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Il contingente e il possibile.
Singolarità, riconoscimento e universalismo

Antonio De Simone

1. Nel dibattito filosofico-politico contemporaneo è paradigmaticamente accertato che la “soluzione hegeliana” della dialettica del riconoscimento sviluppata nella Fenomenologia dello spirito[1] abbia contribuito ad offrire «uno dei criteri più elevati e fecondi con cui ripensare i problemi inevitabili della riformulazione antropologica e politica cui si trova di fronte l’umanità contemporanea»[2]. Muovendo da questa consapevolezza, è soprattutto nell’operazione di riabilitazione del giovane Hegel degli scritti del periodo jenese (anteriori al 1807)[3] – proposta recentemente da Axel Honneth[4] – che è possibile individuare una pista ermeneutica originalmente protesa a tentare di sviluppare una concezione intersoggettivistica dell’identità umana e una teoria critica del riconoscimento, congiunta ad una nuova concezione della normatività, ritenendo che da essa possano sortire interessanti sviluppi teorici e problematici volti non solo a superare le attuali difficoltà che la filosofia sociale incontra, ma anche a proporsi «come un paradigma forte per l’analisi dell’agire sociale e per le sue applicazioni pratiche, nonché quale fondamento dell’attuale riflessione politica, in particolare per quanto si riferisce ai rapporti interculturali e alla solidarietà sociale»[5].
Com’è noto, nell’analisi critica e nella ricostruzione sistematica – via Hegel, Dewey, Mead e Habermas – delle forme e delle strutture dei processi di riconoscimento intersoggettivo capace di costituire una “grammatica” post-tradizionale di eticità, Honneth distingue tre forme del processo di riconoscimento (amore, diritto e solidarietà), cui corrispondono tre momenti del costituirsi dell’identità personale, facendole poi corrispondere ad altrettante esperienze di disprezzo. Per Honneth, l'integrità della persona umana e la salute psichica dipendono dalla garanzia sociale di rapporti di riconoscimento capaci di offrire ai soggetti le migliori condizioni di protezione contro il disprezzo e l'esperienza dell'umiliazione. Disprezzo ed esperienze di offesa forniscono storicamente i motivi morali per una lotta progressivamente emancipativa per il riconoscimento reciproco di identità (individuale e collettiva), che si costituisce in un orizzonte comune di solidarietà consapevolmente conquistata attraverso il conflitto inteso come ineliminabile forza motrice del mutamento ed elemento qualitativamente progressivo dell'integrazione sociale.
Il nuovo paradigma che Honneth propone della “società del riconoscimento” non è comunque avulso da sviluppi problematici e critici. Francesco Fistetti[6], per esempio, riflettendo sul rapporto tra interculturalità e riconoscimento, ha inteso discutere soprattutto il significato della «lotta per il riconoscimento» di cui parla Honneth nello spazio pubblico-politico globale che di per sé è diasporico per la sua duplice tendenza all’omologazione e alla differenziazione. Honneth, rileva Fistetti, ha elaborato «un concetto di vita etica come modello sociale di realizzazione reciproca (intersoggettiva) di libertà» con l’intento di «costruire una teoria “formale” della vita etica, capace di riconciliare da un lato l’istanza hegeliana di una forma di riproduzione sociale e di integrazione culturale fondata su valori ed ideali universalmente condivisi (una concezione comune del bene) e dall’altro l’istanza kantiana dell’autonomia individuale o della libertà “riflessiva” concepita sul modello dell’auto-legislazione della ragione pratica e dell’auto-realizzazione morale, ma anche il concetto di libertà che con Isaiah Berlin possiamo chiamare “negativa”»[7]. Nella prospettiva di Honneth, «lo sviluppo riuscito della soggettività (Ego) è legato al presupposto di una struttura di rapporti comunicativi intessuta di forme differenziate di riconoscimento reciproco (Ego/Alter), la cui assenza o difettosità provoca negli individui l’esperienza di un misconoscimento che li spinge alla lotta per il riconoscimento»[8]. Secondo l’interprete italiano, attraverso l’individuazione e ricostruzione delle sfere del riconoscimento (amore, diritto, solidarietà), come sfere dell’intersoggettività, Honneth è condotto «a risemantizzare il problema hegeliano dell’eticità sul registro di una postulazione/formalizzazione delle relazioni di riconoscimento reciproco nella sfera familiare (e dei sentimenti privati), nella sfera giuridica e nella sfera sociale in generale», e così facendo, al fondo del suo pensiero lascia intravedere «l’idea di una “società del riconoscimento” trasparente a se stessa, che si risolve/dissolve in una spessa trama di relazioni interpersonali che riassorbe tutta l’opacità e l’inerzia dei sistemi sociali nella coscienza dell’individuo autonomo e consapevole»[9]. Tutto ciò, agli occhi di Fistetti, appare come «una ricaduta in una variante della filosofia della coscienza e del soggetto»[10], una ricaduta che si sarebbe aggravata ulteriormente anche nel saggio di Honneth (del 2005) dedicato alla eziologia sociale della reificazione e all’analisi della reificazione come “oblio” del riconoscimento[11], in cui la nozione di reificazione verrebbe «sovraccaricata di soggettivismo» e nella quale egli finirebbe col dimenticare che la “differenza ontologica” tra la persona e la cosa «è una relazione storica, non un dato naturale originario della coscienza etica, o, quanto meno, è una conquista precaria dell’evoluzione socio-culturale»[12].

