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Oriana

Riccardo Nencini

Ho conosciuto Oriana prima che il cancro ne divorasse gli occhi ed il carattere, all'alba del secolo e di un decennio infame, il peggiore se escludiamo i lustri punteggiati dalle guerre.

Una telefonata secca come una fucilata.

«È lei il Presidente Nencini? Sono Oriana Fallaci...»

«Già. Sono occupato. Mi richiami domani per favore».

«Nemmeno per idea. Figuriamoci se telefono una seconda volta».

Oriana Fallaci, e non l'avevo riconosciuta.

Da quel giorno le telefonate si sono fatte più frequenti. Giorno e notte. Soprattutto la notte, il tardo pomeriggio di New York. Con Oriana che usava rigorosamente il "Lei" e pretendeva a sua volta, senza eccezione alcuna, il "Lei". Rivoluzionaria, ma pure sempre una signora, sussurrava con civetteria.

Ho conosciuto due Oriana. Una colta e supponente, facile all'ira e allo scontro. L'altra generosa e amabile, con la dolcezza di donna nei gesti e una finezza spiccata. Una dolcezza essenziale, diretta, "maschile", nascosta da un velo di timidezza (timidezza?), sbrigativa – quasi temesse di entrare in confusione. Un connubio inscindibile. Due facce di un mondo.

Colleghi – suoi – mi hanno chiesto più volte se avevo già rotto quel sodalizio nato per caso. Alla risposta negativa si sorprendevano. «Non è possibile».

Ho un ricordo nitido dei nostri ultimi incontri. Il vestito lungo, di un verde tenue, pallido come il suo volto, i lacci che le cadono sulle spalle, ampio sul corpo esile. Una leggera ombra di trucco sulle guance e intorno agli occhi. Un bicchiere e un pacchetto di sigarette già iniziato accanto ad un altro pacchetto intonso, pronto all'uso. Virginia Circles, le sue. Capelli corti, bruciati dalla chemioterapia, il sorriso di sempre – malinconico e beffardo. Mani curate, unghie laccate. Dignitosa, elegante. Due paia di occhiali grandi, bordati di scuro, sul tavolo, sopra un mucchio di fogli sparsi, in apparente disordine.

Dalla notte al Consolato italiano di New York, dalla consegna della medaglia del Consiglio Regionale della Toscana, eravamo passati al "tu". Un privilegio, dopo averla a lungo chiamata "signora".

In quei suoi ultimi giorni tutto fu chiaro fin da subito. Nel silenzio improvviso e irto, mise le carte in tavola senza nascondere nulla. Nel suo stile. Il tema, la morte: e così sia. Renderla dignitosa, non affidarsi piagnucolosi ai ricordi, all'età dell'oro trascorsa – quando mai vi sia stata – prepararsi all'assalto finale del cancro senza arrendersi, senza tradire. In piedi.

«Sono alla fine, Riccardo, e voglio morire a Firenze. Te l'avevo detto a New York ed ora ci siamo. Ma morirò in piedi, come Emily Brontë. L'ho anche scritto da qualche parte».

Parlava, come sempre l'avevo sentita parlare, marcando l'accento fiorentino. Lo faceva naturalmente. Non vi ha mai rinunciato. La maniacale ricerca della perfezione stilistica nello scrivere corrispondeva ad una irrefrenabile libertà che si concedeva nel parlare. Nell'uso dei termini, nelle battute, nelle inflessioni che proteggeva e ricercava, quasi volesse riconciliarsi con la sua città. Diretta.

«Posso aiutarti?»

«Forse. Di te mi fido. Ed io sono sola».

«Allora dimmi. Ti ascolto».

«Voglio morire nella torre dei Mannelli, guardando l'Arno dal Ponte Vecchio. Lo sai perché? Era il quartier generale dei partigiani che comandava mio padre, il gruppo di Giustizia e Libertà. Azionisti, liberali, socialisti. Ci andavo da bambina, con il nome di battaglia di "Emilia". Portavo le bombe a mano ai grandi. Le nascondevo nei cesti di insalata. Toglievo il "cuore" e ce le infilavo. Sai cos'è il "cuore"?».

«Sono nato in campagna anch'io».

«Bene. Toglievo il cuore al cesto dell'insalata e al suo posto nascondevo una bomba, grande come un pugno. Gli alleati le paracadutavano in casse sul Monte Giovi, sopra Pontassieve, assieme ad armi, giornali, cioccolata, sigarette... ».

Mi accorgevo che, nel fluire del racconto, sovrapponeva storie ad altre storie – un fiume in piena – quasi volesse trasferire la sua memoria – la memoria non scritta – a qualcun altro, perché non andasse perduta.

«Entravo in città – ero una ragazzina con le trecce e mia mamma non sapeva nulla di quello che mio padre mi faceva fare. Dio, come si sarebbe arrabbiata! – con una bicicletta col portapacchi attaccato al manubrio carico di frutta, ortaggi e di quei cesti di insalata ed andavo alla Torre dei Mannelli. Ai posti di blocco i tedeschi non mi fermavano quasi mai. Cosa vuoi… una bambina!».

