1. Il percorso dell’utopia
La lunga storia dell’utopia, se per alcuni inizia già con la kallipolis platonica o, in generale, nella cultura della Grecia classica (Vegetti 2000, Quarta 1985, Bertelli 1982), in senso stretto e “tecnico” nasce con Thomas More, il quale ne inventò il nome e ne definì il paradigma. Dopo il 1516 utopia diventa “genere”, solo parzialmente narrativo, si sviluppa in una molteplicità di forme nei secoli successivi, raggiungendo la sua acme quantitativa nel XVIII secolo e iniziando un lento declino a partire da metà Ottocento, in concomitanza con il graduale affermarsi della distopia. Lo strutturarsi e il diffondersi del modello distopico non è però la causa della crisi di quello utopico: è semmai più corretto vedere in esso uno stimolo che ha spinto l’utopia a cercare nuove forme di espressione, nuovi terreni su cui misurarsi. Questo processo ha una prima e importante manifestazione a partire dai primi decenni del Novecento quando, con la drastica riduzione di testi volti a descrivere società utopiche, si è assistito al fiorire di studi, quali, ad esempio, quelli di Bloch, Mumford, Mannheim, Marcuse, dedicati a riflettere sulla natura e sul ruolo dell’utopia. Per altro verso, in questi ultimi anni, si è registrato un desiderio di utopia, legato all’ambizione di cambiare i modi di partecipazione alla vita politica. Sono infatti nati alcuni movimenti (gli Indignados, i gruppi dell’Occupy o quelli che teorizzano gli aspetti democratici della rete) che si pongono come alternativi alla politica “tradizionale” di cui affermano la “fine”, esprimendo un generico bisogno di rendere concreta l’utopia. Il limite di tali movimenti sta nel contrasto tra una concezione radicale di quest’ultima e l’esigenza di realizzarla, se è vero che – e forse il ’68 l’aveva già dimostrato – la realizzazione comporta l’accettazione del compromesso, teoreticamente incompatibile con l’utopia (Comparato 2005, pp.240-241).
Nelle pagine che seguono intendo sviluppare una linea di discorso d’altro genere, individuando due tematiche le quali – pur essendo tra loro metodologicamente e contenutisticamente molto diverse – pongono in luce come l’utopia, cambiando parzialmente di natura, di linguaggio, di status abbia oggi ancora delle interessanti prospettive da proporre al dibattito filosofico contemporaneo.
Anzitutto vorrei soffermarmi sul destino che nel Novecento ha avuto l’utopia quale modello di “società altra”, proponendo un’analisi incrociata tra alcune distopie che hanno un finale aperto e qualche utopia che presenta uno schema utopico perlomeno incerto. Il mio scopo è mostrare come non sia facile individuare con nettezza un’estraneità di linguaggio tra utopia e distopia, poiché, se nella molteplicità delle distopie ve ne sono alcune che tendono al superamento del negativo, subendo dunque un influsso dalle utopie, spesso queste ultime non riescono a evitare l’incertezza che emerge dalle prime. In secondo luogo, vorrei esaminare il modo in cui due importanti filosofi, quali John Rawls e Robert Nozick, utilizzano e modificano il concetto di utopia inserendolo, seppure in termini differenti, entro la prospettiva della filosofia politica normativa. In questo modo utopia cambia statuto e cessa di essere puntuale descrizione di una società immobile e perfetta, divenendo paradigma di possibile, anche se non di necessaria né immediata, realizzazione.
