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Rivalità mimetica e accertamento del diritto in un episodio della Chanson de Guillaume.

FERDINANDO RAFFAELE
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica

1. Con formula di indubbia efficacia, Marc Bloch (1949, p. 112) definisce le chansons de geste «libri di storia per coloro che non sanno leggere, ma amano ascoltare», laddove tuttavia con ‘storia’ è da intendersi non già un racconto di avvenimenti, ma piuttosto un distillato di esperienze. Queste opere mirano infatti a costituire, al di là di una superficie narrativa sovente caratterizzata da eclatanti contraddizioni, vistose esorbitanze e immagini iperboliche, un serbatoio di memoria funzionale a veicolare innanzitutto verità di tipo antropologico o escatologico. Del resto, per tale motivo, nel rivolgersi ai loro uditori, a dispetto di situazioni quanto meno improbabili, esse rivendicano con insistenza l’autorevolezza e la veridicità di quanto narrato (cfr. Varvaro 1985, p. 239; Boutet 1993, p. 17 ss.).
Naturalmente l’esperienza bellica costituisce, oltre che la tematica di gran lunga più trattata, la forma ideale dell’epica medievale, strutturata intorno al motivo del coraggio e a quello della fedeltà alla parola data. La gran parte delle chansons, oltretutto, segue uno schema narrativo incentrato sullo scontro tra due parti contrapposte, con una delle quali i protagonisti si identificano totalmente, divenendo così partecipi del destino di una comunità che considerano custode di una verità inoppugnabile. Ci offrono un’emblematica attestazione di tale convincimento le parole che Rolando pronuncia all’inizio della battaglia di Roncisvalle, quando, di fronte alla soverchiante orda dei nemici saraceni, assicura i suoi del successo, perché «i pagani hanno torto, e i cristiani hanno ragione [dreit]» (vd. La canzone di Orlando, v. 1015): in buona sostanza, la vittoria non dipende dal numero o dalle qualità marziali dei combattenti, ancorché preponderanti, ma dal fatto che essi stiano dalla parte della verità.
Peraltro, l’esordio del racconto epico propone quasi sempre un’azione militare rivolta a compensare un vulnus subìto. E se chi attacca asserisce di volere vendicare un torto, anche la controparte è convinta di avere precedentemente agito in nome di un diritto che le era stato conculcato. La rivalità epica appare così la conseguenza di cause che rimontano indietro nel tempo, ma si avviluppa invariabilmente in una spirale mimetica che dissolvendo, ovvero obliterando, le matrici storiche reali (cfr. Barberi 2006) finisce con l’assumere una dimensione ‘originaria’ (cfr. Fornari 2014, pp. 66-67). Sotto questo punto di vista, la vis bellica che anima le chansons de geste può essere rappresentata come una sequenza di vendette che sfugge al controllo dell’azione politica; per ricorrere alla distinzione messa a fuoco da René Girard (2008, pp. 31-39), sulla “intenzione ostile”, guidata dalla razionalità della strategia militare, prevale il “sentimento ostile”, che, animato da una passione guerriera tendenzialmente senza limiti, mira all’annientamento dell’avversario. Inoltre, nelle rappresentazioni letterarie la violenza può dispiegarsi liberamente, laddove, invece, nelle guerre reali risulta frenata dalle forze di attrito (ossia, i luoghi, il clima, la logistica, la fatica fisica, ecc.). L’opera letteraria appare cioè un ‘testimone che non mente’, in grado di conferire una forma compiuta a istanze che nella realtà si possono manifestare solo in modo latente. Per tale ragione le assai compiaciute descrizioni della brutalità guerresca che costellano le chansons de geste (cfr. Barbieri 2017, pp. 124-129), in genere rubricate a coloritura enfatica, si rivelano quali indispensabili figurazioni del livello più estremo a cui il desiderio di violenza può giungere.
