o telegiornale che non abbia un editore e dunque un padrone. Tutte le volte che sono andato in giro per l'Italia a realizzare interviste o inchieste per la televisione, mi capitava di guardare nelle campagne più sperdute le antenne sulle case, e di pensare che quelli erano i miei padroni, quelli che abitavano in quei condomini sconosciuti, in quelle villette anonime: loro erano i miei editori, non i politici che sovrintendono la Tv di Stato.

Si possono raccontare i fatti con obiettività?

Non credo che possano esistere obiettività e distacco totale, ma correttezza certamente sì. E non credo neanche che il coraggio o la libertà possano essere regolamentati per legge… la par condicio e tutte quelle cose così. Comunque di una cosa sono certo: preferisco i giornalisti faziosi a quelli fintamente indipendenti.

Ma perché un cronista decide a un certo punto della sua vita di scrivere un libro? Perché l'ascolto della storia a un certo punto a lei non è bastato più e ha deciso di diventare scrittore?

Perché qualche volta il foglio del giornale diventa troppo labile e provvisorio, perché ci sono racconti ed esperienze che hanno bisogno di uno spazio fisico diverso, perché qualche volta hai l'impressione che quello che hai da dire ha un senso anche se rimane lì per qualche giorno, per qualche mese, e probabilmente anche per qualche anno. Ho la presunzione che tra cent'anni, se qualcuno vorrà ricostruire il sapore di questo tempo, probabilmente troverà nelle ingiallite pagine scritte dai giornalisti qualche testimonianza anche più valida di quella dei narratori.

Provi a descriversi, provi a raccontarsi

Io sono semplicemente un cronista, uno che si mette in ascolto della storia e racconta mentre si sta svolgendo un capitolo della grande avventura del mondo. Non ho fatto altro che scrivere, nella presunzione di avere delle storie da raccontare. Erano storie di altri, certo, ma io ne sono stato un po' l'interprete, un po' il testimone. Sperando di averle capite, e di non aver fatto delle parole un uso smodato, ho raccontato un po' anche me stesso. Potrei far scrivere sulla mia tomba: HA VISSUTO E HA SCRITTO.

Ce n'è un'altra di regola di questo mestiere, che Enzo Biagi ci ha insegnato. Che non ci sono domande che non si possono fare. Lui a Indro Montanelli, in una memorabile puntata de "Il Fatto", era il 2001, che fu poi uno dei capi d'accusa dell'editto bulgaro, chiese se quello in cui allora vivevamo potesse essere considerato un "regime morbido". Montanelli rispose che un po' gli somigliava. Qualche anno dopo, Biagi ammise di essersi sbagliato. C'era un aggettivo in più, in quella domanda. Si trattava di un regime e basta. E adesso? La penna biro è là, tra quelle zolle. Se si decidesse a prenderla, dottor Biagi, il blocco è là, nella sua tasca, e scrivesse qualcosa, così, per non annoiarsi, nel paradiso degli uomini giusti dove adesso si trova, ci farebbe capire qualcosa di più di questo Paese così confuso, così sbandato e così orfano, senza di lei.



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