2. Distopie aperte e utopie problematiche
È un luogo comune sostenere che, dopo gli orrori della seconda guerra mondiale, non vi sia più spazio per l’utopia; eppure è proprio il suo intrecciarsi con il modello distopico che probabilmente rende ancora possibile immaginarla e pensarla. Una traccia di questo intersecarsi dei due generi è rinvenibile in un recente film, Le meraviglie di Alice Rohrwacher (2014). A un Legislatore, più autoritario che autorevole, che ha creato un “altrove”, basato sia sul radicale rifiuto del banale, asfittico mondo “normale” sia su un’etica del lavoro fine a se stessa, e che si richiama a un tempo irrimediabilmente passato, si oppone una giovanissima antagonista, non eroica, ma determinata a varcare il muro di questa società altra, dove è nata e di cui sa cogliere lati positivi e limiti. Il progetto è destinato a fallire: nell’ultima scena del film l’“altrove” appare abbandonato e vuoto, logica conseguenza di una alterità costruita esasperando una diversità insostenibile le cui caratteristiche di fondo hanno aspetti apparentemente contrari, ma in realtà paralleli, a quelli della insulsa e vuota società cui vorrebbe opporsi.
Tuttavia è ancora possibile separare i generi e, nello stesso tempo, individuare, come si diceva, sia distopie che subiscono l’influenza dell’utopia, sia utopie “incerte” e problematiche. Il rovesciamento del clima cupo proprio delle distopie è già evidente in un classico quale Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (1953): la piccola comunità che conserva la memoria dei libri assiste da lontano alla fine della società distopica (Muzzioli 2007, p. 85), accendendo la speranza che la civiltà degli uomini, come la Fenice, possa rinascere ogni volta dalle proprie ceneri (Bradbury 1989, p.193; Fortunati,Trousson 2000, pp. 219-221).
Un finale più radicalmente “ribaltato” è frequente nelle distopie “sconfitte” di José Saramago, che si strutturano su un doppio binario. Saramago spezza l’oppressione distopica opponendo a una situazione vessatoria e opprimente la prospettiva di un futuro migliore. Si pensi, ad esempio, a La caverna (2000), il cui esergo non a caso è tratto dalle prime righe del VII libro de La repubblica di Platone (Platone 20032, 515a, p.451). Al destino di tutti coloro che un onnipotente e totalizzante sistema, sorta di enorme città-mercato, ha metaforicamente imprigionato e incatenato, si oppone un piccolo gruppo di persone, formato da due uomini, due donne e un cane (le donne e i cani spesso in Saramago innescano la soluzione positiva della situazione; Muzzioli 2007, pp.226 sgg) che riesce ad allontanarsi dal mondo distopico, intraprendendo un viaggio «di cui non si conosce la meta e che non si sa né come né dove si concluderà» (Saramago 2000, p. 333), ma che è certo premessa di un riscatto.
Una prospettiva d’altro genere apre Solaris (1961) di Stanislaw Lem, un “classico” della science fiction, dove l’alieno è solo il simbolo della diversità. L’alterità nasce dall’impossibilità per gli esseri umani di comprendere il pianeta Solaris dal punto di vista gnoseologico ed etico (Jameson 2007, pp.144 sgg.): l’“altro” esiste, ma è, appunto, incomprensibile più che minaccioso. Il pianeta e il suo misterioso oceano subiscono l’invadenza umana, sviluppando solo una blanda forma di curiosità “difensiva” (Lem 2009, p. 219); Solaris rimane tenacemente “altro”, ha una razionalità propria, inaccessibile all’uomo, che giudica le sue manifestazioni miracoli, sebbene “crudeli”, perché gli è impossibile stabilire col pianeta «rapporti di intesa» (ivi, p. 220; Muzzioli 2007, p. 127).
Per altro verso, le poche utopie contemporanee non sempre descrivono società perfette e compiute. Possono dimostrare questo assunto, pur in modi differenti, opere quali Walden Two (1948) di Burrhus Frederic Skinner; Island (1962) di Aldous Huxley; Ecotopia. The Notebooks and Reports of William Weston (1975) di Ernest Callenbach.