La guerra tra Cristiani e Saraceni ne risulta perciò polarizzata: per un verso esita la collisione di due mondi che protendono alla verità universale e a un dominio imperiale planetario; e per altro verso inanella una catena di vendette le cui originarie motivazioni si perdono nel tempo. Nella Chanson de Roland, per esempio, il conflitto trasfigura un “duello su vasta scala” (sulle molte e contraddittorie implicazioni di questa similitudine, cfr. Girard 2008, p. 29 ss.), attraverso il quale si rivelerà la verità e sarà ristabilita la giustizia violata (cfr. Raffaele 2014). E tuttavia, all’interno di questo pur coeso orizzonte di idee, gli esiti del duello non impediscono l’affiorare di elementi che in una prospettiva metastorica prefigurano una diversa concezione della società e del diritto. Mi soffermerò su uno di questi elementi, prendendo spunto dal testo di una delle più importanti opere dell’epica romanza, la Chanson de Guillaume.


2. Tra le chansons del corpus epico francese, quelle riconducibili al ciclo detto di “Garin de Monglane” (cfr. Tyssens 1967) si distinguono per l’icasticità con la quale mettono a fuoco le problematiche afferenti alla rappresentanza del potere politico (cfr. Limentani/Infurna 2007, pp. 32-38; pp. 42-44). Ispirate a una chanson oggi perduta, esse hanno quale personaggio principale Guglielmo d’Orange, fedele vassallo prima di Carlo Magno e poi del suo erede Luigi. La più antica chanson del ciclo – comunemente datata intorno al 1140 –, per l’appunto la Chanson de Guillaume, narra delle lotte con uno sterminato esercito saraceno, sostenute a difesa della Francia (nonché dell’intera Cristianità). Guglielmo, personaggio dotato di straordinaria forza fisica e di indomito coraggio, surroga qui nelle sue funzioni di difensore della Cristianità l’esitante re Luigi, nel corso di un racconto che ha precisi addentellati con la situazione storica del secolo XIII, caratterizzata dal controverso rapporto tra monarchia e feudalità (cfr. Varvaro 1985, pp. 233-236).
Dalla trama dell’opera emergono stringenti simmetrie. Gli eserciti in lotta, nonché i singoli personaggi, agiscono, potremmo dire, secondo un principio di azione e reazione. Sicché l’equivalenza della loro condotta fornisce una chiave interpretativa del testo indubbiamente perspicua, rivelando il meccanismo mimetico che soggiace all’azione militare (e alla decisione politica) e che costituisce uno dei tratti più profondamente caratterizzanti la cultura medievale (cfr. Girard 2012, p. 21 e p. 27).
L’attacco arriva dal mare: da un’enorme flotta, guidati dall’emiro di Cordova Deramé, i Saraceni sbarcano in terra di Francia e si attestano nella vasta radura desertica dell’Archamp. Ad affrontarli si propone Viviano, un ardimentoso cavaliere nipote del protagonista, il quale, al comando di un esiguo manipolo di cavalieri, sacrifica se stesso contro un esercito di gran lunga più numeroso. Poco prima di soccombere, riesce a inviare un messaggero a Guglielmo, per chiedergli di vendicarlo. L’eroe, vivamente sollecitato dalla moglie Guiborc, parte per l’Archamp. L’esito della spedizione è tuttavia infelice: malgrado il valore, le schiere cristiane sono annientate. Qualche giorno dopo, alla testa di un nuovo esercito, Guglielmo ritenta l’impresa, e con l’aiuto del nipote Gui uccide Deramé, ma nonostante ciò i Saraceni restano padroni del campo. Costretto per la seconda volta a cercare rifugio nella sua città ed esaurita ogni risorsa militare, Guglielmo si reca alla corte dell’imperatore Luigi per chiedergli aiuto. Qui, dopo una travagliata trattativa che mette in rilievo l’inadeguatezza del sovrano, ottiene il comando di una forte armata, alla cui guida, per la terza volta, marcia contro i Saraceni. La chanson si conclude in un lieto fine: con l’apporto determinante di Rainouart, un saraceno convertito dalla forza smisurata, Guglielmo consegue la vittoria, scongiurando la minaccia saracena e riconfermando l’ordine del mondo cristiano.