2. È un fatto incontrovertibile. Nella società globale, la questione, la ricerca e la sfida contemporanea del riconoscimento come «nuovo fenomeno sociale totale»[13] segnano pervasivamente l’orizzonte problematico dell’essere umano che vive nel secolo che ci sta tutto di fronte nella sua estensione temporale. Tale questione, o meglio, la complessa configurazione in cui nella contemporaneità si manifesta la dialettica del riconoscimento[14], indica, come sostiene Alain Caillé, «un vero e proprio rovesciamento dell’asse del conflitto politico, sociale e culturale»[15] nel nostro tempo. Nella situazione sociale attuale un sentimento universalmente condiviso da tutti (individualmente e/o collettivamente) ci pervade inesorabilmente: «non siamo sufficientemente riconosciuti, non riceviamo un riconoscimento adeguato a quel che facciamo e a quel che siamo»[16]. Generalizzando, possiamo dire che: «noi tutti proviamo il sentimento di essere stigmatizzati per una ragione o per l’altra, di vivere in una società del disprezzo o dell’umiliazione, d’essere le vittime di una mancanza di rispetto, di una negazione e di un deficit di visibilità. Siamo tutti alla ricerca di riconoscimento. Più o meno disperatamente»[17]. Secondo Caillé, la vera questione sollevata dal dibattito sulla lotta per il riconoscimento consiste nel sapere il valore sociale delle persone, pertanto «lottare per essere riconosciuti non vuol dire altro che lottare per vedersi riconoscere, attribuire o imputare valore. Ma quale valore? Questo è il problema»[18].
Posti di fronte a una possibile trasformazione radicale della forma di vita degli esseri umani, oggi la riflessione sulle conseguenze della globalizzazione solleva rilevanti quesiti di natura antropologica ed etica. Di fatto, nel tempo in cui viviamo, come ha osservato Kurotschka[19], «nell’esperienza dell’incontro interculturale in uno spazio oramai ineliminabilmente globale le forme classiche di universalismo etico e filosofico, la stessa idea di umanità, hanno dimostrato di essere contenitori assai selettivi e a volte violentemente escludenti»[20]. Oggi, dal momento che «il genere, la razza, ma anche lo stato di rifugiato, di emigrato o di emarginato permettono il coagularsi di forme di identificazione che nell’idea tramandata di umanità non sono comprese»[21], la questione che si pone radicalmente non solo è quella della costituzione attuale della figura dell’umano, ma, anche, e contemporaneamente, quella della sua «riconfigurazione possibile». Muovendo da una concezione «non antiquaria», che possa condurre alla fioritura umana, agli albori del terzo millennio è soprattutto la questione filosofica della libertà del nostro volere e del suo rapporto con la vita quella che maggiormente mostra retrospettivamente di sapersi ancora accordare, comunque si tengano presenti gli esiti attuali delle ricerche neurobiologiche, con i modelli dell’agire morale sviluppati già a suo tempo da Hegel nella Fenomenologia dello spirito, in cui troviamo una concezione (e una difesa) del rapporto (e connessione) fra autocoscienza e vita che rende la sua stessa idea di soggettività «ancora oggi rilevantissima» nell’ambito della riflessione antropologica ed etica. La modalità di essere della vita, che non può essere «marginalizzata», gioca un ruolo in positivo nella costituzione dell’identità umana, che mostra di essere incarnata capacità di sentire e di desiderare. Per Hegel, «gli umani non agiscono come “autocoscienze pure” prive di sensibilità e di desideri, fuori dalla natura e dai rapporti umani»[22], perciò lo stesso concetto di libertà, con cui Hegel opera nell’ambito dell’eticità, «non mette da parte tale capacità umana fisica e psichica insieme». Pur nell’ineliminabile «fisicità psichica» che contraddistingue l’antropologia dell’umano, la libertà di un soggetto inteso come «autocoscienza vivente» ha forse aspetti di «minore trasparenza» rispetto alla libertà della «autocoscienza pura»; epperò, tale soggetto «ha fattivamente la possibilità di pensare la vita dell’autocoscienza come un vincolo delle sue decisioni, di “deliberare desiderando” intorno alle questioni che riguardano la costituzione umana, che riguardano non solo la comprensione che abbiamo di essa ma anche la sua futura configurazione»[23].

