Quale identità?
Gli ambiti problematici legati al
tema dell’identità hanno in questi ultimi anni rapidamente salito la scala
delle priorità sull’agenda politica delle società contemporanee. Per quanto ad
ogni latitudine differenti, le linee di coesione e quelle di conflitto che
attraversano e segnano le nostre società sembrano infatti non poter più
rinunciare al vocabolario semantico-valoriale sotteso al concetto di “identità”
per giungere alla propria esplicitazione, sempre più chiaramente cercata,
all’interno della sfera pubblica. È questo un fatto di cui si sta gradualmente
diventando consapevoli e che, ben lungi dal rappresentare solo il punto di
avvio di discussioni accademiche, sta sempre più informando la riflessione che
presiede all’implementazione di concrete decisioni politiche[1].
Provando ad addentrarsi nel plesso
tematico ora evocato, ci si imbatte in una distinzione, ovvia nella forma ma
forse meritevole di rinnovata attenzione rispetto alle sue conseguenze sul
piano politico e sociale. Quando si parla di identità, si intende comunemente
riferirsi alla duplice determinazione di identità personale e identità di
gruppo. Mentre la prima rimanderebbe ad una dimensione individuale e quindi,
esclusivamente, alla sfera intima del singolo, la seconda condurrebbe ad
una dimensione di chiaro significato sociale che, per sua stessa natura,
andrebbe ad interessare la cosiddetta sfera pubblica. In maniera
conseguente a tale distinzione, si è soliti ritenere che solo la seconda
determinazione o declinazione dell’identità possieda rilevanza dal punto di
vista politico (basti pensare all’insieme di questioni legate
all’autodeterminazione e al riconoscimento di minoranze culturali all’interno
di uno Stato), mentre la prima si collocherebbe in un ambito di indecidibilità
e, quindi, di sostanziale indifferenza politica.
Sarebbe tuttavia decisamente parziale
pensare che le acquisizioni che vanno a comporre la risposta alla domanda
sull’identità personale possano trovarsi solo all’interno della cosiddetta
“sfera privata”: di fatto – e ciò costituisce un’evidenza difficilmente
contestabile – esse sono individuate in entrambi gli ambiti. Quella legata
all’identità personale non è questione che si distende e si risolve sul piano
esclusivamente individuale o, meglio, interiore. Essa si nutre anzi di una
serie virtualmente interminabile di riferimenti e rapporti intersoggettivi, che
solo con indubbie forzature riusciremmo a racchiudere nella dimensione del
privato e che costituiscono altrettanti banchi di prova dai quali ognuno di noi
riceve istanze di conferma, ma anche di smentita, rispetto all’immagine di sé
che ha più o meno consapevolmente elaborato.
Sotto questo profilo sembra dunque
opportuno riconsiderare entrambe le dimensioni della prospettiva identitaria
rispetto alla loro rilevanza politica. Se la risposta alla questione
dell’identità personale comprende sia la sfera privata sia la sfera pubblica,
allora anche quest’ultima dovrà considerarne le modalità e le conseguenze.
Quale prezzo?
Per cercare di esplicitare tale plesso
tematico può forse essere utile richiamare una celebre distinzione, quella tra prezzo
e dignità, che Kant sviluppa nelle pagine centrali della Fondazione
della metafisica dei costumi[2].
Se, dal punto di vista della ragione pratica, ogni cosa esistente ha un
“prezzo”, ovvero può essere sostituita da qualcosa di equivalente, solo l’uomo
– ed ogni uomo –, in quanto persona (essere capace di moralità),
non può essere scambiato con nulla di equivalente – e per questo ha “dignità”.
Tuttavia, se la persona, per così dire, non
ha prezzo, per l’identità personale sembra esistere qualcosa che si
avvicina al concetto di prezzo. Quest’ultimo deve intendersi non tanto nei
termini di utilizzabilità o acquisto dell’identità di una persona (ma anche
questo versante, stanti i recenti sviluppi tecnologici ed informatici, ha
acquisito una complessità problematica notevole), quanto in quelli, non meno
rilevanti, di conciliazione di ogni individuo con se stesso e con ogni altro.