3. Nell’essenziale sintesi della Chanson de Guillaume sopra proposta, ho messo in rilievo alcuni tratti componenziali tipici dell’epica medievale: la storicità, per quanto vistosamente alterata, del tema (cfr. Segre 2001, p. 260); lo scontro fra parti contrapposte, presentato come decisivo per le sorti della Cristianità; la presenza di un eroe e la sua identificazione con la comunità, della quale condivide il destino. Ma mi preme anche sottolineare come il narratore presenti al pubblico l’esito della guerra nei termini di “giudizio di Dio”: si vince perché si è giusti e la verità è certificata dalla vittoria. In questo contesto i personaggi, animati da un irrefrenabile e reciproco “sentimento ostile”, appaiono del tutto simili gli uni agli altri, trascinati dalla comune sete di sopraffazione, sicché il “giudizio di Dio” ristabilisce l’ordine del mondo, risolvendo le pulsioni soggettive. Talvolta, però, qualcosa sembra sfuggire alla ferrea logica della violenza reciproca. È il caso dell’episodio che sto per prendere in esame, nel quale il protagonista prova a sostituire la parola alle armi, il diritto alla spada.
Quando Guglielmo, sconfitto per la seconda volta sui campi dell’Archamp, volge le redini del suo cavallo verso la città di Orange, ove spera di trovare rifugio, si vede sbarrato il cammino da un cavaliere saraceno, il quale, riconosciutolo come cristiano lo sfida al combattimento: «Non m’importa, per la mia destra! / Chiunque siate, oggi perderete la testa. / Non vi salverebbe tutto l’oro di Palermo» (vv. 2103-2105; qui e nel séguito si cita dall’ed. Fassò 1995). Si tratta di Alderufe di Palermo, con cui Guglielmo, contrariamente a quanto è nelle sue abitudini, tenta di trovare un accordo: «Saraceno, fratello, poiché ti vuoi battere, / dimmi di cosa mi rimproveri. / Se ti ho fatto torto, sono pronto a renderti quanto è di tuo diritto [dreit], / se vuoi riceverlo, io ti do il mio pegno» (vv. 2107-2110). Il guerriero cristiano ipotizza dunque una possibile lesione del dreit del suo interlocutore ed esprime la volontà di risarcirlo con un adeguato riscatto. Come si vede, la proposta di Guglielmo, che riflette il lessico del diritto feudale, mira a una composizione incruenta. È interessante notare come tale proposta presupponga l’esistenza di un terreno comune, sul quale pervenire pacificamente a un’intesa e determinare l’entità del risarcimento. Solo che il dreit non risponde a una semplice procedura giuridica, ma riflette un principio trascendente (cfr. Raffaele, 2014, pp. 401-402). Ed è proprio quest’ultimo a separare i due personaggi. La risposta di Alderufe non concede margine alcuno alla possibilità di una pacificazione: «Guglielmo, sai di cosa ti accuso? / Del fatto che uomini e donne cristiani non devono esistere» (vv. 2111-2112). Il conflitto, secondo le parole del guerriero saraceno, non scaturisce da un fatto specifico, bensì è determinato dalla convinzione di rappresentare una verità universale: Guglielmo, sostiene Alferufe, ha ‘torto’ perché è cristiano: «sulla terra non deve avere luogo alcun battesimo; / e chi lo riceve sul proprio capo lo prende a torto. / Quel battesimo non vale nulla» (vv. 2113-2115).