Walden Two, dove il richiamo a Thoreau è solo parziale, è caratterizzata da una convivenza pacifica, da una vita comunitaria egalitaria e collaborativa, dall’educazione comune dei bambini, dalla riduzione dell’orario di lavoro per una buona vita, senza lussi e senza privazioni, dal rispetto per la natura unito al suo uso per la sopravvivenza quotidiana. Nella Walden di Skinner non c’è un legislatore, ma un fondatore, Frazier, che non ricopre alcun ruolo di rilievo nella vita quotidiana e la politica è considerata, come voleva Platone, una tecnica che non tutti sono in grado di gestire; peraltro, non c’è una separazione con il mondo circostante nel quale anzi Walden rimane “ufficialmente” inserita. Il modello skinneriano di behavioural engineering è, però, un’utopia incompiuta o, se vogliamo, un’utopia costantemente in progress, che risponde ai criteri della sperimentazione scientifica e di conseguenza si discosta dalla tradizione utopica della società perfetta e per ciò stesso immobile (Fortunati,Trousson 2000, pp.686-687). Frazier (che, con il visitatore Burris, è l’alter ego di Skinner) è molto orgoglioso del suo “prodotto” («è il maggior successo nella storia dell’intelletto umano», Skinner 1975 p. 318), ma considera la sua opera solo un inizio; se poco contano i concetti di libertà e di democrazia cui Frazier non crede, è importante invece nutrire «quel bisogno imperioso» di andare avanti (ivi, p. 320), caratteristico della scienza, alla quale non sono certo propri la stasi e l’equilibrio.
Se Walden è un’utopia non conclusa, Island è un’utopia che viene distrutta. Questo testo fa parte di un trittico dedicato da Huxley all’universo dell’altrove, ma, diversamente dagli altri due scritti (New Brave World, 1932; Ape and Essence,1949), ha la forma, almeno esteriore, di un’utopia. Will Farnaby, giornalista cinico, dal passato doloroso, arriva in modo avventuroso a Pala, «l’isola proibita», mai visitata da alcun estraneo (Huxely 1997, p. 19), sebbene il mondo esterno sappia della sua esistenza. L’isola, protetta grazie ad alte scogliere da visite non gradite, è abitata da una popolazione, semplice e raffinata insieme, consapevole dell’esistenza di realtà diverse dalla sua, ma fedele alle proprie norme e ai propri costumi. Farnaby, sotto la guida di una sorta di saggio “legislatore”, impara gradualmente a conoscere e apprezzare il modo di vita di Pala, caratterizzato da rapporti liberi, naturali, disinibiti, dalla convivenza di elementi culturali eterogenei, da una struttura politica semianarchica, da un’economia semplice che rispetta la natura (Fortunati,Trousson 2000, pp.317-320). Ma Island ha una conclusione non utopica: la sfera degli interessi del mondo non-altro irrompe a Pala e sconfigge il sogno dell’utopia.
Se la figura del giornalista si collega alla necessità di documentare come è fatto il mondo altro, non a caso un giornalista è anche il protagonista di Ecotopia: questo è l’appellativo che si è dato un nuovo Stato, nato da una secessione operata da alcuni Stati della zona occidentale degli USA. La descrizione di questo mondo collocato geograficamente in posti reali avviene attraverso le note personali e gli articoli che il giornalista Will Weston scrive per sé o per il suo giornale newyorkese una ventina d’anni dopo la secessione. Nei reports, Will descrive in modo “oggettivo” tutto ciò che caratterizza il nuovo Stato: i principi ecologici e una sorta di religione laica della natura, le strade e i mezzi di trasporto, l’alimentazione e l’urbanistica, la cultura e il nuovo modo di concepire lo sport e l’educazione, la situazione sociale, il ruolo delle donne e la relazione tra bianchi e neri, la sanità, le istituzioni, l’economia. Dal diario traspare invece l’impatto soggettivo, le relazioni e le vicende personali che coinvolgono Will nel suo rapportarsi alla vita quotidiana in Ecotopia. Il tono è critico, anche se via via più benevolo, nel primo caso; soggettivamente sofferto, stupito e sempre più coinvolto nel secondo (Callebach 2012, pp. 186-188). Dall’insieme emerge l’immagine di un luogo