1. In luogo di una premessa: due partiture per “basso continuo”
Il titolo che si è inteso dare alle considerazioni qui raccolte sembra alludere ad un ossimoro, ovvero ad una difficoltà – al tempo stesso concettuale e pragmatica – non superabile. Cos’è la natura umana? In prima approssimazione, seguendo una modalità classica di impostare il tema per la filosofia occidentale, “natura” è stato ed è concetto utilizzato come sinonimo di “essere”. Come noto questa identificazione, che invero “semplicemente” apre – mantenendola irrisolta fino ai nostri giorni – la correlativa questione circa il “che cos’è l’essere?”, annovera tra i propri “padri” filosofici figure di inesauribile grandezza come Platone e Aristotele, e abbisognerebbe dunque per se stessa di una chiarificazione ben superiore a quanto possibile in questo contesto.
Essa per altro inaugura una sorta di “modalità standard” di intendere la natura umana (ovvero di intendere l’essere specifico di quella porzione di essere del mondo che convenzionalmente indichiamo come umano) la quale, al pari dell’ideale partitura di un “basso continuo”, è giunta più o meno immutata fino ai giorni nostri.
In estrema sintesi, tale partitura, pur con toni e accenti differenti, sostanzialmente “racconta”, sancisce e difende l’immutabilità della natura umana: “natura” allude a qualcosa di statico o, se non altro, a qualcosa che, al pari della “sostanza” – da Aristotele non a caso indicata come “to upokeimenon”: il soggiacente, ovvero il “rimanente” (Metafisica, VII, 1142a – “rimane”, resta, al di là e al di sotto di ogni possibile azione o attività che i viventi possono compiere con e a partire da essa.
Prendendo come punto di riferimento tale modalità, si rende così evidente la declinazione ossimorica o comunque critica sottesa dal titolo del presente lavoro. Se la natura umana è identificata come statica, ovvero come sostanzialmente riproponentesi in tutte le epoche storiche, come potrebbe essere sottoposta e sensibile ad una pressione dinamica ed evolutiva? Ovvero, rispetto al nostro titolo, come potrebbe essere ipotizzabile – ed esperibile – un suo “potenziamento” (ma anche un suo “de-potenziamento”)?
Invero, se si potesse ripercorrere la stessa storia della filosofia occidentale, sorgerebbero da più parti le tracce di un’altra e parallela partitura per quel medesimo basso continuo: il desiderio e il bisogno di intervento, dominio, modifica, insomma di (più o meno presunto) miglioramento della natura umana è qualcosa di antico quanto il modo di interrogarci su noi stessi che, se non altro in Occidente, siamo soliti chiamare filosofia. Moltissime sono le evocazioni filosofiche o mitiche che rendono esplicito tale bisogno; si potrebbe alludere solo al platonico mito dell’auriga (Fedro, 246a e seg.), destinato a condurre il suo mezzo appunto controllando, ovvero contenendo la passione e indirizzando la ragione, entrambe tipiche della “natura umana”. Ovvero, se si volesse andare ad altra tradizione, rivolgersi al mito biblico del Golem (Salmo 139), materia primordiale informe – forse la stessa dalla quale è stato generato Adamo –, modellata da uomo fino ad assumere le sembianze di un umanoide, pensato e programmato per obbedire letteralmente al suo creatore: un sembiante-umano, la cui natura risulta “migliorata” e potenziata, innanzitutto sotto il profilo della forza e della resistenza, per meglio essere al servizio dell’uomo medesimo (Henry 2013). Potrebbe essere identificata in tale duplice origine l’esigenza, al fondo duplice anch’essa, di controllare e indirizzare, fino a plasmarla ex novo, la natura umana, elaborando un miglioramento delle sue capacità cognitive e morali, per un verso, delle sue dimensioni corporee e possibilità fisiche, per l’altro.
Come si diceva, sono queste altrettante note che stanno al fondo di una ulteriore partitura, quella che, questa volta, diversamente racconta, sancisce e narra la volontà di modificare la natura dell’uomo, potenziandola (ovvero migliorandola?) rispetto ad aspetti specifici.
Ma il percorso e il tappeto musicale che potrebbe essere riprodotto, fatto di spunti e contrappunti di e a tali note di fondo potrebbe essere lunghissimo. In questo senso prezioso e per molti versi inedito risulta il tentativo messo in atto dall’ultimo numero di Cosmopolis (XII, n. 2/2015), di ripercorrerlo criticamente, lanciando luci su un presente spesso non memore di riprodurre (non di rado, debolmente) pensieri già da altri pensati.