La guerra che i Saraceni conducono contro i Cristiani rivela qui la sua matrice escatologica: l’instaurazione nel mondo della vera legge, a cui tutti i popoli sono tenuti a sottostare, è contraddetta, secondo Alderufe, dalla religione cristiana: «Dio è in cielo e Maometto in terra; / quando Dio fa caldo, per Maometto è inverno, / e quando Dio manda la pioggia, Maometto fa crescere l’erba» (vv. 2116-2118). È una dicotomia perfettamente simmetrica, nella quale Dio e Maometto costituiscono polarità opposte: il primo è collocato in uno spazio esterno alla terra, il cui governo è invece prerogativa del secondo. Lo iato è incolmabile, e trasborda dall’àmbito del cosmo a quello della società politica. A un ideale Impero saraceno, incarnazione dell’ordine naturale, spetta dunque il governo della terra: «chi vuole vivere deve chiedere il permesso a noi [scil. Saraceni] / e a Maometto che governa il secolo» (vv. 2119-2120). Riferirsi al dreit, nei termini in cui lo fa Guglielmo, non ha quindi senso, proprio perché chi si proclama cristiano contravviene al “governo del secolo”, che va inteso sia come spazio planetario, nel quale sarà instaurato il giusto ordine politico, sia come arco temporale in cui si rivelerà il significato ultimo della storia. Esso spetta de jure all’Impero saraceno, anche se il suo dominio effettivo non si è realizzato de facto. Vediamo qui letterariamente trasfigurata quella “verità cosmologica” che Eric Voegelin (1999, pp. 89-90) individua quale fondamentale principio di legittimazione degli imperi dell’Antichità: «L’impero è analogo al cosmo, un piccolo mondo che riflette l’ordine del mondo, dell’universo. Compito del governo è quindi assicurare che l’ordine della società sia in armonia con l’ordine cosmico; il territorio dell’impero è una rappresentazione analogica del mondo […]; e il capo stesso rappresenta la società, perché egli rappresenta sulla terra il potere trascendente che mantiene l’ordine cosmico». I Cristiani devono perciò sottomettersi a coloro i quali ne detengono la rappresentanza, chiedendo loro, per l’appunto, il “permesso di vivere”. Non facendolo sono da considerarsi non già esponenti di un mondo diverso – un mondo ‘altro’, alla cui esistenza potrebbe essere comunque attribuita una legittimità –, bensì ribelli nei confronti dell’unica verità e sovvertitori dell’ordine naturale incarnato dai Saraceni.


4. A fronte del rifiuto oppostogli da Alderufe, Guglielmo risponde in modo altrettanto perentorio: «Non sai quel che dici […] / canaglia d’un Pagano, hai detto una bestemmia molto grande. / Io rifiuto tutto ciò, perché non è così, / Dio è migliore di ogni creatura terrena» (vv. 2121-2124). Anche Guglielmo, del resto, si ritiene un rappresentante della verità; sicché verità si oppone a verità. La sua replica, oltretutto, capovolge la prospettiva dell’avversario: quanto affermato da Alderufe costituisce “una bestemmia”, perché quella di Maometto è la potenza transitoria di “una creatura terrena”, mentre Dio è “migliore” perché è eterno. La parola passa allora alle armi. E nel duello finiscono con il contrapporsi simbolicamente la trascendenza cristiana e l’immanenza delle divinità pagane (motivo peraltro presente in altre chansons de geste quali Aliscans e Corounnement de Louis).
Le azioni di Guglielmo e di Alderufe sono di nuovo assorbite nella spirale della violenza reciproca; e la chanson dà ampio risalto alla vis bellica con la quale i due guerrieri si affrontano: «Alderufe sprona il cavallo, e allora Guglielmo pungola il suo / e si colpiscono sugli scudi nuovi; / e li spezzano e fendono da un bordo all’altro, / e rompono e smagliano i loro usberghi» (vv. 2125-2128). Nei gesti e nei sentimenti, i due combattenti appaiono geometricamente speculari e pervengono a quello stato di indifferenziazione così descritto da Girard (2001, p. 43): «Reciprocamente esasperati dallo scandalo, dall’ostacolo vivente che ciascuno rappresenta agli occhi dell’altro, i doppi mimetici dimenticano l’oggetto del loro litigio e si scagliano con rabbia l’uno contro l’altro […]. Più gli antagonisti desiderano differenziarsi e più diventano identici. È nell’odio dell’identico che l’identità raggiunge il suo compimento».
