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Questioni razziali e università americane:
le vicende dell’affirmative action

Riccardo Gori - Montanelli

La storia del trattamento razzista nei confronti della popolazione nera negli Stati Uniti risale al periodo della schiavitù e, dopo la Guerra Civile del 1861, alle leggi che imponevano la segregazione dei neri dai bianchi negli Stati del Sud, segregazione che in alcuni Stati è durata fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale. II trattamento discriminatorio nei confronti dei neri non permetteva loro di ottenere un’educazione paragonabile a quella dei bianchi. Colleges ed università americane avevano sempre adottato sistemi di ammissione basati sulla meritocrazia, cosa che rendeva ben difficile l’ammissione per i neri: essi non avevano – e non potevano avere – un bagaglio di istruzione tale da metterli alla pari dei candidati bianchi.
Nel 1965, con una ordinanza, il Presidente Johnson imponeva a tutti i datori di lavoro che ottenevano contratti o contributi dal governo federale di attivarsi fattivamente per assicurare eguali opportunità di impiego ai propri dipendenti e, nel caso di colleges e università beneficiari di contributi federali, eguali opportunità nell’ammissione ai corsi di istruzione [1]. Fu così che entrò in vigore l’espressione affirmative action: essa indica appunto gli interventi, gli atti fattivi, “le azioni positive” a favore di gruppi razziali, o in genere di minoranze etniche, svantaggiati [2]. La giustificazione per questo trattamento preferenziale viene data sia dal tentativo di ‘compensare’ per le passate o presenti discriminazioni sia dall’aspirazione di ottenere una maggiore diversificazione razziale o etnica nel corpo studentesco. Fu Martin Luther King a notare che una società che aveva fatto qualcosa di ‘speciale’ contro i neri per centinaia di anni doveva fare qualcosa di speciale a favore dei neri stessi [3]. Dal 1965 la maggioranza dei colleges e delle università americani hanno adottato sistemi vari di affirmative action e da allora le polemiche a favore o contrarie alle pratiche adottate per assicurare l’eguaglianza di opportunità nell’ammissione degli studenti non hanno avuto pause.
Le critiche all’affirmative action si concentrano principalmente sul fatto che nell’attribuire una via preferenziale a certi gruppi razziali o etnici si viene a creare, a sua volta, una discriminazione che torna a svantaggio di candidati (naturalmente bianchi) che hanno una maggiore preparazione e che per merito avrebbero potuto essere ammessi all’università, se non fossero stati scavalcati da un individuo che ha ricevuto un trattamento preferenziale. Un’altra critica rivolta all’affirmative action consiste nel sostenere che esso trasmette un messaggio di condiscendenza, di tolleranza nei confronti delle minoranze, come se queste fossero incapaci di essere valutate sulla base dei propri effettivi meriti.
Da qualche tempo, le critiche stanno avendo un certo effetto. Nel corso delle elezioni nel novembre del 2006, lo Stato del Michigan si è aggiunto agli altri tre Stati che avevano già proibito l’uso dell’affirmative action. Ciò è avvenuto con un emendamento alla Costituzione statale che è stato sottoposto al voto degli elettori, in aggiunta alla scheda elettorale, a seguito di una iniziativa di voto, una ballot initiative popolare. L’emendamento, che proibisce la discriminazione o trattamento preferenziale basato sulla razza, sul sesso o sull’origine etnica nelle ammissioni ai corsi negli istituti pubblici di educazione, assegnazioni di appalti pubblici o assunzioni nell’impiego, è stato approvato con una percentuale di elettori del 58% contro il 42% [4]. Ora anche nel Michigan, per permettere a gruppi razziali o etnici svantaggiati di essere ammessi in numero ragionevole alle università statali, si dovranno considerare i metodi per aggirare la proibizione adottata in quegli Stati, California, Texas e Florida, dove già esiste la proibizione all’uso dell’affirmative action, oppure trovare altri nuovi metodi.
