Il mensile «Il Ponte» iniziò le pubblicazioni nell’aprile del 1945 con l’intento di raccogliere idee e suscitare energie per la ricostruzione morale e politica di un paese sfigurato da vent’anni di dittatura fascista. Alla fine di quell’anno Salvemini inviò dagli Stati Uniti a Piero Calamandrei, fondatore e direttore della rivista, un articolo dal titolo programmatico Il concetto di democrazia. Le argomentazioni ivi svolte riassumono le analisi su cui Salvemini si era soffermato in un organico corpus di scritti, frutto di interventi tenuti presso le più prestigiose istituzioni accademiche e culturali statunitensi negli anni tra il 1934 e il 1940, quando il dilagare delle ideologie totalitarie partorite dal Novecento poneva agli intellettuali più consapevoli il compito di riaffermare i concetti fondativi della civiltà politica del mondo occidentale. Riproporre in serrata sintesi quelle riflessioni nell’Italia che si apprestava al difficile compito di porre le basi su cui ricostruire le istituzioni democratiche assumeva il significato inequivocabile di offrire un contributo di chiarezza su punti irrinunciabili del dibattito allora in corso.
Al centro dell’articolo è il rapporto tra liberalismo e democrazia, tra democrazia e libertà. In ossequio allo stile intellettuale che sempre contraddistinse l’argomentare di Salvemini, attento in primo luogo alla precisione nelle definizioni e alle questioni di parole, il primo passo nell’affrontare un tema come quello proposto nell’articolo consisteva nello sgomberare il campo da tutte le ambiguità che il termine “democrazia” reca con sé. Ambiguità accresciute dal fatto che, come tutte le parole collettive astratte anche la democrazia andava soggetta a quella forma di «sublimazione poetica» che ne fa una persona in carne e ossa, la quale si comporta non diversamente da come ci comportiamo noi «umili mortali»: la democrazia fa o non fa determinate cose; la democrazia agita le masse, nasce, cresce, si ammala, corre il rischio di morire, e a volte muore anche. «Molte controversie sulla democrazia non sono che discussioni senza senso su di un essere mitologico e inesistente» (Salvemini 2012a, p. 66). Non diversamente dalla parola democrazia, la parola libertà soffre della stessa «malattia dei troppi significati» (ivi, p.67): «I filosofi hanno intessuto intorno ad essa una terribile rete di confusione». Nel suo articolo, avvertiva Salvemini, «il lettore non troverà mai le parole “democrazia” e “libertà” trasformate o adulterate. Si eviterà qualsiasi confusione fra i vari concetti evocati da queste parole» (ivi, p.68).
Sui rapporti tra liberalismo e democrazia Salvemini aveva preso a interrogarsi nelle pagine di un diario segreto, cui volle dare il titolo di Memorie e soliloqui, significativamente inaugurato all’indomani della marcia su Roma; alcune pagine di quel diario sono dedicate a una riflessione di carattere generale sui diversi “fatti” che rientrano nel termine onnicomprensivo di democrazia: le “istituzioni democratiche”, gli “ideali democratici” e i “partiti democratici”. I tre “fatti” si tengono insieme e funzionano correttamente quando le istituzioni democratiche sono gli strumenti di cui si servono i partiti democratici per realizzare gli ideali democratici. Già in quella sede l’analisi partiva dalla presa d’atto di confusioni concettuali e terminologiche, in special modo proprio nel definire i confini tra liberalismo e democrazia. «Spesso si confondono, spesso si oppongono liberalismo e democrazia. Se per liberalismo s’intende “l’ideale liberale” e se per democrazia s’intende “l’ideale democratico”, mi sembra si possa dire che la democrazia è l’ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali» (Salvemini 2001, pp. 198-99). Ma dal punto di vista storico non sempre era stato così. Le istituzioni liberali furono conquistate in Italia da «nuclei piuttosto esigui di borghesia contro i privilegi feudali e contro i regimi dispotici o antinazionali». Questi ristretti gruppi di proprietari fondiari, di industriali, di commercianti, di banchieri, di intellettuali, una volta conquistata la prevalenza politica, utilizzarono a proprio vantaggio le istituzioni liberali che avevano contribuito a organizzare, impedendo che quelle stesse istituzioni fossero «allargate» agli strati sociali più numerosi. L’estensione progressiva delle istituzioni liberali a quanti ne erano stati fino ad allora tenuti fuori fu il compito che si assunsero i partiti democratici in competizione con i partiti liberali, facendosi carico in primo luogo della campagna per l’allargamento del diritto di voto. Ciò non toglie tuttavia che in origine erano stati i partiti liberali a svolgere un’opera “democratica” nei confronti dei regimi dispotici e dei privilegi feudali. Considerazioni di natura storica indicavano l’unica strada praticabile per affrontare e risolvere le confusioni concettuali e le dispute terminologiche di cui si diceva. «Liberalismo e democrazia non sono la stessa cosa, né due cose opposte: ma la democrazia è una estensione del liberalismo» (ivi, p. 199).