Ma il duello, oltre a dare sfogo al “sentimento ostile” che pervade gli animi dei due combattenti, verifica e misura la verità da loro proclamata. Su questo punto la chanson ci propone una situazione inconsueta. Guglielmo nel corso del racconto non ha trovato, fino a ora, alcun avversario in grado di tenergli testa. I Saraceni riescono a prevalere su di lui soltanto grazie al loro numero. Stavolta, invece, l’esito del combattimento appare incerto: «Il marchese Guglielmo cade a gambe levate / e Alderufe rotola sull’erba, / né la cinghia, né la sella possono trattenerlo / e tutto il nasale sbatte sul terreno; / le piante dei piedi si capovolgono verso la volta del cielo» (vv. 2129-2133). Il racconto, anzi, pone in risalto il valore del guerriero saraceno: «Il saraceno Alderufe era ardito e prode, / un buon cavaliere, e aveva un coraggio indomito […]» (vv. 2134-2135); nonché la sua prestanza fisica, visibilmente superiore a quella di Guglielmo: «Il Saraceno era grande e corpulento, / aveva alta la testa, e il busto molto lungo […]» (vv. 2143-2144). Non sono, tuttavia, né l’eccellenza bellica, né il vigore a fare la differenza. Alderufe è destinato alla sconfitta perché: «[…] non ha Dio, pertanto non ha scampo; / il furfante, anzi, crede in Pilato e in Belzebù, / e in Anticristo, Bagot e Tartarino, / e nel vecchio Astarotte dell’inferno» (vv. 2136-2139). Le divinità saracene (per le divinità menzionate e sul politeismo attribuito ai Saraceni si veda almeno Fassò 1995, pp. 354-355) nulla possono contro Guglielmo, il quale, dopo un acceso scambio di colpi, prima mette fuori combattimento il suo avversario, recidendogli di netto una gamba, poi si impadronisce del suo cavallo, a sigillo del suo trionfo, e infine lo decapita. Il duello ha dunque emesso il suo verdetto: «Ah, – disse Guglielmo – il mio Dio mi ha riguardato molto bene. / Il suo campione deve essere protetto; / chi molto crede in Lui, non sarà mai confuso» (vv. 2155-2157). Insomma, non è Maometto a governare il ‘secolo’.


5. Soggiace al racconto del combattimento tra Guglielmo e Alderufe una ben delineata concezione del potere politico e della sua rappresentanza. Com’è noto, nella società feudale chi governa è chiamato a provvedere alle due necessità considerate imprescindibili per la vita stessa della società: la difesa del territorio e l’amministrazione della giustizia. Queste funzioni elementari pertengono alla “rappresentanza esistenziale” (cfr. Voegelin 1999, 70), e in ultima istanza devono essere assolte dal re. È così, ad esempio, nella Chanson de Roland, in cui l’imperatore Carlo Magno è presentato come il sovrano legittimo che guida in armi il suo popolo e di esso è il saggio giudice (cfr. Boutet/Strubel 1979, p. 29ss.). Ma così non è in tante altre chansons, nelle quali il monarca, o per debolezza o per insipienza, si rivela inadempiente rispetto ai propri obblighi. Nel caso della Chanson de Guillaume, il debole Luigi è surrogato dal vassallo a lui più fedele (cfr. Fassò 1995, pp. 13-14), per l’appunto Guglielmo, che incarna, sia pure transitoriamente, la “rappresentanza esistenziale” del regno dei Franchi (e della Cristianità).
La chanson, tuttavia, suggerisce al suo pubblico anche un altro simbolo: la società degli uomini, per essere giusta, deve riflettere l’ordine voluto da Dio e porre in esso il suo fondamento. L’ordine trascendente, che è ben diverso dall’ordine cosmologico, si manifesta come una legge dell’anima e si presenta come paradigma universale di verità. Sia Guglielmo che Alderufe rivendicano però per se stessi il ruolo di latori autentici della verità. Ma chi tra i due lo è realmente? Potrà forse accertarlo l’esito di un confronto armato? Solo in apparenza. La vittoria nel duello, del resto, non dipende dalla superiorità militare di uno dei contendenti: Guglielmo non è più forte di Alderufe, anzi sembrerebbe il contrario, ma vince perché incarna l’unica e autentica verità.