3. Oggi, però, dopo Hegel e dopo il quadro epistemico e decostruttivo aperto nella relazione tra verità, potere e vita dal paradigma biopolitico[24], le ambivalenze del presente che connotano le configurazioni dell’«umano» non sono più esprimibili e nominabili con le parole del lessico filosofico tradizionale. Nella duratura crisi della modernità, si è spezzato il vecchio rapporto normativo e dialettico fra teoria e prassi. La crisi investe anche la pretesa della filosofia di conservare un rapporto sintetico e strumentale con la politica. Peraltro, anche la sociologia engagé come critica dell’esistente, delle forme di violenza e delle relazioni di dominio, ha il difficile compito di prendere posizione non solo nei confronti della «miseria del mondo» (Bourdieu)[25], ma anche nell’individuazione critica – tra modernità, post-modernità e, forse, anche anti-modernità – dell’attuale percorso sociale in cui ci troviamo, «stretti tra globalizzazione, rete, nazionalismi e integralismi religiosi, morte del sociale e trionfo dell’indifferenza»[26].
Nel quadro d’epoca del “post-secolarismo”, da un punto di vista empirico, per comprendere il presente che caratterizza la forma del legame sociale, non bisogna affidarsi al catastrofismo, perché esso, come ammonisce il costituzionalista Zagrebelsky, «è un pessimo consigliere, quando non anche un consigliere interessato e, perciò, amplificato»[27]. Tuttavia, almeno nell’area occidentale, è difficile negare che «lo stile di molte esistenze, ingordo e dissipatore, che si riscontra nelle classi privilegiate e da lì si diffonde a cascata, il consumo irresponsabile di risorse comuni, lo spirito di sopraffazione, la caduta di motivazioni all’agire solidale, l’apatia, il disorientamento culturale e l’illegalità capillare sono tutte ragioni che giustificano allarme circa la tenuta dei vincoli sociali e politici nelle società occidentali»[28]. L’ultimo Touraine, molto presente nel dibattito sociologico e politico internazionale sui temi della modernità, del soggetto individuale, dell’azione collettiva, della democrazia, del multiculturalismo e della critica al liberalismo economico, ci ha invitato a praticare un penser autrement[29] che non solo sappia fare i conti con la modernità, ma che si differenzi altresì dall’ermeneutica contemporanea che riflette specularmente l’opacità del discorso interpretativo dominante, per cercare una via d’uscita dalla crisi sociale e culturale che stiamo storicamente attraversando. Touraine percepisce che l’aria è piena di parole, di crisi, di proteste e di proposte, ma l’ambizione che un pensiero critico e radicale ancora esprime è quella di apprendere nuovamente a osservare e ascoltare. L’immagine della società vuota (priva di attori e incapace di agire) e quella dello Stato onnipotente, sono associate nella visione culturale dominante «che vuole spingere fino al limite la guerra condotta contro il soggetto»[30]. Ma come possiamo parlare ancora di soggetto, «quando gli esseri umani che osserviamo sono spinti sempre più da motivazioni particolari, da desideri specifici, da una strategia economica di gestione dei redditi e delle spese, come pure delle ereditarietà culturali, sociali e familiari»?[31] Può, nel clima contemporaneo, apparire una nuova immagine di un soggetto, capace non solo di riconoscere sé come soggetto, ma anche di riconoscere l’altro come soggetto?[32] Nonostante sia impossibile pensare ad una società senza la ragione, dove il soggetto si chiude nell’ossessione della propria identità e dove senza il soggetto, la ragione diventa lo strumento della potenza, tuttavia, le nuove morfologie del contemporaneo esibiscono continuamente modalità dell’agire politico e giuridico che rimettono in discussione i processi di identificazione e di riconoscimento, ribaltando forme tradizionali di coesistenza politica anche nei dispositivi di esclusione/inclusione e nelle logiche del dominio[33]. Nel mondo globalizzato, lo stesso nesso di decisione e norma (le relazioni tra decisioni politiche, tecniche, economiche e norme giuridiche) pare non essere più proponibile e interpretabile nei termini convenzionali per comprendere le nuove dinamiche dei poteri disarticolati[34].