che propone alcuni dei miti ecologici e hippy degli anni ’70: la natura che ritorna incontaminata, la libertà nei rapporti sessuali, la vita in famiglie allargate o in piccole comunità, le città rese vivibili dalle dimensioni e dalla sostituzione del trasporto pubblico a quello privato, un’economia sotto il segno di una sorta di “decrescita felice”. Le descrizioni di Will non mancano, tuttavia, di suscitare alcune perplessità: le donne hanno un compito politicamente dirigenziale, ma rimangono anche ancorate ai loro ruoli più tradizionali; l’integrazione tra bianchi e neri è rifiutata sulla base della salvaguardia della diversità delle culture; vi è un ritorno a ritualità “selvagge” come i “giochi di guerra”, che sembrano un modo per sublimare la naturale violenza degli esseri umani; il sistema pare reggersi con tecniche fortemente dirigenziali e con uno stretto controllo sulla vita privata di ogni cittadino e quindi anche con aspetti, velati, di censura. Alla fine Will percepisce una sorta di sicurezza che Ecotopia gli trasmette (ivi, p. 163) e decide di non tornare a New York, rinunciando alla sua vita precedente per rimanere in quella che – come Burris in Walden Two (Skinner 1975, p. 349) – ha scoperto essere “casa sua” (Callenbach 2012, p. 185).
Callenbach presenta il percorso di Will come quello che dovrebbe essere il migliore per tutti gli esseri umani e in questo egli si pone sulla linea degli autori classici di utopie; ma in fin dei conti di ciò non appare pienamente convinto. La sua descrizione di Ecotopia, infatti, non è priva di aspetti che possono provocare una sorta di inquietudine e per questo può dirsi che Ecotopia rimane un’utopia dell’ambiguità.
3. Un nuovo status per l’utopia?
Come ho già accennato, una prospettiva d’altro genere è rinvenibile nelle riflessioni di John Rawls e Robert Nozick. Sebbene con differenti modalità e finalità, i due filosofi elaborano una modificazione del concetto di utopia, collegandola con il carattere normativo della filosofia politica contemporanea. È mia intenzione tentare di porre in luce, seppure in breve, come l’approccio da loro prospettato, prescindendo dalla costruzione di un modello di società utopica, consente un uso di tale concetto più libero, più agile e teoreticamente teso a individuare la relazione con la normatività attraverso una trasformazione dell’utopia in una sorta di meta-utopia, che si traduce in Nozick nella tesi dell’inspiring framework for utopia e in Rawls, con accenti più marcatamente metodologici, in quella della realistic utopia quale strumento per ovviare alle ingiustizie presenti nelle società degli individui e dei popoli (Maffettone 2010, p. 240).
Nella terza parte di Anarchy, State and Utopia (1974) Nozick tende a dimostrare che lo Stato minimo – l’unico «moralmente legittimo [e] [...] giustificato» – «è anche quello che realizza al meglio le aspirazioni utopiche di innumerevoli sognatori e visionari» (Nozick 2008, p. 337); esso non disegna, come sostengono alcuni, un progetto asfittico, ma una visione attraente grazie alla costruzione di un framework for utopia (Mack 2014).
Il passaggio a una concezione meta-utopica è coerente con l’individualismo nozickiano che non può accettare l’utopia come insieme di condizioni simultanee desiderabili per una società umana, come il migliore dei mondi possibili valido per tutti; il filosofo, infatti, ritiene che ciascuno abbia il “diritto” di immaginare il “suo” mondo migliore e tutti gli altri, singolarmente presi, abbiano il parallelo diritto di volervi rimanere o di volerne uscire (ivi, pp.304-305). Si deve quindi proporre un modello che, ipotizzando mondi stabili e desiderabili per coloro che vi abitano (ivi, p. 307), permetta a ciascuno di scegliere liberamente la società o l’associazione in cui preferisca vivere; e tale scelta si compie quando coloro che la fanno non riescono a ipotizzare nulla di preferibile al mondo in cui vivono, anche se ciò implica che nel mondo reale a ogni modello corrisponda «un’ampia e variegata gamma di comunità» (ivi, p.312) tra loro differenti.
