Queste riflessioni assumeranno
come proprio punto di partenza la posizione esposta da Etienne Balibar nel suo
libro Nous, citoyens d’Europe? Les frontières, l’État, le peuple[2].
Balibar, col quale ho avuto diverse occasioni di confronto e di dibattito in
Italia e in Francia, e che ha anche collaborato con la rivista da me diretta “Alternative”, formula un’idea di cittadinanza europea concepita non come un dato
acquisito o un semplice ideale, ma come un processo disseminato di
ostacoli, che nello stesso tempo è necessario e straordinariamente incerto: una lunga marcia della quale occorre mettere in rilievo innanzitutto le
contraddizioni, la cui risoluzione dialettica non è garantita da alcuna
logica immanente alla storia. Noi ci troviamo, infatti, dopo la fine
della sovranità nazionale classica (ma non delle identità nazionali che sono un
dato con cui fare i conti), ma prima dell’inizio di una vera e propria
sovranità post-nazionale, mentre la globalizzazione mette in crisi la nozione
di sovranità in quanto tale.
In tale contesto non si tratta tanto di
confidare nelle carte di diritti o nei compromessi istituzionali negoziati dai
governi, quanto piuttosto nei processi sociali e politici che i cittadini
europei saranno in grado di produrre essi stessi, in modo da determinare le
condizioni di una nuova appartenenza. Questi processi avranno anche come
risultato una espressione giuridica, ma si fondano essenzialmente sulle pratiche
concrete che saremo riusciti a sviluppare. In un certo senso dobbiamo riuscire,
come europei, a trasformare le nostre difficoltà e le nostre contraddizioni in
ragioni di impegno positivo, in modo da determinare una nuova realtà. Balibar
parla di «cantieri della democrazia», cioè di cantieri d’iniziativa
transnazionali che rendano pensabile una cittadinanza europea, e indica quattro
esempi: le lotte per la creazione di uno spazio giuridico europeo, più
democratico di quelli nazionali; le lotte sociali e sindacali per la
riorganizzazione del tempo di lavoro su scala europea; la democratizzazione
delle frontiere e, infine, la traduzione come unica, possibile lingua
dell’Europa.
Su quest’idea di traduzione egli ritorna
nel suo nuovo libro L’Europe, l’Amérique, la guerre. Réflexions sur la
médiations européenne[3].
Qui Balibar propone di nuovo un ruolo
dell’Europa che parte dai suoi limiti e dalla sue contraddizioni: una realtà
ancora indefinita, senza frontiere ben determinate, perché essa stessa è in
fondo una frontiera. Una realtà nella quale molti vedono un argine in un mondo
dominato da una sola superpotenza.
Eppure, la soluzione che può rilanciare
un ruolo dell’Europa, di quest’Europa che non ha un’identità politica o
istituzionale precostituita ma che deve costruirsi politicamente, non consiste
nel contrapporsi da potenza a un’altra potenza (e ammesso che questa fosse la
scelta, è facile immaginare che tale scelta prolungherebbe lo stato di guerra e
potrebbe portarlo ad esiti disastrosi). Non è – evidentemente – la scelta
opposta: proporsi come alleati fedeli o vassalli servizievoli. Lo scenario
auspicato da Balibar – e che io sostanzialmente condivido – è al contrario
quello di un rilancio dell’idea di un ordine pubblico internazionale, di
disarmo progressivo e controllato, di negoziazione paziente dei conflitti
regionali e, infine, di costruzione di un’area integrata euro-mediterranea che
si contrappone all’idea di uno scontro di civiltà fra Occidente e mondo
islamico.
Balibar propone di trasformare la debolezza
dell’Europa in capacità d’iniziativa politica e culturale: una politique de
l’im-puissance che io amerei rendere con il termine «politica di
non-potenza». Si tratta di rimettere in questione il rapporto fra politica
e potenza, tradizionalmente legata all’idea di un soggetto politico
sovrano che fa pesare sugli altri le risorse che possiede. C’è un altro tipo di
potere immaginabile ed è quello che suscita negli altri e in se stessi delle
possibilità nuove, inedite, svolgendo un’azione rivolta in primo luogo verso
gli altri, e che di riflesso si converte anche in una crescita per se stessi.
E questo novum storico sarebbe
appunto quello di un’Europa che sceglie per se stessa il ruolo di «mediatore
che svanisce» («the Vanishing Mediator», secondo una bella espressione
del critico letterario Fredric Jameson[4]),
di un’Europa che istruita dalla sua storia di guerre, di violenze, di
dominazione su altri popoli del globo, usa la straordinaria ricchezza
costituita dal suo patrimonio di culture, di lingue, la sua ricchezza plurale,
come assunzione di un ruolo di mediazione, di traduzione, per favorire
l’incontro fra le diversità di cui è ricco il mondo globalizzato, per cercare
una misura di compossibilità, di convivenza e di comunicazione praticabili.