4. Nel nostro tempo, ancora una volta la misura tragica e abissale della conditio humana ha potuto manifestarsi in tutta la sua esistenziale vulnerabile consustanzialità tra humanitas e animalitas, tra comunità e immunità, che spesso la costringe a vivere un conflitto tra parzialità locali e morale universale, tra il sentirsi parte del posto in cui si vive e parte di una comunità umana più ampia ormai descritta come società mondiale del rischio (Beck). L’arena delle relazioni internazionali è ciclicamente oscillante tra la storia narrata da Hobbes e da quella narrata da Kant. D’altro canto, come osserva Daniele Archibugi, nel mondo nel quale ci troviamo a vivere anche la lezione del realismo politico di Machiavelli retroagisce sull’immagine di «una repubblica che non si è mai vista né conosciuta essere in vero», dalla quale, se correttamente appresa, deriva il conseguente corollario: «guai a modellare l’essere sulla falsariga del dover essere, guai a immaginarsi la realtà politica più benigna di quanto non sia»[35].
Dal punto di vista politico, oggi, «ciò che è in gioco è la definizione di che cos’è la vita sul piano individuale e sul piano collettivo»[36], tuttavia, non possiamo però non prendere sul serio la storia poiché «siamo tutti divorati dalla sua febbre» (Nietzsche) e dovremmo almeno rendercene conto: trattiamo miliardi di nostri contemporanei come schiavi e come sudditi le generazioni future. Posti di fronte all’aporia segnalata da Fredric Jameson secondo cui è difficile «pensare storicamente il presente, in un’epoca che prima di tutto ha dimenticato come si pensa storicamente»[37], peraltro non sappiamo ancora definitivamente se, nel mondo della cybersocialità[38], per i «digital natives», che sono cresciuti «dentro» il digitale e per i «digital immigrants», che hanno adottato le tecnologie dell’informazione mediale in età avanzata, il motore tecnologico di Internet, delle reti, più in generale della Network Society, siano stati capaci di vincere la storia rendendo tutto contemporaneo, persino la geografia e i suoi confini[39], facendo ubiqua ogni cosa.
Qui possiamo osservare il rapporto tra singolarità e universalismo nel frastagliato orizzonte dischiuso dall’universo storico e sociale contemporaneo, ovvero fra tarda modernità e globalizzazione, anche con uno sguardo sagittale, cioè nella forma di una possibile filosofia critica dell’attualità, ovvero nella forma metariflessiva di un’«ontologia del presente», cercando di risolvere per quanto possibile l’ambiguità persistente nello statuto di quest’espressione adoperata già a suo tempo dal vocabolario filosofico di Foucault[40] e che diversamente ha giocato, come sappiamo, un ruolo peculiare nel programma critico kantiano di ricostruzione della ragione illuministica[41]. Marramao preferisce significativamente connotare questa forma di ontologia del presente, qualificandola come un’«ontologia del contingente», dal momento che la morfologia del contemporaneo è caratterizzata da una congiuntura globale «sempre più segnata, sul piano simbolico, dall’implosione del futuro (e dalla dominanza del “futuro passato”) e, sul piano teorico, dall’allargarsi della forbice tra verità e relativismo»[42]. Certamente oggi viviamo schiacciati nell’attualità del presente, incapaci di rielaborare il passato, di progettare il futuro e di dare senso al mondo, perché bloccati sia dalla sindrome melanconica che da quella maniacale che ci rendono patologicamente nevrotica la scena del nostro agire e sentire, e che restringono l’orizzonte della decisione e del possibile, a tutto discapito per quel multiverso temporale che permea la grammatica delle forme-di-vita nelle quali si potrebbe riconnettere, in una tensione profonda, «passato e futuro dentro il presente dell’esperienza e dell’immaginazione creativa»[43]. Stretti nella nostra angoscia del mondo, la sindrome della fretta non fa che acuire i sintomi patologici della nostra malattia temporale (cronofagia)[44] contemporanea. Qui, è bene sottolinearlo, faccio riferimento al termine-concetto di contemporaneità in un’accezione di significato che presenta una qualche consonanza con quella praticata da Giorgio Agamben[45]. Intanto, lo stesso autore che scrive queste pagine, nel suo tempo, è «contemporaneo dei testi e degli autori che esamina»: nietzschianamente, tramite opportune «considerazioni intempestive», egli «vuol fare i conti col suo tempo, prendere posizione rispetto al presente». Nel tempo storico in cui gli è dato da vivere, anche se può arrivare a «odiare il suo tempo», in ogni caso egli sa di «appartenergli irrevocabilmente», a tal punto da non poter sfuggire da esso. Per cui la contemporaneità è «una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze». Benché le definizioni assiomatiche sfuggano alla complessità ontologica del tempo, come ha chiarito Ricoeur, Agamben ce ne suggerisce una secondo cui «contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri». Di conseguenza, «contemporaneo è colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente». Percepire questo buio, questa