Quanto è avvenuto nel Michigan fa presagire che altri Stati si aggiungeranno a quelli che già proibiscono una preferenza volta a superare la discriminazione razziale. E ciò potrebbe avvenire specialmente come risultato dell’impegno di un ricco uomo d’affari nero della California, Ward Connerly. Egli è stato il promotore delle ballot initiatives in California (circa 10 anni fa) [5] nello Stato di Washington [6] e nel Michigan e ora sta preparando campagne simili in altri nove Stati. Nel corso di una conferenza nel Dicembre scorso avrebbe fatto presente che vi sono ventitré Stati che costituzionalmente danno il diritto ai propri cittadini di proporre leggi tramite il sistema delle iniziative popolari. Tre Stati hanno già approvato l’abolizione dell’affirmative action e ne rimangono quindi venti. Se si aggiungono altri Stati si può dimostrare che le preferenze razziali sono antitetiche alla volontà del popolo americano [7]. Ward Connerly ha anche scritto un libro autobiografico nel quale insiste sulla necessita di eliminare del tutto l’affirmative action: Creating Equal: My Fight against Race Preferences [8].
Entro questa prospettiva, l’affirmative action sarebbe una forma di razzismo e la soluzione del problema dei pochi studenti neri o ispanici nelle università non risiederebbe in un trattamento preferenziale nelle ammissioni, ma nella migliore preparazione accademica nelle scuole. In una intervista al “San Francisco Chronicle” nel Settembre 2003 Connerly disse: «Non m’interessa che i giovani siano o meno discriminati [...] i giovani hanno bisogno di imparare e dò maggiore importanza al fatto che questi giovani ricevano una educazione che al fatto che siano oggetto di una politica impositiva di eguaglianza razziale» [9].
II risultato però di questo tipo di approccio è che, per esempio, quest’anno all’università della California (Los Angeles) la percentuale di neri al primo anno di immatricolazione 2006 è stata solo del 2%, la più bassa percentuale di iscrizioni nella storia di questo istituto. Nelle università private di prestigio, che non sono legalmente soggette alla proibizione, la percentuale dei neri e degli ispanici è invece aumentata. Stanford University, per esempio, ha quest’anno una percentuale di neri dell’11%.
Un sistema adottato da varie università per aggirare l’ostacolo della proibizione all’uso della “race-based affirmative action” è stato quello di fissare percentuali prestabilite di candidati neri o di altre etnie che dovevano essere comunque ammessi. Questo sistema, cosiddetto delle quote, durò fino al 1978 quando la Corte Suprema federale sentenziò, nel Caso Bakke, che il sistema delle quote era incostituzionale perché violava la legge federale del 1964 sui diritti civili: essa rappresentava un sistema basato su una discriminazione su base razziale [10].
Uno dei metodi ancora in uso per superare l’ostacolo della proibizione all’uso dell’affirmative action è quello di prendere in considerazione il basso livello di reddito della famiglia degli studenti che fanno domanda di ammissione all’università. Viene descritto come “class-based affirmative action”. Tende a favorire studenti poveri senza distinzione di razza che non hanno avuto la possibilità di usufruire di un’educazione paragonabile a quella privilegiata dei giovani appartenenti alle famiglie abbienti. È quest’ultimo un metodo usato in alcuni degli Stati dove è stato legalmente proibito il “race-based affirmative action”. È risultato, tuttavia, che come metodo esso non serve efficacemente a raggiungere quell’obbiettivo di diversificazione razziale che le università si prefiggono. Infatti, quando si osservano i risultati degli esami che gli studenti debbono superare, si è notato che gli studenti poveri di razza bianca riescono sempre con risultati superiori a quelli degli studenti neri o ispanici provenienti da analoghi livelli di povertà [11].
Esiste poi il metodo che va sotto il nome di “Percentage Plan” che è stato adottato per qualche tempo per l’ammissione all’università statale del Texas dopo la sentenza nel 1996 della Corte Suprema di quello Stato che bandiva l’uso delle preferenze razziali. II “Percentage Plan” prevedeva che agli studenti che si licenziavano dalle high schools (scuole medie superiori) del Texas entro il primo 10% delle rispettive classi venisse automaticamente garantita l’ammissione all’Università. II sistema della percentuale (percentage) è stato ed è ancora usato in alcune università della California e della Florida, ma con diverse percentuali.