Nella definizione della democrazia come «estensione del liberalismo» Norberto Bobbio colse uno dei caratteri distintivi del concetto salveminiano di democrazia (Bobbio 1984, p. 54). Il saggio del 1946 da cui abbiamo preso le mosse ne è una conferma. Un regime è libero quando è dotato di una costituzione che protegge i diritti personali e i diritti politici del cittadino e riconosce un regime parlamentare avente il diritto di autogoverno. Un regime libero, tuttavia, può non essere un regime democratico. Ma - aggiunge Salvemini come discriminante - mentre un regime libero può non essere un regime democratico, un regime democratico «deve» essere un regime libero: «Una costituzione democratica deve includere un parlamento che ha diritto di autogoverno e in più “tutti” i diritti personali e “tutti” i diritti politici, più l’uguaglianza di diritti fra “tutti” i cittadini, senza discriminazione di classe sociale, fede religiosa, affiliazione politica o sesso» (Salvemini 2012a, p. 69). In quel “tutti” così perentoriamente scandito e ripetuto stava il senso della definizione salveminiana del concetto di democrazia. Le esperienze dei totalitarismi del Novecento stavano ad ammonire che senza libertà non si dà neppure democrazia. La libertà politica è «il diritto di non essere d’accordo con gli uomini che controllano il governo»: da questo diritto nascono «in un regime libero» tutti i diritti politici del cittadino. «Le libertà non servono tanto a stabilire il potere della maggioranza, quanto a proteggere le minoranze nel loro diritto di opposizione. La prova migliore del valore di una libera costituzione è la misura in cui provvede alla protezione delle minoranze» (ivi, p. 68).
Un’ulteriore precisazione. Parlare genericamente di maggioranze e minoranze è un uso inadeguato del linguaggio politico, così come è impropria la definizione della democrazia come governo della maggioranza. Da tempo Salvemini aveva adottato nell’analisi dei regimi politici la teoria di Gaetano Mosca della “classe politica”, termine con cui il politologo siciliano indicava una formazione che non ha nulla a che fare con la classe sociale della tradizione marxista e che costituisce piuttosto la “minoranza organizzata” che in ogni società controlla il governo in un determinato momento.
In tutte le società - riassume Salvemini il ragionamento di Mosca - la direzione amministrativa, militare, legislativa, economica, religiosa, morale e intellettuale si trova nelle mani di una “minoranza organizzata”, mentre la maggioranza disorganizzata si adegua con minore o maggiore buona volontà agli ordini della minoranza (ivi, p. 70).
Durante gli anni dell’esilio la lezione di Mosca venne a saldarsi in Salvemini all’esperienza maturata a contatto con la prassi politica anglosassone, con risultati di grande rilievo sul piano della messa a punto dei meccanismi che regolano i processi democratici. Quando all’interno della classe politica di un determinato paese si creano formazioni concorrenti che mirano a esercitare il potere e ognuna delle quali si caratterizza per un proprio programma, nascono “i partiti”. «Tutti i partiti sono minoranze organizzate che cercano di ottenere l’appoggio della maggioranza del corpo elettorale. Anche nel regime democratico più perfetto il governo è diretto da quel partito che per il momento è sostenuto dai voti della maggioranza». Di più: «Questa maggioranza non è quella dei cittadini, ma di quella parte di cittadini che si interessa abbastanza di politica per andare alle urne il giorno delle elezioni» (ivi, p. 70).