«E non hai mai conosciuto Nada Giorgi, la "Mara" di Cassola nella Ragazza di Bube... Ha due anni più di te. Anche lei faceva la spola tra Monte Giovi e le bande partigiane».

Riflette un attimo. «No. Non la ricordo. È ancora viva?».

«È una splendida signora ottantenne. Ci ho parlato qualche giorno fa. Vive a Pelago e pensa spesso al suo Bube».

Poi tornava al punto: «Voglio morire in quella torre. Mi hanno detto che si vedono ancora i beccatelli in pietra serena».

«Penso di conoscere il proprietario, Oriana».

«Pensi o lo conosci?».

«Lo conosco».

«Allora parlaci alla svelta. Non c'è più tempo. Tra pochi giorni devo andare a Roma. Da lì parto per l'America per sbrigare alcune faccende, poi torno qui. Chiedigli quanto vuole per affittarla un paio di mesi». Operativa. Coinvolta eppure distaccata. Sembra parli di un'altra persona.

«Lo cerco domani e ti faccio sapere».

«Ricordatelo!».

I Mannelli costruirono la torre in cima al Ponte Vecchio, oltre l'Arno, quando Firenze non conosceva ancora né il Collegio dei Priori né gli Ordinamenti di Giustizia imposti da Giano della Bella e dal popolo grasso ai grandi fiorentini. Prima che venissero abbattute o scapitozzate – poco dopo la metà del XIII secolo – di torri Firenze ne contava almeno due volte cento. Una città verticale, un esagono in terra costruito attorno al cardo e al decumano ma orientato, deciso verso il cielo. In un'età maligna, le consorterie prosperavano combattendo e necessitavano di case armate per vivere, per difendersi e per fare buoni affari. I vinti venivano banditi, spogliati di ogni bene, umiliati sulla piazza. Dante e Petraccolo di ser Parenzo, padre del Petrarca, tra questi. Nulla veniva lasciato al caso. Soprattutto dopo la Pasqua di Resurrezione che aveva sporcato di sangue l'Arno e le candide vesti di Buondelmonte.

La casata, ghibellina e imparentata con gli Uberti di Manente detto "Farinata", subì la sorte degli sconfitti di Parte dopo la battaglia di Benevento, fu esiliata, cambiò nome – i Mannelli divennero Pontigiani – e fede politica e, fattasi guelfa, rientrò in città. Il manufatto, unico superstite dei quattro "capi di ponte" alzati in quegli anni, avrebbe dovuto essere abbattuto per consentire la costruzione del Corridoio Vasariano, ma la famiglia si oppose e il Vasari su costretto a modificare il suo progetto facendo passare il "corridore" attorno alla torre.

Parlai con il proprietario. Fu gentilissimo. La torre, però, non era adibita ad abitazione, non c'erano camere, l'appartamento era difficilmente raggiungibile e soprattutto appariva inadeguato per una donna gravemente ammalata. Oriana vi si recò nei giorni successivi, gli occhiali scuri, due borse piene di oggetti e di documenti, una per mano o in spalla, pantaloni larghi: un inviato di guerra. Non vi era più tornata dal 1944. Emozionata, si affacciò alla lunga finestra che dà sul fiume e pianse. Ricordava tutto. Dove il padre l'aspettava, dove nascondeva le bombe a mano, i partigiani che si preparavano all'azione, la sua ingenuità. La lasciammo da sola. Intravedeva la cupola del Brunelleschi e la torre, alta sopra ogni altra, progettata da Arnolfo di Cambio sulla costruzione che era stata dei Foraboschi. Immagino la sfiorasse col pensiero. «I fiorentini non perdonano. Eressero la fabbrica del Palazzo dei Priori in uno slargo che non era una piazza pur di non occupare il terreno che era stato degli Uberti. Terra sconsacrata. Ne è venuta fuori una piazza a "L", diversa da tutte le altre. Con tanti saluti a Farinata che pure aveva salvato la città dopo Montaperti».

Oriana era ciò che scriveva. Nell'ultima parte della sua vita aveva iniziato a scrivere un romanzo sulla sua famiglia, i Fallaci. Un libro che poi sarebbe uscito postumo, con il titolo Un cappello pieno di ciliegie. «Ho scritto diverse pagine sulla storia dei Fallaci – mi disse. Nonni, bisnonni, avi, giù giù fino al Settecento. Ma non ho ancora finito. Manca poco, forse l'ultimo capitolo».

Mi ricordo quel fascio di carta, un blocco compatto di fogli dattiloscritti alto una venticinquina di centimetri. Risme che guardavo senza parlare. La fatica di un decennio interrotta dall'attentato alle Torri gemelle. Proteggeva quelle pagine come fossero state un neonato. Intravidi il titolo scritto a penna ma non riuscii a leggerlo, coperto com'era dalle dita spalancate che di tanto in tanto tamburellavano sul primo di centinaia di fogli. Si accorse della mia curiosità, ma non fece un passo.

