“Iconoclastie”: un cantante (un cantautore), un uomo di spettacolo accucciato sotto al termosifone come l'ultimo dei barboni. È il De André ritratto da Guido Harari lungo la "mitica" tournée con la PFM del 1978-1979 (foto ora raccolte nel libro Evaporati in una nuvola rock, ed. Chiarelettere, 2008). Cos'è cambiato, da allora, nell'iconografia pop? Com'è cambiato il mondo del rock, della canzone? Cos'è rimasto della carica "eversiva" della Beat Generation?
Della Beat Generation è rimasto molto malgrado la pericolosa normalizzazione a cui è avviata la società occidentale. L’elezione di un Presidente degli Stati Uniti afroamericano è probabilmente il fatto più “eversivo” del nuovo secolo. Il nesso tra le due cose è la fortissima spinta idealista che ha pervaso l’America negli ultimi cinquant’anni, merito anche di autori visionari come Allen Ginsberg, per fare un nome su tutti.
In relazione a De André e all’iconografia della musica, l’immagine del “termosifone” restituisce una verità che da anni è ormai evaporata dalla musica. La decultura da videoclip, l’asservimento totale all’immaginario che arriva dal mondo della moda, hanno svuotato di contenuti una forma espressiva che oggi ha da offrire solo pura estetica. Personalmente, ho tratto ispirazione dalle fotografie di William Claxton, Arnold Newman, Richard Avedon, Jim Marshall, David Gahr, Giuseppe Pino, della prima Annie Leibovitz. Fotografi che vivevano in simbiosi, generazionale e culturale, con i loro oggetti del desiderio. “Cantavano” a modo loro uno stile di vita, una cultura in movimento, una o più generazioni in divenire. Oggi mi è impossibile “conoscere” un musicista nelle immagini sontuose di un Lachapelle o di Mark Seliger, il cui approccio è mosso solo da logiche di puro mercato. Va detto anche che non c’è più musica da documentare, solo un rumore di fondo che muove un business sempre meno miliardario, sempre meno incidente sulla realtà, sempre meno connesso con la realtà.
Durante la presentazione del libro presso la Biblioteca Sormani di Milano – fonte di ispirazione e di documentazione "filologica" per La Buona Novella, l'album del 1970 incentrato sui vangeli apocrifi – Franz di Cioccio, batterista e cantante della PFM, ha definito senza mezzi termini De André come "poeta". Qual è la definizione più aderente, secondo lei – evitando etichettature comunque troppo stringenti –, dell'artista genovese? Qual è stato il suo apporto maggiore, dieci anni dopo la sua morte, al mondo artistico italiano e al costume?
De André rimane per me soprattutto un grande uomo di pensiero, al pari di Pasolini, di Giorgio Gaber, di Dario Fo e di pochi altri grandi del Novecento italiano. A dieci anni dalla sua scomparsa i versi delle sue canzoni figurano in antologie scolastiche e una bulimia di compilation e di ristampe dei suoi dischi non accenna a volersi fermare. Ma è il suo pensiero che lo consegna veramente al futuro. La mostra di Palazzo Ducale, di cui sono uno dei curatori, ha proprio questo intento: di far incontrare Fabrizio e il suo pubblico un passo oltre i facili schemi e le trite celebrazioni. Poeta e cantautore che sia, De André ha affrontato a testa alta le sue contraddizioni, spinto da una curiosità insaziabile, da un desiderio fortissimo di conoscenza. Si è schierato, ma non ha mai espresso giudizi, non ha mai arringato il suo pubblico. Ha infilato il dito in tempi non sospetti in molte piaghe di questa Italietta: la religione, il razzismo, la corruzione, l’ipocrisia. Nei suoi versi e nei suoi appunti si può trovare tutto quello che c’è da sapere per decifrare l’amaro cammino in cui siamo imprigionati. Di questo non si potrà mai ringraziarlo abbastanza.
In un frangente così tribolato per il nostro Paese – gli anni '70 – De André, come molti altri grandi artisti europei, del resto, ha saputo portare avanti una sua poetica precipua senza timore di apparente inattualità (v. La Buona Novella). Alla luce della pesante contestazione di cui fu fatto oggetto quel tour, dallo scontro verbale al tentato "avvelenamento" da LSD, cosa pensa del suo ideale di "impegno" e di come oggi si rileggono, con diverse categorie, quegli anni, specie il '68?