oscurità, «non è una forma di inerzia o di passività», al contrario ciò implica «un’attività e un’abilità particolare» capaci di «neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è però, separabile da quelle luci». Ecco perché può dirsi “contemporaneo” soltanto chi «non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità». Sorge spontaneo a questo punto chiedersi che interesse dovrebbe muoverci nel tentare di riuscire a percepire le tenebre che provengono dall’epoca? In altri termini, «non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci?». Al contrario, sostiene Agamben, contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo «come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui». Per tutto ciò, “contemporaneo” è colui che «riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo». Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa «essere contemporanei»: per questo i contemporanei «sono rari», perché essere contemporanei è «una questione di coraggio», ovvero significa «essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca», ma anche di percepire in quel buio «una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi». Malgrado tutto, siamo contemporanei, cioè «perennemente in viaggio verso di noi», nell’ora del presente tra luce e oscurità.

5. Nella condizione globale contemporanea è possibile riattualizzare il modello di federalismo cosmopolitico di Kant[46] come punto di riferimento essenziale per la teoria delle relazioni internazionali, considerandolo come uno dei tratti distintivi del nostro spirito di contemporanei? Come cittadini del mondo che vivono in un mondo di cittadini, dovremmo non solo considerare «assurdo» l’orgoglio nazionale che spinge a trattare da ignoranti o da schiavi gli altri popoli, guidati così solo dal cieco istinto, che invece dovrebbe essere sostituito dalle massime della ragione, «la quale esige che venga estirpato il fanatismo nazionalistico e che al suo posto subentrino insieme patriottismo e cosmopolitismo»[47]. Ancora una volta, dopo più di due secoli, con una continuità per certi aspetti sbalorditiva di temi e paradigmi che solo in rari momenti la riflessione filosofica conosce nelle sue riconfigurazioni significative, siamo chiamati a verificare l’attendibilità dell’idea secondo cui «viviamo in un mondo filosofico il quale, almeno per un certo verso, assomiglia a quello in cui abitava Kant»[48]. Il fatto è che, come ha scritto Ferrara, viviamo in un mondo anche filosofico dove «non è facile conciliare le nostre aspirazioni universalistiche, sia teoretiche sia normative, con una accettazione reale del pluralismo degli schemi interpretativi»[49]. Ora, se volgiamo lo sguardo al presente, modificando la prospettiva visuale che ha caratterizzato il «vertice ottico tradizionale» predominante nella filosofia della storia e nelle scienze sociali del Novecento, che hanno conferito all’Occidente una posizione privilegiata nei confronti del resto mondo, possiamo constatare che le nuove forme del conflitto contemporaneo[50] e la crisi dello spazio pubblico – caratterizzato dalla crisi economica mondiale con cui ha esordito il XXI secolo, dal conflitto identitario, dalla disuguaglianza e ingiustizia sociale che coinvolgono drammaticamente la coppia redistribution-recognition[51] e anche dai paradossi politico-culturali dell’era digitale – colpiscono di fatto al cuore il vecchio paradigma contrattualista della modernità politica. Posti di fronte all'«onda d’urto» che attraversa tutte le scene dell’odierno mondo globale, c’è chi, come Marramao[52], ha sostenuto la tesi che per risolvere l’antagonismo tra universalismo neutralizzante dello Stato moderno e il feticismo identitario del comunitarismo e di un certo multiculturalismo, si possa avanzare l’ipotesi della strutturazione di una sfera pubblica globale improntata ad una politica universalistica della differenza. Differenza al singolare, come criterio che ci aiuta a rompere la falsa equazione tra incommensurabilità e incomparabilità delle culture. Un universalismo inteso come sintesi disgiuntiva che parte dal presupposto della inalienabile e inappropriabile differenza singolare di ciascuno/a: singolarità irriducibili e reciprocamente inassimilabili. C’è chi (ancora Marramao) non crede a una società civile globale (globale Zivilgesellschaft) in formazione, dal momento che di globale vi è soltanto, allo stato attuale delle cose, il mix mercato-informazione. Scetticismo e incredulità pervadono ogni possibile avvento di una repubblica cosmopolitica preconizzata più di due secoli fa da Kant o di una civitas maxima postulata nel secolo scorso da Hans Kelsen. Diversamente, sempre Marramao, crede più possibile la creazione di “sfere pubbliche diasporiche” in una sfera pubblica globale improntata all’universalismo della differenza. Una sfera pubblica che deve aprirsi sempre e comunque a “ospiti inattesi”. Da tutto ciò emerge un’immagine di Cosmopolis come lo spazio di una «Città globale» popolato da viandanti e da “voci narranti” in grado di narrare e praticare il criterio della differenza.