In tale prospettiva, se l’insieme delle condizioni previste da ciascun utopista è irrealizzabile nella sua totalità, è anche vero che le comunità del mondo reale, proprio perché plurime, consentono alle persone di tentare sperimentazioni utopiche, altrimenti del tutto impossibili; l’insieme dei mondi reali da Nozick è definito framework. «Utopia – spiega Nozick – è il punto focale di un così gran numero di differenti tendenze e aspirazioni che devono esserci parecchi sentieri teorici che conducono ad essa» (ivi, p.314), sentieri alternativi, che si sostengono mutualmente, tra loro dissimili quanto sono dissimili le persone. E poiché gli utopisti non hanno descritto un’unica utopia, la struttura per utopie «consisterà di utopie, di molte comunità differenti e divergenti in cui la gente conduce diversi generi di vita sotto diverse istituzioni». Dire che «utopia è una struttura per utopie» (ivi, pp.316-317), significa dunque individuare una meta-utopia, dove ciascuno deve essere libero di sperimentare ciò che preferisce. Il filosofo precisa che la struttura per utopia funziona come un processo-filtro con finalità migliorative: «lo scopo ultimo della costruzione utopica è di ottenere una comunità in cui le persone vogliono vivere e che sceglierebbero volontariamente per viverci» (ivi, p. 322), anche spostandosi da una società a un’altra considerata migliore. A suo parere, dunque, è importante non un’utopia, ma il framework, che è accettabile per ogni utopista, in quanto è compatibile con tutte le utopie particolari; infatti, poiché la struttura è «appropriata per una società di uomini buoni» (323), ogni utopista ha la convinzione che costoro, prima o poi, sceglieranno la sua proposta.
Nozick ribadisce la superiorità del concetto di struttura, in quanto coerente con la sua filosofia libertarian più di qualsiasi modello utopico che pretenda di imporsi come il migliore. Occuparsi della struttura anziché della singola utopia significa rifiutare una visione “imperialistica” di quest’ultima, cioè una visione che vuole imporre un solo modello di società utopica valido per tutti e per tutte le situazioni. Secondo Nozick, invece, la struttura è un parametro che consente di guardare «con favore alla sperimentazione utopica volontaria», cui fornisce la base a partire dalla quale può fiorire un’utopia. Questa struttura, che sostituisce il frantumarsi delle utopie, è lo stesso Stato minimo, che «realizza al meglio le aspirazioni utopiche di innumerevoli sognatori e visionari» ed è quindi un’ispiring vision (ivi, p.337), che ci permette di scegliere liberamente la nostra vita e di realizzarci in una prospettiva di cooperazione volontaria.
Alla concezione individualistica e libertaria di Nozick, John Rawls contrappone l’idea di una realistic utopia e, specialmente in The Law of People (1999), la utilizza per estendere le teorie elaborate negli scritti precedenti (contrattualismo, pluralismo, ragione pubblica) in vista di un più agevole sviluppo di una prospettiva pacifica del diritto internazionale.