Per “conciliazione” si intende qui, innanzitutto, una forma di (consapevole)
integrazione, coerente e coesa, fra le diverse parti che compongono la risposta
alla domanda sull’identità individuale. Ma si tratta anche di una conciliazione
che, nel suo farsi, si allarga ad ogni altro soggetto con il quale il singolo
entra in contatto, e che sfocia dunque in una più ampia integrazione, intesa
come una dimensione di relazionalità stabile, liberamente condotta ma
reciprocamente apprezzata.
Il riferimento è qui alla complessa e
costitutivamente inesauribile dinamica di auto ed etero-riconoscimento del sé,
che impegna e coinvolge ogni singolo uomo in una rete relazionale virtualmente
infinita e indistricabile, nella quale ognuno è più o meno coscientemente
costretto a mettere in campo una porzione significativa del proprio sé, insieme
all’impegno a “negoziare” il proprio riconoscimento di fronte a se stesso e ad
altri. In tale dimensione ognuno è consapevole di poter essere “invitato” a
rinunciare a quella porzione di sé (per lui) significativa, in favore di
un’altra, significativa (innanzitutto) per quegli altri dai quali richiede di
essere riconosciuto. Si ha qui a che fare con “porzioni”, ovvero con immagini
di sé, che possono essere scambiate – e, di fatto, lo sono regolarmente – con
altre, che possono però essere credute equivalenti solo da un punto di vista
estrinseco, esterno al sé al quale si riferiscono.
L’elaborazione della risposta alla
domanda su “chi sono io?”, che si configura eminentemente nella forma di un
racconto identitario (io posso raccontare chi sono), si costituisce
sulla base di immagini di sé articolate dal sé medesimo, ma anche più o meno
imposte da quella dimensione che potremmo chiamare “dell’altro da sé” e che
comprende l’insieme dei contesti, dei tempi e delle persone con le quali il sé
viene in contatto. La contemporaneità, attraverso percorsi storico-sociali qui
neppure riassumibili, ha incrementato sempre più a chiare tinte la
consapevolezza, per l’individuo, di essere inserito in un rapporto di scambio,
in una dinamica di dare/avere che costantemente si ripropone e dalla quale,
rispetto a quella fondamentale domanda, nessuno può dirsi immune o chiamarsi
fuori. Quel rapporto e quella dinamica comportano indubbi costi in termini di
auto-presentazione e auto-limitazione; costi finalizzati appunto ad una sempre
auspicata – ma non sempre raggiunta – conciliazione ed integrazione del singolo
con se stesso ma anche, al tempo stesso, con gli “altri da sé”.
Siamo qui condotti ad un punto cruciale
rispetto all’elaborazione del problema identitario. L’identità individuale
coincide con la comprensione di sé che il soggetto elabora nel contesto del
proprio agire. Si tratta di una comprensione che si struttura in forma
narrativa ed in termini eminentemente linguistici, intendendo per linguaggio
non solo il medium di interlocuzione ma, soprattutto, il mezzo di
trasmissione di contenuti valoriali tra diversi soggetti che agiscono in uno
stesso contesto. E’ un linguaggio innanzitutto interiore che, tuttavia, sorge e
si incrementa anche dalle e nelle concrete occasioni di dialogo tra parlanti.