Il mondo contemporaneo nella sua nuova congiuntura storica, in particolare quella dell’Occidente dominata dalla paura dei barbari, conosce sempre più inedite partizioni in diversi gruppi che annoverano, secondo quanto ha osservato Todorov[53], i paesi “dell’appetito”, “del risentimento”, “dell’angoscia” e “dell’indecisione”. In questo scenario epocale, qual è il ruolo che può svolgere oggi la filosofia (politica, morale, giuridica e sociale) in questo nostro tempo sospeso «tra il non più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora del nuovo ordine sopranazionale» (Marramao)? Proiettata sulla scena mondiale, la filosofia come sapere interrogante, imperniata sulla dialettica e sul dialogo, non può non confrontarsi con le altre grandi culture del pianeta, forme di sapere diverse dal sapere filosofico. Viviamo nel «multiverso interculturale del globale», o meglio del «glocale». A proposito del glo-cal, sempre Marramao ha osservato che il trattino (glo-cal) non è solo un mero tratto disgiuntivo ma anche congiuntivo. È proprio vero che c’è una semplice linea di confine tra cosmopolitismo dei ricchi, visti come una società del jet set indifferente a ogni frontiera, e localismo dei poveri, costretti e chiusi nei loro siti sempre più marginali e periferici? Il fatto è che nella condizione globale contemporanea le cose vanno all’opposto. Il paradosso con cui oggi abbiamo a che fare è un cosmopolitismo dei poveri a fronte di un localismo dei ricchi. Politiche di devolution marcate nelle regioni ricche del Pianeta (anche in Italia), contro richiesta di universalismo che proviene dalle regioni più povere. Insomma, abbiamo a che fare con una globalizzazione che omologa, ma non universalizza, comprime, ma non unifica.
Ma, allora, viene da chiedersi: le pretese tradizionali di universalità della filosofia si sono relativizzate? Siamo entrati inesorabilmente nell’era del «relativo globale»[54], dove in nome della vitalità del relativo si crea una confusione tra morale e politica, tra fede e ragione, tra pubblico e privato e dove la crisi della democrazia rappresentativa riflette le metamorfosi del sistema politico sempre più caratterizzato dai conflitti d’interesse, dalle ragioni del più forte, favorendo così derive carismatiche e populiste? Può la democrazia rinnovarsi nell’era del relativismo soltanto attraverso la pratica di una razionalità comune[55] che va al di là dei particolarismi individuali e culturali? Sul versante filosofico-politico, etico, sociale e giuridico, secondo Zolo[56], l’universalismo divide gli uomini perché nega la diversità e la complessità nel momento stesso in cui aspira al consenso universale. D’altro canto, come sostiene ancora Marramao, non siamo più cittadini di Atene, ma nomadi e migranti giunti a Cosmopolis dalle più disparate e diverse regioni, lingue e tradizioni. La Ragione dell’Occidente non detiene più il monopolio dell’Universale, a fronte del particolarismo e localismo delle altre civiltà. Nello scenario della globalizzazione, quali e quante sono le retoriche dell’Universalismo? La stessa categoria dell’umano è sempre più diventata una categoria polemogena. Se muoviamo dalla teoria critica normativa del riconoscimento – con Hegel e dopo e oltre Hegel (come fa Honneth) – sappiamo che «il soggetto non può più essere pensato come autocostituito (come l’Io che pone se stesso della formula fichtiana), né la sua identità può essere considerata come un prodotto della sua biologia». Esso si forma all’interno di un processo sociale di riconoscimento. Da Hegel abbiamo imparato comunque che tutti i conflitti sociali hanno anche una natura morale. Dilagano le forme più disparate di misconoscimento (violenza fisica, negazione dei diritti, umiliazione degli