Sotto quest’aspetto appare emblematico l’epilogo dell’episodio. Guglielmo, dopo avere sconfitto Alderufe, d’improvviso inizia a parlare in un gran numero di lingue: «Mutò il suo cammino, e cambiò il suo linguaggio; / parlò ebraico, fiammingo, berbero, / greco, alemannico, gallese, armeno, / e le altre lingue che aveva appreso» (vv. 2169-2172). Da un’altra chanson de geste, quella di Aliscans, apprendiamo che Guglielmo è in grado di parlare l’arabo (cfr. ed. Régnier, lasse XL-XLII), ma vi fa ricorso solo per motivi pratici. Nella Chanson de Guillaume, di contro, la polilalìa (che, peraltro, il personaggio al di là di questo frangente non esibirà più) non sembra rispondere a una necessità effettiva. Passata di fatto inosservata tra gli studiosi che hanno esaminato il passo (cfr. Frappier 1955, p. 133; Fassò 1995, p. 346; Rychner 1999, p. 160), questa singolarità è stata spiegata nella sua valenza simbolica da Pioletti (2016, pp. 585-586), che la pone in relazione con l’elezione divina di Guglielmo, certificata dalla vittoria nel duello. Con chiara analogia al “dono delle lingue”, di cui fanno menzione gli Atti degli Apostoli e la prima Lettera ai Corinzi di San Paolo, il multilinguismo di Guglielmo sembra alludere al «carattere spazialmente universale – le lingue del mondo – dell’idea di Impero che, in questo caso, l’eroe, suo primo difensore, incarna» (ivi, p. 586). La trasfigurazione del linguaggio di Guglielmo non ha luogo, del resto, dopo l’uccisione di un nemico qualsiasi, uno dei tanti ai quali egli toglie la vita, ma proprio di quel nemico e a séguito di quel duello.


6. L’episodio esaminato lascia intravedere come la Chanson de Guillaume veicoli, al di là della lettera del racconto, una vera e propria filosofia (o teologia) della storia, che prefigura l’idea del Sacrum Imperium. Nel contesto di una guerra che estremizza la violenza, Guglielmo e Alderufe incarnano dunque la “rappresentanza esistenziale” dei rispettivi popoli e al contempo rivendicano (secondo polarità ideali opposte) la rappresentanza di una verità che trascende il potere politico e la forza militare; sicché il loro scontro armato, come abbiamo visto, assume un significato ordalico e certifica, nel suo esito, la proiezione universale dell’Impero franco-cristiano, rappresentando cioè una mise en abyme dell’intera vicenda bellica. Confronti con altre chansons e sondaggi a più vasto raggio sul corpus epico medievale potranno verificare la portata di tale costruzione simbolica. Qui invece importa sottolineare come, insieme all’idea di Impero, la Chanson de Guillaume avanzi una autorappresentazione del mondo culturale che l’ha prodotta e le tensioni che attraversano quella cultura. Malgrado l’ordalìa sia accettata nella mentalità del tempo come procedura giudiziaria (cfr. Cavina 2005, pp. 19-25), se ne avverte tuttavia l’intrinseca contraddittorietà rispetto ai princìpi cristiani che (quanto meno formalmente) stanno a fondamento dell’Occidente medievale. L’appellarsi di Guglielmo al dreit, ancorché inascoltato, dà perciò voce all’istanza di una diversa concezione della giustizia: un’istanza che si prefigge di arginare il mimetismo violento e mette in discussione il significato del duello (sul cui capovolgimento in senso cristiano, cfr. Barberi 2009, pp. 80-81). Si tratta di un seme che ora sembra cadere su un terreno arido ed essere destinato alla sterilità, ma che i secoli a venire vedranno maturare e fruttificare (cfr. Dawson 2009, p. 204).


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