L’esistenza di partiti in concorrenza tra di loro è l’elemento fondamentale che garantisce il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. Ed è anche ciò che distingue un regime democratico sia da un regime dittatoriale sia da un regime oligarchico, nonostante sia anch’esso, come gli altri due, un governo di minoranze. Mentre le minoranze che governano nelle dittature e nelle oligarchie possiedono «il monopolio del potere per diritto proprio e non hanno alcuna responsabilità verso il popolo»,
un regime democratico è un campo aperto alla libera concorrenza fra tutte le minoranze organizzate, o “partiti”, che aspirano ad andare al governo. Per ottenere il potere o rimanere al potere, ogni minoranza cerca l’appoggio del maggior numero possibile di cittadini (ivi, p. 71).
Per garantire la libera concorrenza tra i partiti e renderla pienamente efficace occorre per giunta che esista nei partiti
una qualche coscienza di appartenere a una comunità nella quale i contrastanti interessi potranno sempre alla meglio conciliarsi attraverso la libera discussione [...]. Insomma, un regime democratico non può esistere se non esiste un minimo di cooperazione anche fra i partiti che sembrano più inconciliabili (ivi, p. 72).
L’articolo del «Ponte» uscì nel gennaio del 1946; il 2 giugno si tennero in Italia le elezioni per l’Assemblea Costituente. Non credo sia del tutto da escludere che il tono “didascalico” di quelle pagine risentisse della temperie in cui sarebbero venute a cadere. «Nel titolo del presente articolo – aveva esordito Salvemini – “democrazia” significa “dottrina democratica”». Ancor più in senso programmatico, e inquadrata in una visione prospettica, si può leggere la lapidaria definizione citata all’inizio: «Una costituzione democratica deve includere un parlamento che ha diritto di autogoverno e in più “tutti” i diritti personali e “tutti” i diritti politici». E niente altro. Nell’imminenza dei lavori della Costituente che si sarebbero inaugurati il 25 giugno 1946, Salvemini si rivolse a Leo Valiani, appena eletto in quel consesso tra i rappresentanti del Partito d’Azione, per fare il punto su alcune questioni:
un’altra idea, sulla quale vorrei richiamare la tua attenzione, la comunicai a Calamandrei. Io sono pienamente convinto che una costituzione lunga a non finire [...] è una costituzione nata morta. Le costituzioni serie debbono essere brevissime e contenere solamente l’elenco dei diritti personali e politici garantiti ai cittadini e la organizzazione dei poteri pubblici nelle sue linee essenziali. I così detti diritti sociali, ne sono perfettamente convinto, non dovrebbero aver posto in una costituzione politica. La costituzione dovrebbe essere un semplice documento di procedura e non un programma di azione sociale. I diritti così detti sociali, il popolo se li deve conquistare giorno per giorno attraverso la procedura stabilita nella costituzione (Salvemini 1967, p. 304).
In maniera ancora più esplicita, a distanza di un paio di mesi tornò a battere sullo stesso tasto con Calamandrei, in polemica con le posizioni di quanti, comunisti e socialisti su tutti, confondevano una costituzione politica con un «programma elettorale di riforme sociali». Ribadì l’idea che le costituzioni destinate a durare debbano essere essenziali: «una costituzione deve essere un documento brevissimo, il quale deve regolare due soli argomenti: a) i diritti personali dei cittadini; b) la organizzazione dei poteri pubblici» (ivi, p. 367).