La traduzione diventa così un paradigma
politico, non solo un rimedio imposto dalla necessità di comunicare
comunque (anche il dominio impone una forma di comunicazione e la traduzione
non è di per sé innocente). La traduzione, come sfida e come oggetto di una
scelta etico-politica, diventa modello che contiene in se stesso un elemento di
rispetto per le diversità, un elemento di ospitalità linguistica
e non solo linguistica, ma anche, inevitabilmente, ospitalità a tutto campo e
in senso pieno.
Negli ultimi anni il tema della
traduzione è diventato un tema di riflessione filosofica, con cui si sono
misurati autori come Gadamer, Ricoeur, Derrida, Eco e altri ancora. Essendo un
campo di studi al quale mi sono dedicato, ho avuto altre sedi in cui
approfondire questo aspetto. Qui mi interessano le implicazioni politiche, che
sono ricche e feconde.
Scegliere il modello della traduzione
significa scegliere la consapevolezza dell’imperfezione rispetto alla
presunzione del sapere assoluto; ma significa anche impegnarsi in uno
sforzo di fedeltà rispetto a ciò che viene tradotto, di attenzione e di
apertura all’altro che si cerca di intendere e con il quale si cerca di
comunicare di rispetto, attenzione, apertura nei confronti di tutti i partner
del processo di traduzione.
Nell’agire politico questo equivale a
rinunciare all’imposizione violenta della propria verità, a beneficio di una interazione
dialogica fra i diversi punti di vista. Ma significa anche dare voce a chi
non ha voce, o non l’ha mai avuta.
Non dimentichiamo, infine, che la
traduzione o la traducibilità dei linguaggi (soprattutto con riferimento alla
stratificazione sociale e al divario fra culture e linguaggi popolari e
linguaggi colti) era un tema intuito da Gramsci. Per Gramsci la «filosofia
della prassi» è chiamata a esercitare una capacità di traduzione e di messa in
comunicazione fra i diversi linguaggi che il pensiero borghese non ha, e che il
marxismo storico ha certamente perso e dovrebbe oggi recuperare.
Tornando a Balibar, non è certamente
scontato che l’Europa unita assuma come linea politica quella che egli propone;
mi pare però certo che la sua proposta abbia radici solide nella storia passata
del vecchio continente, oltre che una capacità di assegnare a tale storia un
futuro. Se un senso ha la costruzione europea, si tratta dell’assunzione
dell’impossibilità di continuare una storie di guerre fra vicini, fra gli
abitanti di una riva e di un’altra dello stesso fiume. Tardi è venuto il
momento della saggezza, ma ormai sembrano distanti anni luce i tempi i cui
inglesi e francesi, francesi e tedeschi, tedeschi e inglesi si massacravano
vicendevolmente. Non si tratta di pacifismo astratto o romantico, ma di una
dura lezione della storia che alcuni popoli della stessa Europa non hanno
ancora appreso. Pensiamo a questo proposito ai Balcani, ma anch’essi sono
giunti a un punto limite, oltre il quale c’è solo la distruzione di tutte le
parti in causa. La pace e la necessità di convivere diventa quindi una
necessità costitutiva e costituente per l’Europa. La traduzione come metafora
della mediazione e della coesistenza fra le culture, fra popoli che parlano
lingue diverse ma appartengono a una stessa umanità, diventa allora una strada
obbligata e può rivelarsi una ricchezza inaudita. Può l’Europa praticare questa
strada e utilizzare questa ricchezza di cui è depositaria per il mondo intero?
Il sogno kantiano di una «pace perpetua»
diventerebbe una prospettiva realistica, estremamente difficile ma
politicamente perseguibile, anche in un mondo che in tante sue parti e nel suo
disordine complessivo sembra piuttosto hobbesiano. Ma anche per Hobbes non è
possibile eternizzare lo stato di guerra. Pax est quaerenda.
La scelta è oggi fra
accettare uno stato di guerra senza fine e senza vie di uscita o invece far
lavorare «il mediatore che svanisce». Svanisce appunto quando ha raggiunto il
suo scopo, quando una comunità mondiale si sarà costituita su basi più solide
delle attuali, quando non ci sarà più bisogno di un mediatore, forse perché ce
ne saranno tanti. Ma intanto una buona parte del lavoro sarà stato compiuto;
cosa succederà dopo, non sta a noi dirlo.