2. Dalla bioetica allo human enhancement – una traccia nel solco della “riabilitazione della filosofia pratica”
Tuttavia, se la natura umana può essere pensata come “potenziabile”, ovvero “migliorabile”, cosa significa provare ad affiancare tale espressione alle possibilità tecnologiche offerte dal nostro presente? Come è noto, una fondamentale svolta alle possibili risposte a questa domanda è stata offerta dal consolidamento scientifico e disciplinare della bioetica.
Verso tale disciplina si indirizza il bisogno di consolidare una “scienza della sopravvivenza”, secondo le parole dell’inventore del termine bioethics, l’oncologo Van Rensselaer Potter (1971), ovvero innanzitutto la necessità di misurarsi con problemi concreti legati a forme fino ad allora non specificamente controllate di sperimentazione su soggetti umani (in vitro e non). Specifica attenzione si iniziò a dedicare anche alle ricadute sociali (interpersonali e intergenerazionali) della pratica medica, nonché al bilanciamento tra l’attrattiva prospettiva di utilizzo di nuove tecnologie e la necessità, per perseguirla, di riallocare risorse scarse o comunque già contese tra altre priorità, di cura o più complessivamente scientifiche. Ma la prosecuzione del dibattito come noto si concentrò – e tuttora si concentra – su quell’insieme di questioni che si è soliti indicare come relative ad inizio e fine vita, ovvero sul più significativo impiego del principio di scelta: la possibilità, per un verso, di controllare e programmare la nascita di esseri umani, per l’altro, di gestire e prolungare il termine della vita, prevedendo di sostituire organi vitali, ovvero di supportare tecnologicamente la permanenza dei parametri vitali (all’interno di un dibattito di grandissima estensione, tra i molti altri, costituiscono punti di riferimento condivisi almeno i seguenti lavori: Mori 1995; Neri 1995; Pessina 1999; Mordacci 2003; Semplici 2007; Reichlin 2008; Becchi 2009; Alici 2016).
Un duplice dato di fondo connota però l’intero articolarsi della riflessione su questo tema. In primo luogo, si tratta del venir meno della fiducia nella capacità autoregolativa dei più recenti sviluppi tecnologici direttamente impattanti sul “vivere”, ovvero sulla natura umana. Per dirla in uno slogan: la completa indipendenza – fino alla non di rado pretesa ed esclusiva autoreferenzialità – della ricerca, ovvero “il sonno della ragione (valutativa e critica)”, potrebbe “generare mostri” – anche, e purtroppo, nel senso letterale del termine. In secondo luogo, tale riflessione prende avvio dall’insoddisfazione nei confronti di modalità di gestire questioni o potenziali conflitti legati alla ricerca biologica o alla pratica medica secondo stili e strumentari concettuali che appaiono divenuti ormai manifestamente inadeguati rispetto alle potenzialità rese disponibili dalla più recente ricerca bio-medicale e bio-tecnologica.
Per quanto attiene al focus tematico nel presente contesto, tale duplice dato giunge ad inserire note importanti all’intrecciata partitura di basso continuo, dedicata ora alla permanenza ora alla modificabilità della natura umana. Per altro, che tale complessiva partitura e discussione intorno al tema registri un suo innalzamento di priorità – ovvero che la risposta alla domanda circa il “che cos’è la natura umana?” sia sempre meno scontata e condivisa – è fatto che può facilmente essere documentato, anche in forma quantitativa, prima che dalla raffinatezza delle discussioni in tali lavori inseriti, innanzitutto osservando il crescente numero di ricerche e volumi dedicati al tema, a tutti i livelli del dibattito scientifico, nazionale ed internazionale, e attraverso i più svariati piani disciplinari. Senza presumere di offrire un elenco esaustivo, ne sono testimonianza di chiaro valore scientifico i lavori curati da Downes-Machery (2013), Aguti-Alici (2015), Caldarone (2015), Cangiotti (2016), Signore (2010), Sisto (2015).
Tale dibattito, certo arricchito dalla complessiva consapevolezza dei dati di fondo desunti dalla matrice bioetica, restituisce il senso del proprio riproporsi nel nostro più immediato presente, fino a coinvolgere una delle più recenti propaggini problematiche, relative, appunto allo human enhancement, al potenziamento (bio-tecnologico) dell’essere umano. Il medesimo dibattito, del quale si produrrà un sintetico inquadramento nel paragrafo successivo, al pari del punto di partenza e di volta di quello che è stato ed è riconoscibile come “bioetico”, testimonia per un verso la piena eclissi di fiducia nell’autoregolamentazione e autolimitazione tecnologica e, per l’altro, sembra necessitare del recupero, ovvero dell’articolazione di nuovi e più solidi criteri etici e valutativi circa l’uso e l’implementazione di tecnologie ad oggi già disponibili – e domani certo in predicato di acquisire una più larga diffusione sociale e, non da ultimo, di mercato.