I fatti dimostrarono che si sbagliava sulla durata di una costituzione “lunga a non finire”, ma quel modo di distinguere tra istituzioni democratiche e conquiste sociali rientrava a tutti gli effetti nella sua filosofia. E vi rientrava soprattutto l’idea che le riforme sociali non hanno possibilità di vera attuazione al di fuori delle istituzioni democratiche. Se torniamo alle pagine di Memorie e soliloqui, in cui prese ad analizzare i significati della parola democrazia nel momento in cui le istituzioni democratiche stavano per essere travolte dall’ondata fascista, troviamo al centro dell’attenzione proprio il rapporto che corre tra “le istituzioni” e “gli ideali” della democrazia. Stigmatizzò in quella sede, definendolo segno di «incoltura politica» e di «incapacità ad analizzare le proprie idee», il fatto che a non avvertire la centralità di quel nesso fossero anche militanti di «partiti non oligarchici, non plutocratici, non autoritari», i quali pretendevano anzi di «combattere le plutocrazie, le oligarchie rigide ed ereditarie»: «I socialisti se ne avvedono ora, col trionfo del fascismo, in Italia, della necessità delle “istituzioni democratiche”: libertà di stampa, immunità parlamentare, suffragio universale libero, ecc. Cominciano a capire che le “istituzioni democratiche” sono la loro aria, la loro luce» (Salvemini 2001, p. 196).
Se gli ideali democratici si definiscono in contrapposizione a quelli oligarchici, le istituzioni democratiche, pur distinguendosi sul piano analitico dagli ideali democratici, ne sono parte integrante in quanto costituiscono il mezzo necessario a raggiungere il fine che si propongono coloro che a quegli ideali si ispirano. «Da sé sole» non esauriscono l’ideale democratico; ma vale anche il reciproco: «all’infuori di esse e senza di esse, non è possibile nessuna realizzazione». L’ideale democratico, prosegue Salvemini nella sua analisi, è il fine cui devono tendere i democratici nella loro azione politica: «abilitare il maggior numero possibile di uomini, a conquistarsi, con lo sforzo consapevole e libero della propria volontà, la giustizia, il diritto, cioè il frutto intero del proprio lavoro, contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione» (ivi, p. 196). L’esatto opposto degli ideali oligarchici, autoritari, plutocratici. In questo modo Salvemini concepiva il “suo” socialismo: un socialismo inconcepibile, e irrealizzabile, al di fuori delle istituzioni democratiche.
Salvemini si allontanò dal partito socialista quando si convinse che quel partito non aveva più come punto di riferimento gli ideali democratici, ma si limitava ad amministrare l’esistente, in rappresentanza non di bisogni da interpretare ma di interessi costituiti da proteggere, invece di continuare a suscitare nel paese sempre più ampie domande di giustizia, di libertà, di equità, come aveva saputo fare in passato al tempo delle lotte per la conquista della libertà politica e di associazione. Si allontanò dal partito socialista, ma non dal socialismo. Aprendo la stagione de «L’Unità», dichiarò che l’obbiettivo restava quello di sempre: «il continuo elevamento economico morale e politico della classe lavoratrice a beneficio di tutto il paese», attraverso un’azione volta a «suscitare nella classe lavoratrice medesima la coscienza e la organizzazione che le consentano di essere essa stessa artefice prima delle proprie conquiste» (Salvemini 1978, pp. 385-86). Fu ancora più esplicito rispondendo a un collaboratore della rivista che riteneva «L’Unità» troppo sbilanciata verso il socialismo:
continuo a dichiararmi socialista perché continuo a credere che “chi lavora ha diritto a godere intero il frutto del suo lavoro, e non può ottenere questo fine che con la organizzazione e con la lotta economica e politica di classe”. Questo è il socialismo per me. Tutto il resto è appiccicature transitorie: è mito destinato a fallire. Il solo mito che non fallisce mai è il privilegio: e contro di esso bisognerà sempre lottare (Salvemini 1984, pp. 357-358).
Col diffondersi dell’ideologia comunista, tenere saldo il nesso tra socialismo e istituzioni democratiche si pose con ancora maggior forza come il compito cui non era lecito sottrarsi a chi guardava alla politica nell’ottica dell’ideale dei democratici. La distinzione che ora si imponeva era quella tra socialismo e comunismo. Salvemini lo fece in occasione della polemica che ebbe con George Bernard Shaw sul finire del 1927 sulle pagine del «Manchester Guardian», e lo fece con la chiarezza di sempre. «Per evitare confusione e malintesi definirò che cosa intendo per democrazia e per socialismo»:
Democrazia [...] è quella dottrina la quale afferma che tutti i cittadini hanno diritto alle stesse libertà: libertà di parola, libertà di stampa, di associazione, di riunione, di religione; libertà di lavorare, di scioperare, di viaggiare, habeas corpus, diritto di controllare le pubbliche amministrazioni attraverso rappresentanti eletti a questo scopo.