Secondo i fautori di questo sistema, in tal modo si sarebbe dovuta ottenere una diversificazione razziale in quanto nelle high schools localizzate nelle zone più povere era probabile che vi fosse un numero sufficiente di neri tra i primi dieci delle varie classi. II problema che si è verificato a questo riguardo è stato che come risultato si sono venuti ad escludere ottimi studenti, anche neri, che avevano scelto scuole più avanzate ed impegnative e corsi più onerosi, ma che non erano riusciti a finire tra i primi dieci di quelle scuole. Inoltre, con siffatto sistema, si venivano a privilegiare gli studenti che andavano a scegliere le scuole più facili, che notoriamente richiedono un minor impegno scolastico [12].
Questi sono alcuni dei metodi più noti che sono stati introdotti e in alcuni casi vengono ancora usati, ma altri ne esistono come, ad esempio, quello che offre la possibilità all’università di vagliare tra i candidati coloro che sono riusciti a superare nella loro vita difficoltà causate da pregiudizi e discriminazioni oppure da difficoltà fisiche e che dimostrino, quindi, una maggiore capacità di raggiungere gli obbiettivi della vita quando paragonati a studenti che abbiano ottenuto solo buoni voti. Tuttavia, questo favorire studenti che abbiano trionfato sulle avversità finisce, come descritto da alcuni critici [13], per delineare una questione di competitive victimization.
È da aggiungere un altro sistema adottato in certe università, ovvero quello della lotteria: tramite esso è previsto di selezionare un certo numero di studenti che abbiano ottenuto certe qualifiche e ammettere tra loro quelli che vengono scelti tirando fuori il loro nome dal cappello. L’idea è che così facendo si dovrebbe permettere l’ammissione di una certa percentuale di neri ed ispanici senza violare la proibizione delle preferenze razziali [14].
Naturalmente il problema è che questi vari metodi seguiti per raggiungere la desiderata diversificazione razziale nelle scuole possono essere impugnati come metodi per eludere la proibizione del “race-based affirmative action” e quindi in violazione delle varie leggi statali. Non mancheranno le cause, anzi alcune sono state già avviate, e prima o poi una di esse finirà per arrivare in appello alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Quest’ultima si è trattenuta finora dall’assumere la questione dell’affirmative action dal punto di vista di fondo, ovvero quello della sua validità costituzionale, ritenendola forse una questione sostanzialmente politica che deve essere risolta in sede legislativa. Le sue decisioni in materia si sono limitate a decidere sulla validità di un particolare sistema usato, considerandolo dal punto di vista prettamente pragmatico e riferendosi solo ai fatti specifici della causa in appello. Tipici, a questo riguardo, sono due noti casi del 2003 che si riferivano a pratiche in uso nell’Università del Michigan. Nel caso che coinvolgeva l’undergraduate school dell’Università, la Corte ha deciso che il sistema di concedere 20 punti (su 110 necessari per essere ammessi) a candidati delle minoranze razziali o etniche era un sistema troppo meccanico e troppo simile al sistema delle quote esaminato nel Caso Bakke della California e quindi era legalmente invalido [15].
Nell’altro caso, che riguardava una studentessa bianca non ammessa alla Facoltà di Legge dell’università, il sistema usato per l’ammissione non aveva punteggi, ma la razza dei candidati veniva presa in considerazione dagli esaminatori allo scopo di ottenere nelle classi una diversificazione razziale ed etnica. In questo caso la Corte Suprema ha ritenuto che il criterio usato in maniera flessibile non era in violazione della clausola della Costituzione che garantisce l’eguaglianza di trattamento senza distinzione di razza, sesso e religione ed era pertanto un valido modo per assicurare quella diversificazione del corpo studentesco così importante per l’educazione degli studenti [16].