Dialogare è centrale per comprendere la
realtà che ci circonda ma, innanzitutto, per comprendere noi stessi ed
elaborare quel “racconto di sé”, irriducibilmente individuale, che costituisce
la nostra identità. Peraltro, la dimensione del dialogo implica che i
dialoganti siano riconosciuti in quanto tali ovvero che siano
considerati, tutti, con identico rispetto. Emerge in questo contesto la
tematica del riconoscimento e la sua decisività rispetto alla dimensione etica
e politica del vivere associato. Devo poter essere riconosciuto e potermi
(continuare a) riconoscere in questo “dialogo aperto”: l’elemento di novità di
questo processo, che la modernità ha imposto e l’epoca contemporanea ha
radicalizzato, è che è possibile fallire nella propria lotta per il
riconoscimento. Il rifiuto di riconoscimento, ovvero il misconoscimento,
che si configura laddove «le persone o la società che circondano l’individuo
gli restituiscono, al pari di uno specchio, un’immagine di sé che lo limita o
sminuisce o umilia»[3],
resta un rischio patente a tutti i livelli. È questo, per chi lo subisce,
innanzitutto un danno morale e psicologico, ma anche, sul piano politico, una
forma di oppressione.
Se si torna al tema del prezzo
dell’identità, finalizzato, nelle intenzioni del singolo, ad una conciliazione
con se stesso e con gli altri, ovvero ad una integrazione del proprio racconto
identitario con quello altrui, ci si trova a questo punto proiettati entro una
duplice polarità: la totale integrazione da un lato e il totale misconoscimento
dall’altro, a partire dalla quale è forse possibile gettare una luce in parte
differente sulle forme di interazione sociale e politica che connotano il
nostro presente. Si tratta di un’alternativa tra due estremi, virtualmente
irraggiungibili, lungo i quali il nostro racconto identitario è chiamato a
prendere posizione, animato, da un lato, dal desiderio di una collocazione il
più possibile stabile, e consapevole, dall’altro, di essere consegnato ad un
compito costitutivamente inesauribile.
Rispetto a entrambe le polarità è
possibile ravvisare almeno tre livelli, ovvero tre contesti entro i quali si
misura sia l’integrazione sia il misconoscimento: quello familiare, quello che
si distende nella comunità d’origine o nel gruppo sociale di più immediato
riferimento e, infine, quello legato alla società di appartenenza, intesa in
senso complessivo[4].
Com’è ovvio, in ognuno di tali livelli ad una maggiore integrazione corrisponde
un minore misconoscimento e viceversa. Tendendo fermo il punto di vista
individuale, risulta però interessante notare l’evolversi della situazione al
variare della pregnanza con la quale la dimensione culturale e la tradizione
valoriale di provenienza entrano a far parte del racconto identitario
individuale. Più forti, importanti e chiari saranno i riferimenti e le
connotazioni culturali che l’individuo inserisce all’interno del proprio
racconto identitario, più intensa sarà l’integrazione al livello familiare e a
quello della comunità di riferimento e minore, a quegli stessi livelli, sarà il
misconoscimento. Il rapporto tuttavia muta significativamente se ci si
riferisce al contesto della società di appartenenza. Dove essa si riconosca,
per la stragrande maggioranza dei suoi membri, in quella medesima dimensione
culturale, andrà riproponendosi anche a questo livello il risultato appena
ravvisato. È peraltro possibile che la società non riconosca nella dimensione
culturale rivendicata dal singolo individuo il proprio orizzonte di
riferimento, ovvero quello più largamente e comunemente condiviso tra i suoi
membri. In questo caso, il rapporto tra integrazione e misconoscimento
risulterà semplicemente rovesciato, a svantaggio dell’integrazione. Siamo di
fronte a un caso, anzi a un fatto quotidianamente esperibile nelle società
occidentali contemporanee, che risultano sempre più caratterizzate dalla
presenza di individui (spesso organizzati in comunità più o meno coese) appartenenti
a culture diverse da quella autoctona. L’insistenza, da parte di tali
individui, sulle proprie radici culturali se, da un lato, consente loro di
sentirsi ed essere integrati all’interno delle proprie famiglie di origine e
dei gruppi sociali che si richiamano alle medesime radici, rischia, dall’altro,
di sortire una dinamica di misconoscimento o, quantomeno, di patente non
integrazione con la maggior parte degli insiemi di relazioni che costituiscono
la società in cui si trovano a vivere.
