Era di maggio... l'immaginazione al potere
Un evento che per nominarsi usa, come se fosse un patronimico, la sigla del proprio anno, come i blasonati '89 e '48, o il nome del mese di maggio – la primavera e l'esplodere della fioritura, allorché la città di Parigi, la più legata all'immaginario della rivoluzione moderna, fu invasa da un'onda di giovani "contro" – deve avere dentro di sé qualcosa che lo rende memorabile. Non gli effetti, non i fatti, ma – mai come in questo caso – l'immaginario collettivo.
Una profonda rivoluzione dell'immaginario comune: è la sua specificità, la sua forza e il suo limite.
Cosa si intende qui per "immaginario"? L'immaginario è l'autorappresentazione più o meno idealizzata, che si costruisce rinviando ad una immagine speculare di sé. Non è la rappresentazione simbolica, gestita dal codice sociale, anche se è in relazione con essa: nel '68 in una relazione critica e contestativa. L'immagine che lo specchio rinviava a coloro che parteciparono al movimento, era in frizione radicale con l'identificazione simbolica e sociale, con la posizione che l'ordine assegnava a ciascuno: erede di famiglie borghesi, o figlio di piccolo-borghesi decisi a migliorare di status, studente di prestigiose università, operaio dell'aristocrazia operaia, intellettuale o cantante rock, creativo, donna... In quegli anni l'immaginario viene peraltro pensato – soprattutto con Castoriadis e Lefort – come una funzione creativa, ben al di là della funzione compensatoria e fantasmatica che gli attribuisce la scuola freudiana. Dimensione psicologica che è necessario richiamare qui, dal momento che le radici culturali e filosofiche del '68 rinviano all'anti-formalismo marxiano, alla teoria critica francofortese, ma anche ad una nuova attenzione alla dimensione psicoanalitica, rifiutata nella sua versione dogmatica e terapeutica, ma assunta come strumento capace di dare conto della complessità ontologica della realtà, di scoprirne i meccanismi inconsapevoli. Perciò, l'immaginario, ma un immaginario pensato come attività creativa, addirittura come leva della potenza istituente del politico, matrice di utopie e di immagini della società a venire. All'interno dunque di un dispositivo che radicalizzava semplificandolo lo scontro tra dominio e potenza creativa dell'immaginazione: "l'immaginazione al potere". Pur essendo un potente arricchimento dell'antropologia e della politica, questa messa in gioco della scena psicoanalitica (e dunque la centralità di un pensiero incarnato, fatto di emozioni, di immagini, di desideri e di legami libidici e, ovviamente, di immaginario) avviene sotto il segno di una semplificazione che mette di fronte, l'una contro l'altro, repressione e desiderio, dominio e liberazione, potere e potenza.
È opportuno assumere, invece, la complessità dell'immaginario stesso: la funzione strategica che ha, all'interno dell'ideologia, di oscurare un "reale" difficile da sostenere e da pensare, che è l'antagonismo dominio/liberazione interno agli stessi protagonisti. L'immaginario offrì allora una idea di comunità o di comunismo solidale e cooperativo nella quale i sessantottini si rispecchiavano, contrapponendolo consapevolmente all'ordine istituzionale gerarchico e alienante, ma lo fece disconoscendo la linea di frattura che più profondamente impediva negli stessi protagonisti solidarietà e comunità. Perciò, mentre possiamo interrogare l'immaginario di quell'evento per comprendere i desideri che lo sostenevano, non ci dirà il Reale segreto e antagonistico che nasconde, quei 'reali' punti morti e nodi irrisolti, che non sono la Realtà – il richiamo per esempio del "Corriere della sera" al realismo contro l'utopismo – e che solo qualche volta veniva a coincidere con l'immaginaria autorappresentazione di sé e qualche volta invece segretamente la tradiva. Molti fantasmi forclusi dall'immaginario erano destinati a ripresentarsi nel corso di quell'esperienza, determinando i suoi diversi esiti e il suo paradossale realizzarsi al rovescio. La battuta feroce del conservatore Lacan contestato dagli studenti: «volete un padrone e l'avrete!», si riferisce infatti a questa tensione fantasmatica che nessuna delle canzoni, degli slogan, delle utopie rivelava e che solo l'adempimento rovesciato del '68 nel capitalismo cognitivo e postfordista mostrerà.