Il dibattito sullo human enhancement – se ci è ancora consentito prolungare la metafora – sembra così dare per acquisita come dominante una nota specifica di quella partitura musicale: la stessa che sancisce la modificabilità della natura umana, nella forma del potenziamento di quell’essere che siamo soliti riconoscere come uomo.
Sulle modalità già oggi concrete – se non altro modellizzate, ovvero sperimentate in forma di prototipi – attraverso le quali tale natura potrebbe essere “potenziata” vi è attualmente un importante dibattito, che impegna e divide molteplici settori disciplinari, almeno dalla genetica alla fisiologia, dall’informatica a pressoché tutte le branche della medicina, fino a giungere ai differenti “fronti” dell’ingegneria bio-robotica. Tuttavia, l’intento che si intende qui proporre non vorrebbe indicare una disamina sostantiva, ovvero una rassegna dei modi attraverso i quali la natura umana potrebbe essere potenziata – ammesso e non concesso che di tale espressione verbale sia possibile circoscrivere un significato univocamente accettato. Si vorrebbe piuttosto inserire e discutere un possibile criterio attraverso il quale le singole opportunità e circostanze sostantive potrebbero essere vagliate. Un criterio che, presentato qui in forma sintetica e certo prototipale (si è cercato di presentare con maggior ampiezza il medesimo insieme problematico in Pirni – Carnevale 2013a; Pirni 2014), potrebbe essere inteso come un tentativo di ideale prolungamento di quell’importante dibattito interno alla filosofia novecentesca che è stato qualificato come Rehabilitierung der praktischen Philosophie.
Tale dibattito, originatosi in Germania a partire dagli anni ’60 e successivamente diffusosi in diverse aree linguistiche, rinveniva il proprio nucleo originario nell’impegno di offrire una rinnovata legittimazione del sapere filosofico all’interno di un complessivo ambito problematico concernente l’uomo, la sua condotta morale e le differenti dimensioni del vivere associato; un ambito che, nel corso del XX secolo, le “scienze umane” avevano via via rivendicato come proprio, tendendo in questo modo ad estromettere il sapere filosofico da un “territorio” tradizionalmente di sua competenza (Riedel 1972-1974). Il dibattito, nel suo complesso, intendeva dunque reagire a quel tentativo di estromissione variamente messo in opera dall’intero spettro delle “scienze umane”, specie nelle loro rispettive declinazioni o rielaborazioni quantitative e scientiste, ovvero in quelle elaborazioni pronte a “importare” modelli di rilevazione e analisi dei fenomeni mutuati dalle scienze sperimentali. Nel fare ciò, il tentativo teorico posto in atto da una serie rilevante di studiosi, individuò nel modello aristotelico della filosofia pratica o scienza pratica un valido referente ed un importante nucleo teoretico la cui riattualizzazione – pur parziale e variegata – appariva chiaramente praticabile e dotata di chiara efficacia anche per le sfide del presente.
L’idea di fondo era dunque la riabilitazione di una filosofia pratica ovvero una scienza pratica al di là e al di fuori da quello che viene comunemente riconosciuto come l’ambito “scientifico”: la matematica, la fisica, ecc. Nel contesto del consolidamento di tale forma di sapere, la ragione deve acquisire nuovamente ed anzi amplificare il proprio ruolo valutativo e orientativo in vista dell’agire; deve cioè poter indicare come e, soprattutto, in vista di cosa agire, mantenendo viva la capacità di riconoscere e discriminare non solo i possibili mezzi ma anche i possibili fini dell’azione, riabilitando la consapevolezza del proprio ruolo valutativo, orientativo, critico e, non in ultimo, normativo di una ragione filosofica che deliberatamente non ricerca la propria legittimazione a partire dall’analisi empirica o quantitativa.