Socialismo è la dottrina che rivendica per tutti gli uomini eguaglianza nel trattamento economico. Di fronte alle istituzioni democratiche i socialisti si sono divisi in due scuole. I socialdemocratici [...] accettano le istituzioni democratiche e si avvalgono di esse come di un notevole, anzi essenziale, punto di partenza per la conquista dell’eguaglianza economica [...]. I comunisti disprezzano le istituzioni democratiche e vogliono ottenere l’eguaglianza di trattamento economico per mezzo di una dittatura del proletariato (Salvemini 1966, p. 343).
Il problema dell’eguaglianza economica si ripresentò all’esule nell’America del New Deal e della politica sociale di Roosevelt. Un contesto che coinvolgeva una riflessione generale sull’intervento del governo nell’economia. La domanda era dove porre il limite di quell’intervento: «se esso debba spingersi fino ad abolire del tutto o quasi l’impresa privata», come nei programmi dei comunisti, e se il raggiungimento dell’eguaglianza economica dovesse portare con sé necessariamente l’abolizione delle istituzioni della democrazia politica. Alla base del teorema comunista operava una sorta di verità assiomatica, secondo la quale la «brama di profitto è allo stesso tempo il frutto della proprietà privata e la radice di tutti i mali sociali»; ne conseguiva che una volta abolita la proprietà privata e il capitalismo, la politica sarebbe diventata «pulita ed efficiente» e «non ci sarebbe stato più bisogno di controllare i governanti da parte dei rappresentanti dei cittadini». All’astratto sillogismo dei comunisti Salvemini oppose il dettato dell’esperienza: «potete sopprimere la brama di profitto sopprimendo la proprietà privata, ma non potrete mai sopprimere i casi dubbi, le opinioni in conflitto o la follia umana». E proprio l’esperienza smentiva la pretesa del comunismo di non doversi sottoporre ai procedimenti per prova ed errore che valgono per ogni altra dottrina politica e sociale: anche il comunismo è «un’ipotesi da verificare, non un dogma da imporre con il ferro e con il fuoco a credenti e non credenti». «I nostri occhi e le nostre bocche devono restare aperti. E se i nostri occhi si accorgono che l’esperimento non è riuscito, le nostre bocche devono avere il diritto di dirlo apertamente». A questo servivano le istituzioni democratiche, per nulla incompatibili con la democrazia economica, vale a dire con l’aspirazione all’uguaglianza sul piano economico oltre che su quello politico.
Si può restare fedeli alla filosofia della democrazia politica e credere nello stesso tempo che un minimo di sicurezza dovrebbe essere garantito a tutti gli esseri umani. Si può anche non provare avversione per l’ideale di uguaglianza economica predicato dai comunisti a condizione che siano mantenute in vita le istituzioni della democrazia politica (Salvemini 2007, p. 90).
Al di là della polemica con la dottrina e la prassi comuniste, ritornare sulla centralità delle istituzioni democratiche significava interrogarsi più a fondo sulla natura dei rapporti tra politica ed economia in una moderna società industriale:
Quanto più massiccio diventa l’intervento del governo, tanto più c’è bisogno di mantenere vive e vitali le istituzioni politiche della democrazia, vale a dire i diritti individuali, le libertà politiche e il diritto di rappresentanza. Più si moltiplicano le attività del governo, più diventa necessaria la libera discussione sugli obiettivi, i metodi e i risultati di quelle attività. Il governo si trasformerebbe in una terribile tirannia se controllasse la vita economica dei cittadini e allo stesso tempo diventasse impossibile criticare il suo operato e licenziarlo con i normali sistemi disponibili in un regime democratico (ivi, p. 31).