individui). Riconoscere l’altro è il nostro imperativo morale fondamentale, è la condizione della nostra autonomia: violare quell’imperativo è violare la condizione di noi stessi. Questa normatività è all’origine della nostra humanitas. Il mondo che ci circonda è anche un mondo normativo, fatto di pratiche, norme, esempi di vita. Questa normatività è un fatto relazionale. Se non so chi sono, così non so in ultima analisi chi è l’altro. Dovunque domina la commercializzazione della soggettività. La vita, biopoliticamente, si intreccia sempre di più tra communitas e immunitas[57]. Vi sono processi causali che rafforzano progressivamente la reificazione contemporanea nel gran bazar capitalistico con inediti risvolti nelle dinamiche di mercificazione (e di “messa in valore”) delle stesse differenze culturali[58]. Nella contemporaneità, se c’è urgente bisogno di una riflessione approfondita e problematica sul rapporto tra etica interculturale e universalismo critico[59], allora una riflessione sulla normatività[60] non può non configurarsi anche come una riflessione per comprendere i conflitti sociali e politici contemporanei, per analizzare il senso dell’evoluzione delle società attuali, per coglierne le patologie, per impostare una comprensione radicale della giustizia, della cittadinanza e della democrazia anche in modo più profondo di ogni visione liberal-procedurale.



[1] G.W.F. HEGEL, La fenomenologia dello spirito, a cura di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008.
[2] R. FINELLI, Introduzione, in AA.VV., Riconoscimento, dialettica e fenomenologia a duecent’anni dalla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, “Post-filosofie”, n. 4, 2008, p. 7.
[3] Cfr. G.W.F. HEGEL, Filosofia dello spirito jenese, a cura di G. Cantillo, Laterza, Roma-Bari 2008.
[4] Cfr. A. HONNETH, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un'etica post-tradizionale, Rubbettino, Soveria Mannelli 1993; ID., Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, il Saggiatore, Milano 2002; ID., Il dolore dell’indeterminato Una riattualizzazione della filosofia politica di Hegel, Manifestolibri, Roma 2003.
[5] Cfr. F. CRESPI, M. ROSATI, A. SANTAMBROGIO, Presentazione, in AA.VV La teoria del riconoscimento, “Quaderni di Teoria Sociale”, n. 8, 2008, p. 11.
[6] Cfr. F. FISTETTI, È possibile una società del riconoscimento? Un dialogo con N. García Canclini, A. Honneth e A. Caillé, in AA.VV., Interculturalità e riconoscimento, “Post-filosofie”, n. 5, IV, 2009, pp. 41-62.
[7] Ivi, p. 49.
[8] Ibidem.
[9] Ivi, p. 50.
[10] Ibidem.
[11] Cfr. A. HONNETH, Reificazione. Il punto di vista della teoria del riconoscimento, Meltemi, Roma 2007. Al riguardo, cfr. A. FERRARA, La pepita e le scorie. Ripensare la reificazione alla luce del riconoscimento, in AA.VV La teoria del riconoscimento, cit., pp. 45-67.
[12] F. FISTETTI, È possibile una società del riconoscimento?, cit., p. 52.
[13] Cfr. A. CAILLÉ, Introduzione a ID. (sous la dir. de), La quête de reconnaissance. Nouveau phénomène social total, La Découverte/Mauss, Paris 2007; tr. it. , in AA.VV., Interculturalità e riconoscimento, cit., pp. 15-20.
[14] Cfr. F. D’ANDREA, A. DE SIMONE, A. PIRNI, L’io ulteriore. Identità, alterità e dialettica del riconoscimento, Morlacchi, Perugia 2005².
[15] A. CAILLÉ, Introduzione a ID. (sous la dir. de), La quête de reconnaissance, cit., p. 15.
[16] Ivi, p. 17.
[17] Ivi, p. 18.
[18] Cfr. A. CAILLÉ, Riconoscimento e sociologia, in AA.VV., Interculturalità e riconoscimento, cit., p. 31.
[19] Cfr. V. GESSA KUROTSCHKA, Fondabilità dell’etica, in C. LUMER (a cura di), Etica normativa. Principi dell’agire morale, Carocci, Roma 2009, pp. 17-31.
[20] Ivi, p. 17.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, p. 22.
[23] Ibidem.