Tenendo presente questo sfondo complessivo, qui non ulteriormente approfondibile (mi permetto il rinvio a Pirni 2005), e tornando al focus tematico in questa sede presentato, in ciò che segue si cercherà dunque, innanzitutto, di presentare i due principali versanti del dibattito intorno al potenziamento umano (§ 3). Si proporrà quindi un tentativo di “riabilitare” uno dei più dibattuti e classici snodi teorici della “filosofia pratica”, segnatamente il concetto di giustizia elaborato da Aristotele, con particolare riferimento al suo rapporto con il correlativo – ma non immediatamente sinonimico – concetto di equità ed in riferimento al tema del potenziamento – ovvero modificabilità – legittimo della natura umana (§ 4). Proprio il tema della legittimità del potenziamento umano sarà conclusivamente chiamato in causa e articolato in alcune questioni di sfondo difficilmente eludibili (§ 5).
3. I due versanti del dibattito intorno al potenziamento umano
Il tema del potenziamento umano, dello human enhancement costituisce sicuramente una delle più rilevanti novità animatrici del dibattito filosofico-antropologico contemporaneo. Al tempo stesso, esso può essere inquadrato e giunge ad inverare innovativamente una delle più fondamentali e chiaramente costitutive caratteristiche dell’umano: il suo anelito alla riproduzione della natura, alla creazione dell’artificiale; anelito ed esigenza che ha sia accompagnato, sia sollecitato un apparentemente inesauribile sviluppo delle sue capacità tecniche (Negrotti 2000; Totaro 2013, 169-187, 251-265). All’uomo non è bastata la ruota, ma si è dotato di jet intercontinentali per aumentare enormemente le proprie possibilità di spostamento; non è bastato il fuoco, ma è stato in grado di ricavare energia dalla fusione o fissione delle più piccole particelle della materia; non gli è stato sufficiente imparare a triturare e cuocere cereali, ma ha pensato utile provare a modificarli geneticamente, per garantire maggior resa e benefici nutrizionali. Potrebbero certo essere fatti innumerevoli altri esempi di tale natura. Tuttavia, il dato sorprendentemente costante rispetto ad essi, è che possiamo essere certi che il grado di sviluppo che siamo oggi in grado di cogliere ed apprezzare è destinato ad essere superato domani.
È questa un’ulteriore costante che connota inequivocabilmente il nostro essere in quanto uomini; una costante che diremmo essenzialmente duplice: paura dell’inadeguatezza, da un lato, ansia di perfettibilità, dall’altro (Pessina 2016). È forse tale duplicità a trovarsi richiamata di uno tra i dibattiti più virtuosamente interdisciplinari che attraversano lo scenario contemporaneo, che si è soliti raccogliere intorno all’etichetta del potenziamento umano (M. Fimiani, V. Gessa Kurotschka, E. Pulcini 2004; Braidotti 2014; Sisto 2013; Ferrando 2016).
Il principale dato caratterizzate tale dibattito può essere identificato nel fatto che la capacità tecnica tipica dell’uomo, in tutti i campi possibili, viene ora pensata per essere rivolta non al mondo esterno, ma esattamente – e direttamente – all’uomo medesimo. Con l’espressione “potenziamento umano” all’inizio del confronto su questo tema si intendeva sostanzialmente indicare un intervento sull’essere umano pensato «per sviluppare l’aspetto o il funzionamento umano al di là di ciò che è necessario per sostenere e ristabilire la buona salute» (Juengst 1998). In definizioni come questa, provenienti da una matrice bioetica e di fatto tuttora particolarmente influenti, al centro dell’attenzione è collocato in maniera pressoché esclusiva il binomio malattia/salute.
Ma il dibattito, che un suo autorevole esponente quale Erik Parens fa iniziare da una conferenza tenuta nel 1993 presso l’Hasting Center da LeRoy Walters, era destinato a complessificarsi enormemente, e a introdurre via via definizioni differenti del medesimo concetto di human enhancement, che hanno via via implicato il concetto di “normale funzionamento” accanto appunto a quello di “salute”, ma anche quelli di “terapia”, “benessere”, “dignità” e così via.
Una peculiare caratterizzazione del dibattito si è sviluppata lungo la prima decade del XXI secolo, polarizzandosi lungo due versanti sostanzialmente opponentesi e non di rado declinati in senso ideologico, quali quelli dei cosiddetti transumanisti (per un rapido reperimento delle posizioni rispettivamente elaborate cfr. il manifesto dell’Associazione Humanity+, reperibile on line all’indirizzo: http://humanityplus.org) opposti ai cosiddetti bioconservatori (http://www.vanderbilt.edu/olli/files/Beyond-Therapy-Kass.pdf).