L’utopia realistica può essere sottoposta a due critiche per certi versi opposte: secondo la prima, un’utopia di per sé non può essere realistica; per la seconda, non è chiaro quale differenza intercorra tra questo concetto e la filosofia politica normativa. Per cercare di chiarire questi due problemi, tra loro strettamente connessi, vorrei in primo luogo premettere che, se le molteplici definizioni di utopia non implicano la realizzazione (soprattutto a breve termine), la filosofia politica indica invece una prospettiva di realizzazione graduale di un progetto, con precise, seppure parziali, ricadute concrete. Tuttavia Rawls collega più strettamente la filosofia politica, normativa, e l’utopia, realistica, affermando che «la filosofia politica è realisticamente utopica quando estende quelli che di solito vengono considerati i limiti delle possibilità politiche praticabili e, così facendo, ci riconcilia con la nostra condizione politica e sociale» (Rawls 2001, p.15; cfr. anche p. 165; Rawls 2008, pp. 6-7; Ottonelli 2010, pp. 24-25). Considerare “realistica” l’utopia permette di accordare, come indicava Rousseau nel Contrat social, gli uomini come sono con le leggi come possono essere (Rawls 2001, p.8; Rousseau 2012, p.55): Rawls ritiene che tale operazione teorica possa essere applicata anche al diritto dei popoli. L’utopia realistica, dunque, si pone nella prospettiva di ovviare, attraverso politiche e istituzioni sociali giuste, all’ingiustizia politica che ha procurato i «grandi mali della storia umana» (guerre, oppressione, persecuzioni religiose, povertà, genocidi) (ivi, p.7).
La realistic utopia si riferisce a «società a democrazia costituzionale ragionevolmente giusta» (ivi, p.17) nelle quali, per un verso, il realismo, legato a una concezione liberal della giustizia, sia fondato su «una stabilità per le ragioni giuste» (ibidem) e risponda a principi applicabili agli ordinamenti politici correnti (ivi, p.18); per un altro, l’utopismo sia connesso all’uso di principi e concetti morali atti a «specificare una società ragionevole e giusta» (ibidem) e a soddisfare il criterio della reciprocità (cfr. anche Rawls 2009, pp. 13-14). Un’utopia realistica, che contenga gli elementi fondamentali «di una concezione politica della giustizia» (Rawls 2001, p.20) e di un pluralismo ragionevole, applicata al diritto dei popoli, assume maggior rilievo, in quanto è capace di fornire un nucleo di possibile espansione di un modello pacifista realistico. Così, parallelamente a quanto avviene tra gli individui, la società dei popoli sarà realistica e utopica quando terrà in considerazione i rapporti di cooperazione che intercorrono tra i popoli e quando farà uso «di ideali, principi e concetti politici (morali) per specificare gli assetti sociali e politici giusti e corretti per la società dei popoli» (ivi, p.23). A chi critica la possibilità stessa di pensare un’utopia realistica, soprattutto al livello del diritto dei popoli «in particolare dopo Auschwitz» (ivi, p.26), Rawls risponde che neppure l’Olocausto dovrebbe «incidere sulle nostre speranze così come si trovano espresse nell’idea di un’utopia realistica e nel foedus pacificum di Kant» (ivi, p.27). I mali della storia sono stati molti e distruttivi, ma non vi è motivo di abbandonare la speranza nel cambiamento; il diritto dei popoli come utopia realistica consente un accordo tra i popoli ben ordinati «sviluppando una concezione praticabile e ragionevole del giusto e della giustizia politica applicabile alle relazioni tra i popoli» (ivi, pp.57-58).
Il filosofo statunitense giudica l’idea di realistic utopia capace di riconciliarci «con il nostro mondo sociale mostrandoci come sia possibile l’esistenza di una democrazia costituzionale ragionevolmente giusta»; si tratta di un’idea per la quale un simile mondo può prima o poi esistere, ma non stabilisce che «la sua esistenza sia necessaria o lo sarà in futuro». Sarebbe certo importante essere sicuri della realizzabilità di tale utopia, ma poiché non lo si può essere, è di per sé molto rilevante concepirne la possibilità. Infatti Rawls precisa che «mostrando come il mondo sociale possa realizzare le caratteristiche di un’utopia realistica, la filosofia politica fornisce una meta di lungo periodo all’attività politica e [...] dà significato a quanto possiamo fare noi oggi». Si tratta dunque di una prospettiva, ma se non potessimo impegnarci per la possibilità della sua realizzazione «saremmo forse costretti a chiederci con Kant – conclude Rawls – che valore mai abbia per gli esseri umani vivere su questa terra» (ivi, pp. 170-171).
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