[24] Cfr. L. BAZZICALUPO, R. ESPOSITO (a cura di), Politica della vita. Sovranità, biopotere, diritti, Laterza, Roma-Bari 2003; L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006.
[25] Cfr. P. BOURDIEU, La misère du monde, Seuil, Paris 1993.
[26] L. DE MICHELIS, Ritorniamo ai diritti dell’individuo, in “Tuttolibri-La Stampa”, 28 marzo 2009.
[27] G. ZAGREBELSKY, Stato e chiesa. Cittadini e cattolici, in A. FERRARA (a cura di), Religione e politica nella società post-secolare, Meltemi, Roma 2009, p. 47.
[28] Ibidem.
[29] Cfr. A. TOURAINE, Il pensiero altro, Armando, Roma 2009.
[30] Ivi, p. 55.
[31] Ivi, p. 56.
[32] Cfr. A. PIRNI (a cura di), Logiche dell’alterità, ETS, Pisa 2009.
[33] Cfr. A. DE SIMONE (a cura di), Diritto, giustizia e logiche del dominio, Morlacchi, Perugia 2007.
[34] Cfr. A. CATANIA, Metamorfosi del diritto. Decisione e norme nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2008.
[35] D. ARCHIBUGI, Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica, il Saggiatore, Milano 2009, p. 272.
[36] R. ESPOSITO, La politica del presente, conversazione a cura di R. Ciccarelli, in AA.VV. Impersonale. In dialogo con Roberto Esposito, a cura di L. Bazzicalupo, Mimesi, Milano 2008, p. 30.
[37] F. JAMESON, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007, p. 5.
[38] Cfr. F. CASALEGNO, La cybersocialità. Nuovi media e nuove estetiche comunitarie, Il Saggiatore, Milano 2007.
[39] Cfr. G. GRANIERI, Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 7.
[40] Cfr. V. SORRENTINO, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi, Roma 2008.
[41] Cfr. G. MARRAMAO, La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 8.
[42] Ivi, p. 9.
[43] Ivi, p. 106.
[44] Cfr. G. PAOLUCCI (a cura di), Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione Guerini, Milano 2003. Sulle metamorfosi delle relazioni tra soggettività, esperienza e tempo nella “società dell’accelerazione” cfr. C. LECCARDI, Sociologie del tempo, Laterza, Roma-Bari 2009.
[45] Cfr. G. AGAMBEN, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pp. 8-17. Di seguito, tutte le frasi di Agamben citate tra virgolette sono tratte da quest’opera.
[46] Cfr. M. MORI, La pace e la ragione. Kant e le relazioni internazionali. Diritto, politica, storia, il Mulino, Bologna 2008.
[47] I. KANT, Handschriftlicher Nachlass. Reflexionen, in KGS (Kants Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußschen Akademie der Wissenschaft, Walter de Gruyter & Co., Berlin 19002 sgg.), vol. 15, n. 1353, pp. 590-591.
[48] A. FERRARA, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008, p. 36.
[49] Ivi, p. 37.
[50] Cfr. G. GROSSI (a cura di), I conflitti contemporanei. Contrasti, scontri e confronti nelle società del III millennio, UTET, Torino 2009.
[51] Cfr. N. FRASER, A. HONNETH, Redistribuzione o riconoscimento? Una controversia politico-filosofica, Meltemi, Roma 2007.
[52] Cfr. G. MARRAMAO, La passione del presente, cit., pp. 17-49.
[53] Cfr. T. TODOROV, La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano 2009.
[54] Cfr. C. SINI, Da parte a parte. Apologia del relativo, ETS, Pisa 2008, p. 135 ss.
[55] Cfr. R. BOUDON, Elogio del senso comune. Rinnovare la democrazia nell’era del relativismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; ID., Il relativismo, il Mulino, Bologna 2008.
[56] Cfr. D. ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, nuova ed., Feltrinelli, Milano 2008.
[57] Cfr. R. ESPOSITO, Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, intr. di T. Campbell, Mimesis, Milano 2008.
[58] Cfr. E. FORNARI, Senso e traduzione. Religioni, culture, logiche identitarie, in A. FERRARA (a cura di), Religione e politica nella società post-secolare, cit., p. 264.
[59] Cfr. G. CACCIATORE, G. D’ANNA, Etica e interculturalità. Prospettive filosofiche, Carocci, Roma 2009.
[60] Cfr. A. DE SIMONE, Intersoggettività e norma. La società postdeontica e i suoi critici, Liguori, Napoli 2008.
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