Le distinzioni elaborate da Salvemini sui rapporti tra proprietà privata e libertà, tra liberalismo e democrazia, sono solo apparentemente didascaliche; esse nascevano e traevano forza dal loro radicamento nel terreno della ricerca storica. La possibilità di tenere insieme democrazia politica e democrazia economica fu il risultato del lungo processo che segnò la storia del liberalismo a partire dal XVIII secolo, e che si caratterizzò per la progressiva messa in discussione del legame necessario, «logicamente» vincolante, tra libertà e proprietà privata, tra democrazia politica e laissez-faire. «La dottrina del laissez-faire era alle sue origini patrimonio dei liberali di destra, che erano soddisfatti di una forma oligarchica di governo [...]. Fu solo con l’affacciarsi alla ribalta delle dottrine delle democrazia politica che la dottrina del laissez-faire cominciò a essere messa in discussione». I concetti di libertà e proprietà, elaborati nel XVIII secolo «a uso di una società che si supponeva formata di uomini più o meno uguali nelle ricchezze» furono utilizzati per giustificare il sistema capitalistico e le disuguaglianze sociali. Ma, emergendo dal vasto fiume del liberalismo, i liberali di sinistra chiesero con sempre maggior determinazione che il diritto di proprietà venisse «espunto dalla lista dei diritti “naturali” inviolabili e inalienabili», per ricollocarli in quella dei diritti “civili” «che la società crea e che la società può regolare, limitare, sopprimere». Protagonista di questa trasformazione fu una figura ben nota a Salvemini, il filosofo ed economista John Stuart Mill, che nella sua revisione dell’economia politica classica pose al centro proprio il carattere storico, e non naturale, delle leggi della distribuzione della ricchezza, a cominciare dalla proprietà privata. «Mill, che era un liberale di sinistra, perorò la causa del voto alle donne e per lui laissez-faire e proprietà privata non erano più tabù» (ivi, p. 90).
Il confronto con la tradizione del liberalismo di sinistra è al centro di uno scritto in cui Salvemini sviluppò le riflessioni consegnate in quegli stessi mesi all’articolo del «Ponte» da cui abbiamo preso le mosse. È il saggio che Bobbio ebbe a definire «lo splendido saggio del 1946» (Bobbio 1984, p. 55). Si intitola Che cos’è un liberale italiano nel 1946, un titolo che evidenzia in maniera più esplicita dell’articolo del «Ponte» il nesso con la situazione politica italiana del momento. In esso Salvemini ricostruisce le varie metamorfosi del termine “liberale” nella storia d’Italia, attraverso le quali «nella tradizione postunitaria la parola “liberale” [diventò] sinonimo di “conservatore”» (Vivarelli 1974, p. XXIV).
Sorse così – scrive Salvemini – una strana contraddizione fra il “liberalismo” dei paesi che parlano inglese e il “liberalismo” dell’Italia, e, in generale, dell’Europa continentale. In Italia, in Francia, in Germania, il “liberalismo” era diventato francamente conservatore. In Inghilterra continuò a chiamarsi “liberale” solamente chi militava in quel partito che si opponeva al partito conservatore -, e anche negli Stati Uniti - è “liberale” chiunque non è conservatore (Salvemini 1974, pp. 356-57).
Rappresentante autorevole del liberalismo italiano in chiave conservatrice fu, per Salvemini, Benedetto Croce. Al di là delle posizioni politiche via via da lui assunte, è la filosofia di Croce a essere chiamata in causa. Nel saggio del «Ponte» la filosofia è all’origine della “terribile rete di confusione” che aleggiava intorno alla parola “libertà”; ora quella confusione assumeva connotati più precisi. Anziché chiarire quali contenuti debbano corrispondere al termine “libertà” perché un regime possa chiamarsi liberale, Croce elaborò un concetto astratto di libertà, la cosiddetta “religione della libertà”, che prescindendo da concreti programmi politici poteva conciliarsi sia con posizioni conservatrici che democratiche. «La sua libertà [...] non scende mai dalle nuvole sulla terra», ed è questa astrattezza a far sì che quella «liberà disossata» non faccia mai riferimento a scelte concrete» (ivi, p. 365). Quello di Croce è un concetto di libertà che
ha poco o niente da vedere con quelle libertà personali e politiche, alle quali noi poveri diavoli non viventi nella stratosfera filosofica pensiamo quando usiamo questa parola magica: libertà! Croce non definisce mai in termini concreti quali libertà debbono rampollare oggi, in quell’Italia in cui Croce vive, da quel bisogno di libertà spirituale che deve essere la religione degli uomini migliori e possibilmente di tutta l’umanità.