Queste considerazioni sono necessarie per introdurci non in un racconto di fatti, di conquiste e di fallimenti (che non è il nostro compito), ma nella costellazione di immagini nella quale si riconobbero quanti vi parteciparono. Che furono molti, moltissimi sia pure in modi assai differenti, e travalicando i confini della cultura nazionale, allora ancora predominante, in una sintonia veramente globale.
Non rappresentare: manifestare. Non progettare il comunismo: essere in comune, qui e ora
Jean Luc Nancy ha scritto un vibrante libretto contro le accuse che la destra neoliberista ha rivolto al '68, responsabile di tutti i mali attuali: dal rilassamento dei costumi al relativismo morale, dalla mancanza di rispetto all'indifferenza verso le regole a danno della «virtù della buona politica e di un capitalismo che si presume dotato di scrupoli». In realtà, ci dice Nancy, l'accusa è particolarmente cinica perché l'obiettivo critico del '68 sono proprio la politica ridotta a democrazia gestionale e il capitalismo. «Il suo interrogativo era sulla verità della democrazia». Il '68 ha messo in dubbio «la certezza democratica che in quel momento sembrava confortata dai progressi della de-colonizzazione, dall'autorità crescente delle rappresentazioni dello "Stato di diritto" e dei "diritti umani" e, nello stesso tempo, dall'esigenza sempre più chiara di una giustizia sociale i cui modelli non fossero tributari dei presupposti che il termine "comunismo", così come avevamo finito per intenderlo, implicava»[1]. La verità della democrazia?
Un immaginario dominante si rivela deludente: non coinvolge, non soddisfa; lascia un senso di mancanza di qualcosa che era stato promesso, ma che pur trionfando formalmente, delude: la democrazia. Tanta retorica sulla democrazia nel dopoguerra e poi…: niente di più che un incremento del benessere, dei consumi, caste di politici intercambiabili tra destra e sinistra, mentre frana l'ideale comunista nella cupa realtà del socialismo "reale". Il punto di partenza è la sensazione della inadeguatezza della democrazia rappresentativa, formale, borghese, rispetto la sua idea vera. Ma questa sensazione ha un effetto di sfaldamento assai più radicale sulla forma stessa della rappresentazione.
Esporre, manifestare, agìre la democrazia, piuttosto che delegarla, rappresentarla: la immanenza della vita e delle pratiche agìte in spazi strappati al potere "okkupati" e aperti alla partecipazione, palcoscenici di democrazia in atto, contro il trascendimento, la selezione e il giudizio. Immaginare un modo nuovo di vivere la politica, e, della politica, privilegiare il significato originario: lo stare insieme, l'essere in comune, piuttosto che la gestione e il governo, fosse anche il buon governo. Levi Strauss, Foucault, Deleuze e Derrida lo sanno: è finita l'epoca della storia e delle rappresentazioni. Ma non è tanto il discorso degli intellettuali a contare; piuttosto il diffondersi di sentimenti immagini stili habitus nuovi, che forzano la diffidenza per una certa rappresentanza di partiti e di sindacati, di chiese e di accademie: «un pensiero vissuto, corpi di pensiero», dice Nancy. Non più il regime di pensiero rappresentazione/concezione «concezione del soggetto e soggetto della concezione, controllo dell'azione e azione di controllo, visione e pre-visione, proiezione e produzione degli uomini» ma «l'esporre gli obiettivi stessi (l'uomo o l'umanesimo, la comunità o il comunismo, il senso, la realizzazione) ad un superamento di principio»[2]. Noi siamo in comune, non progettiamo il comune.
Vorrei sottolineare questo corollario dell'istanza antirappresentativa: con il tramonto della immagine normativa tramonta la progettualità dell'homo faber moderno che, come sostiene Arendt, si trasferisce dalle manifatture ai programmi teorici che pretendono di forzare la vita e controllarla. Siamo in comune, significa che mettiamo in atto, subito, in noi stessi e per noi stessi la palingenesi culturale e ideale, emotiva e vitale che realizza la comunità: non la predispone, non la propone, ma la espone in se stessa.