La prospettiva di Balibar assicura quindi non la certezza del successo, e
nemmeno quella della sopravvivenza dell’umanità di fronte ai rischi di un
futuro oscuro e minaccioso, ma una ragionevole strada per costruire
l’alternativa. «Un altro mondo è possibile», si diceva nei forum sociali di
Porto Alegre, non «un altro mondo è assicurato». Ma quali sono le alternative
che si contrappongono a questa strada, e dove portano?
Probabilmente non saranno le classi
dirigenti che oggi governano l’Europa a far propria questa utopia concreta
(per usare un’espressione di Ernst Bloch). Non si vede però perché non debbano
e possano scegliere questo cammino e questa filosofia i movimenti, i nuovi
intellettuali legati ai movimenti.
Lungo questa strada potremo non solo
adempiere alla nostra vocazione umanistica di intellettuali europei, ma anche
progredire nella ricerca di un fondamento nonviolento del legame sociale,
contrapponendo all’homo homini lupus di Hobbes l’homo homini deus dell’antico
poeta latino Cecilio Stazio.
Mi piace porre questa ricerca di un
fondamento nonviolento del legame sociale sotto il segno di Ricoeur (scomparso
il 20 maggio 2005): giunto ad un’età biblica di oltre novant’anni, egli ha
fatto nel 2004 un nuovo dono ai suoi lettori con Parcours de la
reconnaissance, un’opera che rappresenta un nuovo avanzamento di quella
meditazione sulla condizione umana, ricca di saggezza e foriera di speranza,
che rappresenta l’eredità più preziosa del filosofo francese[5].
In quest’opera Ricoeur lega il grande tema hegeliano della lotta per il
riconoscimento reciproco dei soggetti con una riflessione sul dono.
Egli si richiama ad una nota corrente
francese di studi antropologici e sociali, a partire dal fondamentale Essai
sur le don di Marcel Mauss fino ad arrivare agli studiosi della scuola
anti-utilitaria. Nelle società primitive il dono e il suo contraccambio
generano una rete complessa di rapporti sociali. Il dono deve essere ricambiato,
perché esso simbolizza una forza magica che deve essere fatta circolare. Questa
tesi, secondo Ricoeur, condannerebbe il discorso sul dono a restare nell’ambito
del pre-moderno. Ciò che invece va cercato è un senso non magico del dono, che
è appunto il riconoscimento reciproco: io dono perché, donando, dono qualcosa
di me stesso e mi aspetto di essere riconosciuto da colui al quale dono. Il
dono è sempre simbolo, ma non più in senso magico, bensì di una umanità che si
esprime nell’altro e in me, e nel nostro rapporto reciproco. Il dono esemplare,
allora, è quello di ciò che non ha prezzo, come faceva Socrate che, a
differenza dei sofisti, insegnava gratuitamente la verità che non ha prezzo[6].
Inserendomi a mia volta in questa linea
di pensiero, concluderei dicendo che un momento fondamentale e fondante del
legame sociale è il dono delle lingue, che ci consente di divenire parte
del consorzio umano nella duplice forma del dono della lingua materna e
del dono reciproco delle lingue che si realizza nella traduzione[7].
djervol@tin.it
[1] Testo dell’intervento pronunciato in occasione del convegno organizzato
all’Università di Sofia, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura,
su L’integrazione europea dal punto di vista della filosofia (10-11
giugno 2005).
[2] La Découverte, Parigi 2001.
[3] La Découverte, Parigi 2003.
[4] The Vanishing Mediator; or Max Weber as Storyteller (pubblicato nel 1973 e riedito nel volume The Ideologies of Theory, University of Minnesota Press, Minneapolis 1988).
[5] Cfr. P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Stock, Parigi 2004 (ora in traduzione italiana presso Cortina, Milano 2005).
[6] Cfr. M. HENAFF, Le
prix de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Seuil, Parigi 2002 (in via di traduzione presso Città Aperta, Troina [Enna]
2006).
[7] Ho sviluppato negli ultimi anni il tema della
traduzione in più occasioni, tra le quali ricordo in particolare l’Introduzione
(pp. 7-37) a P. RICOEUR, La
traduzione. Una sfida etica,
Morcelliana, Brescia 2001 e il mio intervento al Convegno Castelli del gennaio
2004: Il dono delle lingue, in Le don et la dette, textes réunis
par Marco M. Olivetti, Cedam, Padova 2004 (ma marzo 2005), pp. 129-136.