Tuttavia, rispetto alla risposta
individuale alla questione identitaria, la dimensione culturale non è un
riferimento qualsiasi, del quale possiamo sbarazzarci al pari di un abito che
non ci va più di indossare; essa costituisce una dimensione di riferimento
primo, un orizzonte di senso da cui risulta pressoché impossibile prendere
congedo in forma definitiva, ovvero relativizzare al punto da poter risultare
integrati con chi non si riconosce nella nostra cultura e, al tempo stesso,
continuare ad essere accettati da chi scorge in quei tentativi di
relativizzazione (più o meno impacciati) altrettante forme di tradimento delle
proprie origini.
Facile a questo punto immaginare le
conseguenze sul piano politico: mentre l’integrazione, intesa fondamentalmente
al livello della società nella quale siamo collocati, favorirà la crescita di
membri attivi della società, ovvero di individui efficacemente e dinamicamente
inseriti in ampie e coese reti di relazionalità, l’avvicinarsi, più o meno
indotto, del singolo alla polarità del misconoscimento comporterà
l’instaurazione di una serie di atteggiamenti di passività, di chiusura,
quand’anche non di contrasto nei confronti della società o, comunque, del
livello relazionale dal quale egli risulta o si sente misconosciuto.
Sviluppando le implicazioni connesse a
questa presentazione schematica, si rischia così di trovarsi di fronte ad
un’insieme di costi sul piano relazionale che risultano spesso troppo alti per
poter essere pagati dal singolo e che, peraltro, non possono in alcun modo essere
demandati alla società. Ci si trova, insomma, in mezzo ad un guado che appare
impossibile percorrere completamente in un senso o in un altro.
Esiste un’alternativa all’alternativa?
Si è in questo modo condotti ad
un’alternativa dalla quale non pare agevole districarsi, né sul piano teorico
né, tanto meno, su quello della concreta prassi politico-sociale. Quella appena
presentata costituisce insomma una delle molteplici figure nelle quali si
presenta, oggi, la sfida della condivisione di uno stesso spazio e di uno
stesso tempo da parte più individui dotati di particolarità culturali pressoché
irriducibili. Rispetto ad essa, è opportuno non tanto provare a trovare una via
d’uscita o una risposta che, più o meno forzatamente, si presumerebbe riproponibile
in ogni contesto, quanto, piuttosto, cercare di offrire la prospettazione di
una direzione che appaia, per lo meno, non da subito votata allo scacco. Si
tratta, in altri termini, di abbozzare un inizio di riflessione che consenta di
trasformare quel deciso aut aut in un almeno parziale et et.
Per avviarsi lungo questo cammino non
deve innanzitutto essere trascurato il contributo che può provenire dal singolo
individuo, in termini di recupero di una più chiara e profonda consapevolezza
di sé, volta a ricostruire e a comprendere le dinamiche di auto-presentazione
ed auto-limitazione di cui ognuno è stato testimone e, insieme, attore. Si
tratta, in altri termini, di incentivare l’impegno a ricostruire gli sviluppi
che presiedono all’articolazione della risposta alla domanda sull’identità
individuale. È questo un compito costitutivamente demandato al singolo e che,
peraltro, non è detto conduca a risultati analoghi a quelli che si è ora
cercato di proporre: non solo il contenuto della risposta, ma anche le modalità
di posizione della domanda sull’identità restano qualcosa di irriducibilmente
individuale.
In tale compito si racchiude l’occasione
di una rinnovata comprensione della propria particolarità, irriducibile a
quella altrui, ma, proprio per questo, anche della comprensione dell’esistenza
di tante particolarità quanti sono gli altri con i quali siamo in una qualche
forma di rapporto. La finalità complessiva di tale esercizio non è però
costituita dalla radicalizzazione del particolarismo o di un assoluto
relativismo identitario, bensì dal tentativo di innescare un lento ma costante
riposizionamento dell’individuo lungo la direzione che conduce ad una ipotetica
piena integrazione sociale.