Negli Stati dove ancora non esistono proibizioni legali all’uso dell’affirmative action, le università sia statali sia private continuano a promuovere una politica intesa a creare un maggior equilibrio tra bianchi, neri e minoranze svantaggiate e la razza dei candidati è senz’altro un elemento che viene preso in considerazione nell’ammissione. L’Università della Virginia, per esempio, è un istituto che, tra le università pubbliche degli Stati Uniti, si vanta di avere una delle più alte percentuali di studenti neri. Secondo il responsabile delle ammissioni all’università lo scopo del suo ufficio è quello di creare un corpo studentesco di talento, ma allo stesso tempo diversificato. II fatto che un candidato sia nero è un elemento che viene preso in considerazione per avvantaggiarlo. II compito dell’università deve essere quello di dare ad un giovane un’educazione che vada oltre il mero studio in aula e di creare invece un corpo studentesco diversificato che permetta agli studenti di arricchire le loro esperienze stando in contatto e scambiando idee con gruppi di diverse razze e livelli sociali, preparandoli così ad affrontare la realtà della vita [17].
Non c’è dubbio che il conflitto sull’uso dell’affirmative action, sia nell’impiego sia nell’ammissione alle università, continuerà a rimanere un elemento presente, controverso e sentito nella vita politica americana. Vista l’attuale tendenza in vari Stati a proibirne l’uso, la speranza per i gruppi e le etnie svantaggiate è che i governi, sia degli Stati sia quello federale, si rendano conto sempre più dell’importanza di sostenere un miglioramento sostanziale dell’educazione fin dai primi gradi di scuola per dare a tutti, senza distinzioni, una migliore preparazione accademica.

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[1] Executive Order No. 11246, modificato da Executive Order No. 11375, 1965. L’Ordinanza 11375 affermava che il suo intento era quello di «correggere gli effetti di discriminazioni passate e presenti».
[2] Per un quadro d’insieme della controversia si vedano: Affirmative Action and Justice. A Philosophical and Constitutional Inquiry, Yale University Press, New Haven 1991; S.M. CAHN, The Affirmative Action Debate, Routledge, London-New York 1995 (favorevole); F.J. BECKWITH – T.E. JONES (eds.), Affirmative Action. Social Justice or Reverse Discrimination?, Prometheus Books, New York 1997 (critico). Cfr. T.H. ANDERSON, The Pursuit of Fairness: a History of Affirmative Action, Oxford-University Press, Oxford-New York 2004. Testi significativi della più recente discussione sono, infine, I. KATZNELSON, When Affirmative Action was White: An untold History of Racial Inequality in Twentieth-Century America, W.W. Norton & Company, New York 2005; da ultimo, J.E. KELLOUGH, Understanding Affirmative Action: Politics, Discrimination and the Search for Justice, Georgetown University Press, Washington D.C. 2006.
[3] The forgotten teachings of Martin Luther King:
http://www.inmotionmagazine.com/mlk3.html.
[4] Michigan Proposal 2, 2006: www.michigan.gov/.
[5] Proposition 209, California 1996: www.acri.org/.
[6] Initiative 200, Washington 1998: www.adversity.net/michigan/pages/4_209_i200_text.htm.
[7] Vedi: Ward Connerly anti-affirmative action jihad hits the road:
http://www.workingforchange.com/printitem.cfm?itemid=22007.
[8] W. CONNERLY, Creating Equal: My Fight against Race Preferences, Encounter Books, San Francisco 2000.
[9] Vedi: http://www.sfgate.com/cgi-bin/article.cgi?f=/c/a/2003/09/02/ED259415.DTL.
[10] Regents of the University of California v. Bakke, 348 U.S. 265 (1978).
[11] Vedi: Class-Based Affirmative Action in College Admission – The Century Foundation, IDEA Brief No. 9, May 2000.
[12] Vedi M.C. DORF, Universities adjust to State Affirmative Action Bans: are the New Programs Legal? Are they a Good Idea?: http://writ.news.findlaw.com/dorf/20070129html.
[13] Come descritto nell’articolo di Michael C. Dorf di cui alla nota precedente.
[14] Vedi op. cit. alla nota 11.
[15] Gratz v. Bollinger, 359 U.S. 244 (2003).
[16] Grutter v. Bollinger, 359 U.S. 306 (2003).
[17] Vedi L. WAGNER, Affirming the Affirmative, raccolto nella pubblicazione dell’Università della Virginia “The Cavalier Daily”, February, 1, 2007.

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