Che scrivesse della sua famiglia, della sua terra di origine, il Chianti, era il suo modo per significare il legame con le sue radici. Dal Chianti proveniva anche Monna Lisa, come aveva svelato uno storico fiorentino, Giuseppe Pallanti, in una documentatissima ricerca storica. «Avete le stesse radici e affondano nei vigneti del Chianti. E tutte e due nate in giugno! Le donne più famose d'Italia con sangue grevigiano». Oriana non lo sapeva, l'accostamento le fece piacere.

Donna coraggiosa, parlava spesso del suo coraggio, della guerra in Vietnam, della vita messa continuamente a rischio per scrivere un pezzo: «Ora è più facile. Altri mezzi, telefonini satellitari, computer. Ci sono inviati di guerra che fanno i servizi dalla camera di un albergo a quattro stelle. Si affacciano dalla terrazza con una tazza di tè e cosa vedono? La piscina o il giardino. Eppure scrivono lo stesso. E che pezzi! Oddio, anche allora c'era qualcuno che usava la stessa tecnica. Io non l'ho mai fatto».

Come darle torto. Dopo aver vissuto da giornalista l'insurrezione ungherese, Oriana, corrispondente di guerra de "L'Europeo", fu per la prima volta in Vietnam nel 1967. Vi tornò per dodici volte in sette anni, fermandosi per infinite settimane e scrivendo senza fare sconti a nessuno storie e articoli documentatissimi e scomodi. Da inviata, seguì anche il conflitto tra India e Pakistan, le guerre in Medio Oriente e gli innumerevoli episodi di guerriglia in Sud America. Infine, la guerra del Golfo con l'ingresso delle truppe americane a Kuwait City.

Era una perfezionista della parola scritta. Ripugnava la rima, le assonanze, i periodi costruiti con vocaboli che emettono il medesimo suono. Ogni pagina una fatica ripetuta cento volte: la ricerca di sinonimi, le citazioni dotte e inconsuete, il lavoro preparatorio con la lettura di innumerevoli testi.

E sempre nel silenzio perfetto. Nel silenzio e nella solitudine. Ho sempre dubitato che Oriana fosse una donna sola. Prediligeva la solitudine ma non era né sola né isolata dal mondo.

Di certo, non ha mai corso il rischio di appartenere alla classe di quanti dicono e non dicono, convinti che per vivere meglio si debba piacere a tutti. L'unica dea cui si è votata immagino sia stata la libertà.

Colta, tagliente, sempre fuori dal coro, scomoda, una prima della classe fino da piccola – me lo ricordava – e come tale avviata sulla strada di prevedibili antipatie. Ma non in quei momenti con me. Brevi invettive, poi basta, un solitario racconto di una vita prestata alla macchina da scrivere e all'avventura. «Io non so vivere – mi diceva – non avrei saputo vivere senza avventura. Qualsiasi cosa mi accada io la trasformo in sfida. Il giornalismo, di avventure, me ne ha regalate parecchie. Però nessuna m'è venuta gratis, ciascuna è costata un prezzo assai alto».

«Sto per morire». Lo sussurrava più volte in quei giorni, ma senza mai parlare della morte. Ordinava, stabiliva, disponeva come avrebbe dovuto essere organizzato il suo funerale – rigorosamente in forma privata nel cimitero degli Allori, accanto alla terra del padre, della madre, della sorella ed al cippo che ricorda Panagulis – e chi avrebbe potuto parteciparvi – nessuno o quasi, tanto meno le lacrime di coccodrillo di politici e detrattori. «Sicofanti e vigliacchi non mi sono mai piaciuti. D'altra parte verso i potenti sono sempre stata irriverente». Nient'altro.

Chi non ha avuto la ventura di conoscerla personalmente non ha potuto apprezzarne né la dolcezza di donna né i gesti, frequenti, di generosità. Una dolcezza essenziale, "maschile", mascherata da modi decisi, diretta. Sapeva il valore della gratitudine e ne faceva uso non appena le difese si abbassavano, quando aveva deciso che ci si poteva fidare. Nessun giudizio approssimativo, dunque, se non altro per non incorrere nel duro monito di Balzac: «Chi narra la storia delle persone facendo della cronologia fa la storia degli sciocchi».

Di lei mi resta, tra i ricordi e dei doni per i miei figli, una copia con dedica della Lettera a un bambino mai nato. Mi disse che avrebbe voluto continuarlo: «È un inno alla vita anche se il titolo può trarre in inganno. L'hai letto? Non è un libro per sole donne». Letto e riletto, la prima volta all'università, la seconda di ritorno da New York, proprio quella copia a me dedicata.

Quel libro avrebbe dovuto essere in origine un'inchiesta giornalistica per "L'Europeo", fu Oriana a trasformarlo in opera letteraria, contravvenendo alle indicazioni del direttore e scatenando il finimondo. Era così, prendere o lasciare. Era Oriana.

Dal nostro ultimo saluto – un abbraccio, come fossimo stati commilitoni in pensione, niente lacrime – restò alcuni giorni ancora a Firenze, forse un paio di settimane. Non lo seppe quasi nessuno.

«Ciao Riccardo, grazie della tua compagnia. Non so se ci rivedremo. It's over. This is the end of the road. E comunque vada, un grosso in bocca al lupo per la tua vita».



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