Per fare ciò risulta forse non inutile
cercare di delineare una sorta di (apparentemente paradossale) dis-integrazione
dell’identità personale, provando a relativizzare l’importanza della porzione
di risposta riconducibile alla cultura di origine del singolo individuo, a
partire da una riconsiderazione dello stesso concetto di cultura. È infatti
necessario abituarsi a comprendere la cultura non alla stregua di un monolite,
un insieme statico di norme e modelli comportamentali che non possiamo
rifiutarci di introiettare. Appare invece più produttivo inquadrarla per quello
che, in realtà, è: un insieme decisamente mobile e costantemente rinnovantesi
di significati valoriali, «un processo dialogico di costruzione di senso con
gli altri e attraverso gli altri»[5],
ovvero un qualcosa che viene costantemente messo in gioco, infinitamente
smontato e rimontato dai molteplici attori sociali (individuali e collettivi)
che ad essa, più o meno consapevolmente, si riferiscono.
Sotto questo profilo, diviene allora
necessario tornare a riflettere sulla dialogicità della costruzione identitaria
e sul circuito di reciproco riconoscimento tra interlocutori che la sottende,
al fine di innescare una rinnovata posizione del problema. Quest’ultima si
sviluppa intorno all’impegno di articolare una fenomenologia della
condivisione, volta a comprendere come condividere ma, al tempo
stesso, cosa condividere tra ciò che ci viene proposto/imposto dalla
società o dalle persone che ci circondano. Sarà questa una fenomenologia in
grado di rilevare cosa possiamo o dobbiamo e cosa non possiamo e non dobbiamo
accettare ai fini dell’integrazione, ovvero quali prezzi possono/debbono
essere pagati e quali no. Come ormai possiamo attenderci, tenendo fermo il
rispetto che ognuno deve innanzitutto a se stesso, anche in questo caso le
risposte in termini contenutistici saranno demandate al singolo e dipendenti
dal contesto in cui egli si trova ad agire[6].
È questo un processo che delinea
un’apertura, la quale, in forma quasi paradossale, si distende in due
direzioni: verso noi stessi – ovvero verso ciò che siamo e siamo diventati – e
verso tutto ciò che intuitivamente rubrichiamo come “altro da noi”, in termini
morali, sociali, culturali, ecc. Tale duplice apertura si trova così a
descrivere un circolo ermeneutico, una dinamica virtuosa che non dimentica la
precedente proporzionalità tra costi e benefici sul piano dell’integrazione, ma
la indirizza nella direzione di un superamento o, quantomeno, di una riduzione
tendenziale delle sue imbarazzanti alternative e dei suoi esiti socialmente
distorti e politicamente nefasti. Se si avrà il coraggio di percorrerla sino in
fondo, è forse questa una direzione nella quale, ad un più profondo ascolto e
rispetto che ognuno rivolge a se stesso, potrà corrispondere un più profondo
ascolto e rispetto dell’altro.
pirni@nous.unige.it
[1] Sul tema rimando a B. HENRY – A. PIRNI, La via identitaria al
multiculturalismo. Charles Taylor e oltre, Rubbettino, Soveria Mannelli
2006.
[2] I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di F. Gonnelli, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 103.
[3] C. TAYLOR, La politica del riconoscimento, in J. HABERMAS – C. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 20056, p. 9.
[4] Si fa qui riferimento ad un modello necessariamente idealtipico e volutamente semplificato, che parte da un’idea di società intesa come un insieme di sistemi di relazioni temporalmente stabili e spazialmente riconducibili alla dimensione statuale, senza analizzare le trasformazioni subite da ognuno dei tre luoghi individuati come ospitanti altrettanti livelli di integrazione e misconoscimento. Il focus problematico ricade infatti sulla differenza di contesti entro i quali si struttura la risposta alla domanda sull’identità e non tanto sull’articolazione specifica di essi.
[5] G. BAUMANN, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, il Mulino, Bologna 2003, p. 123.
[6] Ho provato ad articolare l’abbozzo di tale fenomenologia nel paper «Dire comunità, oggi?» (Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme, 12-14 ottobre 2005, di prossima pubblicazione).