Non che manchino i progetti, ma il nodo dell'immaginario sessantottino non è profetico né costruttivista, ma palingenetico: qui subito, senza percorsi di trasformazione. Al rifiuto della delega corrisponde (spinozianamente? deleuzianamente?) una fiducia nella auto-organizzazione politica orizzontale, nella autonormatività dei singoli e delle comuni, legata alla intuizione che la vita si autoregola spontaneamente trovando in se stessa la forma dell'espressività e della potenza. Il nuovo soggetto politico, il movimento, non ha nulla delle masse che fiancheggiavano i vecchi partiti: è moltitudine di singolarità viventi.
Senza pastore: il desiderio
Un pensiero antirappresentativo che si manifesta nella pratica politica diretta rovescia il principio di legittimazione tramite autorità. Al cuore del disconoscimento della rappresentanza sindacale e partitica, della gerarchia fondata sull'autorevolezza dell'età, dell'esperienza, della tecnica, al cuore del disconoscimento della religione come pastoralità a favore della coscienza di ciascuno e di tutti, della messa in questione della pedagogia disciplinare che trasmette saperi precostituiti, sta una fonte di legittimazione nuova: il desiderio. Immanenza significa la voce del desiderio, della potenza desiderante, intesa come pienezza. Non il desiderio hegeliano o sartriano che scava la mancanza e che lega all'altro nella forma della dipendenza e del riconoscimento; non il desiderio che attraverso la legge e l'interdetto diventa antropogeno. Qui il desiderio è il conatus spinoziano che dissolve le forme sociali, dalla famiglia alla scuola alla fabbrica: una macchina desiderante che getta tutti ugualmente sulla scena della politica, nello spazio comune. La legittimazione fondata sul desiderio non può che avanzare domande eccessive, "vogliamo tutto e subito", domande che si sottraggono all'incessante tentativo del sistema di riassorbirle, di renderle luhmannianamente governabili, di tradurne il disordine nel codice del potere. Non c'è che un modo per sfuggire al meccanismo omeostatico del governo: chiedere di più, chiedere altro, dislocare, spostare la domanda, sfuggire alla presa del codice. L'eccesso, lo sberleffo, la provocazione entrano nel rinnovamento del linguaggio di chi sa che l'antagonista è impossibile da battere in uno scontro frontale e diretto.
Desiderio significa corpo. Dal campus di Barkley, dai beat e dagli hippies, si rivaluta la sanità, la saggezza del corpo e dei suoi desideri, non intrappolati nel meccanismo borghese degli interdetti, lanciati all'inseguimento di una gioia spontanea e comunitaria, che non conosce il triste teatrino dell'Edipo... Inutile dire che ignorando o negando (come nell'anti-Edipo deleuziano) il legame di Legge e desiderio la strada sarebbe stata aperta, col venir meno della legge, ad un imperativo superegoico del godimento che oggi ossessiona i nostri consumi. Inutile dirlo, perché siamo sul piano dell'autorappresentazione idealizzata, sul piano di un potentissimo immaginario capace di mobilitare il vuoto, e colmarlo di speranze e sogni. L'utopia delle comuni, della vita insieme a contatto con la natura, senza competizioni, sopraffazioni e violenze… È forse una fiammata arcaica ed antimoderna il culto della comune naturalistica, egualitaria ad oltranza, che recupera e mescola l'utopia cristiana e comunista di una società di francescana semplicità? In parte sì: a riprova che l'immaginario non è "creativo" come vorrebbe Castoriadis, ma pesca nei frammenti di immagini del passato e trasfigurate. C'è però anche uno sforzo – più pratico che teorico, più vita che modello – di elaborare una modalità alternativa della modernità, presagendo che più che le forze politico-istituzionali sarebbe stato il mercato, il codice dell'equivalenza economica che avrebbe metabolizzato l'utopia. A questo proposito è evidente che l'anticapitalismo sessantottino ha per antagonista il modello disciplinare del fordismo. Si misura con quello, con le fabbriche che disciplinano i corpi e i tempi di vita: non sa della straordinaria capacità del capitalismo stesso di assorbire quell'immaginario libertario e creativo per tradurlo del codice del mercato, per farne la nuova forma di produzione e di consumo che sul desiderio fa perno.