Si è parlato spessissimo dell’anarchia di Fabrizio. Per lui si trattava prima di tutto di una condizione dello spirito, più che della scontata aderenza politica a un movimento. Era un individualista che si ribellava a schemi preconfezionati, primo tra tutti quella sua “borghesite” che gli fu rinfacciata da gruppetti di contestatori durante la tournée con PFM nel 1978-1979. Questa era la sua forza. Per lui contava l’individuo, l’uomo singolo col quale sapeva di potersi rapportare. Il branco invece gli faceva paura. Provò ad affrontare un lavoro in chiave collettivista, Storia di un impiegato (1975), ma ne venne fuori un disco nato già vecchio. Il suo pensiero volava davvero in piena solitudine. Come si rilegge il ’68 a quarant’anni di distanza? Come un’ubriacatura di massa, che portò anche ad aberrazioni tragiche come la lotta armata e fu rapidamente fagocitata dal sistema. Ma rimane ancora vivissimo lo spirito libertario di quella stagione, lo slancio di un idealismo che oggi le nuove generazioni non riescono neppure a immaginare, tritate da un materialismo senza sbocchi.
E nello specifico come si sente di caratterizzare la specificità del cantautore De André e della “scuola genovese” rispetto al panorama internazionale di quegli anni?
La “scuola genovese” della fine degli anni Cinquanta non è mai esistita. C’erano semmai intersezioni magiche in un gruppetto di appassionati di musica che suonavano insieme e si emulavano, innamorati persi di jazz, rock, canzone francese e musica classica: Tenco, Lauzi, Paoli, Bindi, Reverberi, e De André che di quel gruppo fu poi l’ultimo in ordine di tempo a emergere.
Fernanda Pivano ha dichiarato che se De André era il Dylan italiano, allora Dylan doveva essere il Fabrizio americano. Credo che De André abbia portato, come pochi altri, la cultura alta in una forma espressiva considerata per lungo tempo un’arte minore, la canzone. Ne ha tratto grande poesia e ancor più grande pensiero, al pari di Dylan certo, forse anche di più. Non solo, se con la tournée con PFM del 1978-79 e con i relativi dischi live ha rivoluzionato non esclusivamente il proprio repertorio, ma l’intera musica italiana, Fabrizio De André, con un disco come Creuza de ma, realizzato insieme a Mauro Pagani, ha aperto nuovi orizzonti alla musica a livello mondiale. È lui l’inventore della cosiddetta “world music”.
Senza voler indicare forzosamente nomi (& cognomi), è possibile suggerire chi oggi ha saputo raccogliere quella "lezione", nel mondo della canzone o della letteratura, come in quello dell'Arte?
Nessuno, anche se Ivano Fossati è indubbiamente l’artista più affine a Fabrizio, moralmente e musicalmente, anche per le canzoni bellissime scritte insieme per Le nuvole e Anime salve. Ma non ci sarà mai un nuovo De André né avrebbe senso attenderlo come un nuovo Messia. Fabrizio era figlio del suo secolo, della sua cultura, di una Genova borghese. Era soprattutto figlio dei suoi conflitti e della sua geniale capacità di esorcizzarli attraverso la sua arte.
Un pensiero sulla fotografia in generale (sulla fotografia oggi) e in particolare sul suo settore di ricerca –la ritrattistica, la fotografia della musica, il reportage.
Preferisco infilarmi in una mostra di Vermeer che ad una di fotografia, perché francamente è un panorama desolante. I reportagisti si ostinano a raccontare le malattie del mondo a persone incapaci di “sentire” e di “vedere”. I fotografi di moda sono diventati i veri ritrattisti moderni, ma è solo cosmesi di regime. Si possono apprezzare una volta di più i maestri del passato, i Cartier-Bresson, gli Avedon, ma il futuro, il concetto di futuro, non abita più qui. Si può solo riflettere sul troppo pieno che è poi solo irrimediabile vuoto.
Intervista effettuata nel dicembre 2008