«Gli uomini hanno rivendicato sempre la libertà come garanzia delle loro libertà, economiche, religiose, intellettuali politiche e così via». La libertà e niente altro di Croce sta a simboleggiare l’esito conservatore della metamorfosi italiana del liberalismo: «libertà e niente altro significa libertà quale la concepiscono i liberali (cioè conservatori). Significa libertà e statu quo». Nulla meglio del richiamo agli ideali che avevano animato i combattenti della lotta di liberazione dal fascismo poteva esemplificare l’assunto di Salvemini.
Quei partigiani italiani che dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945 sfidarono la morte, non solo possedevano una sufficiente dose di libertà spirituale, ma anche volevano ricavare un certo numero di corollari immediati – politici ed economici – dalla propria libertà spirituale. A quegli italiani Croce non sa dire altro se non consigliarli a praticare la religione della libertà, rinviando a miglior tempo la discussione di qualunque altro problema (ivi, p. 368).
A fare la differenza tra un regime liberale e un regime democratico è “l’ideale democratico” che ispira i seguaci di un partito democratico, i quali si sforzano di realizzarlo nel pieno rispetto delle istituzioni democratiche. A chiarirlo Salvemini dedicò uno dei suoi scritti più significativi della sua ultima stagione: Fu l’Italia prefascista una democrazia?, uscito in tre numeri successivi del «Ponte» tra il gennaio e il marzo del 1952. Alla lista dei diritti che deve riconoscere «un regime politico» che voglia dirsi democratico, oltre ai diritti personali e ai diritti politici uguali per tutti (“le istituzioni democratiche”) figurano anche i “diritti sociali”, frutto dell’organizzazione e delle lotte dei lavoratori (“l’ideale democratico”). L’insieme di quei diritti – chiosò Salvemini - «continuerà ad allungarsi via via che evolverà la coscienza morale nei paesi civili» (Salvemini 2012b, p. 273). Nella realizzazione progressiva dell’“ideale democratico” trovava conferma la definizione della democrazia come “estensione” del liberalismo. Tornato in Italia dall’esilio americano, l’impegno di Salvemini si mosse, ancora una volta, nella prospettiva di un movimento socialista riformista che avesse per obiettivo la piena realizzazione dell’“ideale democratico” nel pieno rispetto delle “istituzioni democratiche”.
Bibliografia
Bobbio N. (1984), Salvemini e la democrazia, ora in Id., Maestri e compagni, Passigli Editore.
Salvemini G. (2012a), Il concetto di democrazia, ora in Il nostro Salvemini. Scritti di Gaetano Salvemini su «Il Ponte», a cura di Marcello Rossi, Il Ponte Editore, Firenze.
- (2012b), Fu l’Italia prefascista una democrazia?, ora in Il nostro Salvemini. Scritti di Gaetano Salvemini su «Il Ponte», cit.
- (2007), Sulla democrazia, a cura di Sergio Bucchi, Bollati Boringhieri, Torino.
- (2001), Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di Roberto Pertici, il Mulino, Bologna.
- (1984), Carteggio 1912-1914, a cura di Enzo Tagliacozzo, Laterza, Bari.
- (1978), Opere, vol. VIII, Scritti vari, a cura di Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone, Feltrinelli, Milano.
- (1974), Che cos’è un “liberale italiano” nel 1946, in Id., Opere VI, Scritti sul fascismo, vol. III, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano.
- (1967), Lettere dall’America 1944-1946, a cura di Alberto Merola, Laterza, Bari.
- (1966), G.B. Shaw e il fascismo, in Id., Opere VI, Scritti sul fascismo, vol. II, a cura di Nino Valeri e Alberto Merola, Feltrinelli, Milano.
Vivarelli R. (1974), Prefazione a G. Salvemini, Opere VI, Scritti sul fascismo, vol. III, Feltrinelli, Milano.