Uno snodo fondamentale di questa centralità del corpo è la sessualità. Nell'immaginario del '68 questo tema è inquadrato attraverso l'ipotesi repressiva di Reich e di Marcuse, il cui perno teorico è la naturalità della libido e l'idea naif (analizzata criticamente da Foucault), che la rivolta contro la repressione sessuale avrebbe liberato l'eros e le energie per una resistenza, spontanea, "esterna" al biopotere che governa i corpi. In realtà la gestione delle vite non passa per la repressione, ma per la sollecitazione e la proliferazione dei discorsi. E se è vero che la semplificazione libertaria e antirepressiva, soprattutto nel discorso femminista che nel '68 ha le sue radici, cambia il senso comune e amplia la sfera dei diritti, è però uno dei punti ciechi dell'immaginario del '68, destinato ad essere manipolato nelle logiche bioeconomiche del capitalismo. Ma questo i sessantottini non vogliono sentirselo dire.
Il femminismo – la cui affermazione piena si colloca nel decennio successivo, quando già il '68 si è divaricato tra controcultura e iperpoliticizzazione – muovendo dal sessantottino corpo/pensiero "incarnato", sollecita la valorizzazione delle differenze che segnerà con decisione il postmoderno e sfonda il limite liberale tra pubblico e privato trascinando nel politico sentimenti, relazioni intime, passioni, diseguaglianze e violenze psicofisiche.
La risacca
Si potrebbe parlare della controcultura: contro i saperi nozionistici e accademici che riproducono le gerarchie sociali, una pedagogia antiautoritaria partecipativa e critica, attenta alla creatività e all'espressione. Oppure della ricerca di linguaggi nuovi, del recupero di frammenti di culture perdenti, di modi di comunicazione decostruttivi fatti di slittamenti e di un mix cui oggi nella pubblicità è del tutto abituale... Tra questi, soprattutto, prima di tutto, la musica: per i giovani "il linguaggio" coinvolgente, evocativo, prima lingua globale e planetaria, naturalmente sintonica con l'immaginario che rende possibile una immaginazione radicale, utopica che cessa nella musica di essere un sogno soggettivo e diventa passione accomunante di tanti. Con uno strano effetto di troppo facile: sottratta alle contraddizioni della realtà, la rivoluzione senza la violenza del potere, la terra promessa senza la fatica del cammino. Come di chi sta sulla soglia e può immaginare tutto, sognare l'impossibile, perché solo così le cose possibili avvengono. Oppure si potrebbe parlare della rivoluzione culturale – identificata nel nuovo corso del maoismo – che incessantemente metteva in discussione le forme di potere raggiunte: trasfigurazione mitica del momento della liberazione, della rottura, «ciò che non siamo ciò che non vogliamo» quando non è ancora sopraggiunto il compromesso, il potere costituito, la ossificazione del gruppo attivo nella struttura istituzionale, che tradisce l'afflato libertario: lotta continua, Revolution now. Nulla sul giorno dopo il grande evento, dice Zizek[3].
E il giorno dopo è la risacca. Sarebbe necessario contestualizzare: nelle diverse realtà, il tempo prolungato fa assumere a quell'immaginario, puntuale e "esposto", forme diverse. Le zone opache, i fantasmi dell'immaginario irrompono – dice Zizek, in lacanese – come un passage à l'acte, nelle forme della ricerca di godimento immediato (droghe autistiche), nel terrorismo politico e l'action directe, e infine nella fuga nel misticismo orientale.
Una cosa è certa: dopo appena un decennio, il nuovo spirito del capitalismo postfordista, con capitalisti vestiti casual come Bill Gates, recupera trionfalmente la retorica antigerarchica del '68, presentandosi come una rivolta libertaria contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo corporativo e del socialismo reale. Il lavoro di fabbrica esternalizzato in lavoro di gruppo creativo e interattivo; l'istruzione flessibile privatizzata, personalizzata invece di quella pubblica e universale; relazioni sessuali molteplici invece della famiglia tradizionale. I nuovi diritti (che avrebbero significato una reale ridistribuzione del potere) vengono garantiti solo nella forma di "permessi", che non diminuiscono il potere di chi li dà e non aumentano il potere di chi li riceve. Della liberazione sessuale degli anni '60 rimane un edonismo in perfetta sintonia con l'ideologia egemonica che impone di godere, di realizzarsi, di esprimersi. Il '68 perde nella sua vittoria: almeno per ora.
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