Se si volesse identificare almeno un elemento distintivo per ciascuno dei due versanti, si potrebbe sostenere che la riflessione di chi si riconosce nel primo parte dall’assunto in base al quale la forma attuale della specie umana, sotto i profili sia somatici sia cognitivi, costituisce solo una delle fasi del suo sviluppo, mentre si è solo iniziato ad intuire l’universo delle integrazioni possibili tra naturale e artificiale che la fase successiva di tale sviluppo sicuramente implicherà. Per converso, l’altro versante del dibattito si riconosce intorno all’esigenza di indagare il significato e le possibili implicazioni delle trasformazioni celate dietro l’apparentemente neutrale sviluppo tecnologico rivolto direttamente al soggetto umano, facendo perno sui concetti di natura e dignità umana quali limiti invalicabili. Mentre agli esponenti del primo versante viene rimproverato un determinismo implicito (e ingenuo) circa il progressivo a-problematico sviluppo della specie umana, ai secondi si obietta un’eccessiva vaghezza “metafisica” dei concetti di fondo chiamati in causa in difesa di posizioni più prudenti.
Il principale merito di tale dibattito, ancora del tutto aperto, può riconoscersi in una conoscenza più diffusa delle implicazioni sottese all’intera questione, insieme ad una più avvertita consapevolezza delle conseguenze – non più racchiudibili nel contesto medico – di una serie di interventi sul corpo umano che fanno dell’invasività, non reversibilità e crescente integrazione tecnologica le loro cifre distintive. Spia di tale consapevolezza, innanzitutto, è stata ed è il crescente affidamento, da parte di Enti e Istituzioni demandate a elaborare politiche pubbliche, di ricerche volte a meglio mappare i confini di un fenomeno difficilmente arginabile e dagli esiti potenzialmente imprevedibili – al punto che da più parti si è iniziato a parlare di post-umanità, a sottolineare il potenziale, ma anche il pericolo intrinseco a quell’ansia di miglioramento e perfezione applicata direttamente all’uomo. Il più evidente risultato, a valle di una prima importante serie di documenti e lavori provenienti da tali tipologie di ricerche, sono definizioni decisamente “più larghe”, ovvero “più comprensive” delle diverse possibili sfaccettature del fenomeno.
È significativa, ad esempio quella rinvenibile nel lavoro commissionato dal Parlamento Europeo al gruppo di ricerca coordinato da C. Coenen. Con potenziamento umano dovrebbe intendersi «una modificazione volta a migliorare le prestazioni umane individuali e determinata da interventi condotti su base scientifica o tecnologica sul corpo umano» (Coenen et al. 2009). Risulta evidente, da definizioni come questa, la raggiunta consapevolezza della non racchiudibilità della questione dello human enhancement all’interno dei confini malattia/terapia nei quali prima facie sembrava potersi inquadrare. Nel momento in cui entro tale prospettiva definitoria si riconoscono interventi ad alto valore tecnologico che vanno dalla chirurgia estetica alla diagnosi genetica pre-impianto, dai composti potenzianti determinate performances alle protesi bioniche o agli esoscheletri indossabili, sembra essere in questione qualcosa di più della pur importantissima sfera medica: si ha la percezione che ad essere messa in gioco sia l’intera condizione umana, per rievocare la famosa espressione di Arendt in un significato forse non ancora in vista alla filosofa tedesca.
Quando si comprende che il proteiforme impatto delle tecnologie riconducibili a tale definizione va a interessare direttamente, ad esempio, sul sistema delle assicurazioni o quello pensionistico, sulla correttezza e validità delle prestazioni umane in tutti i campi possibili – dallo sport allo studio, dall’incremento della percezione visiva o uditiva a quello delle capacità cognitive o di memoria – sul mondo del lavoro, della scienza, dei consumi, si giunge a dover ammettere una serie di assunti.
Innanzitutto, appaiono decisamente da rigettare ottiche monistiche, di assoluto favore o di assoluta contrarietà nei confronti di tale insieme di modificazioni, di inedita complessità e rapidissimo incremento quali-quantitativo.
In secondo luogo, la comprensione di tali modificazioni che ci stiamo abituando a riconoscere come human enhancement non appare più affidabile alla comprensione di un’unica prospettiva analitica, anzi pare necessitare un approccio compiutamente interdisciplinare (Sieben, A., Sabisch-Fechtelpeter, K., Straub, J. 2012; Grion 2012; Pirni 2013). In terzo luogo, appare impresa particolarmente ardua identificare compiutamente l’oggetto di tale approccio, ovvero distinguere un vero e proprio “insieme” di tecnologie esplicitamente vocate al potenziamento umano, tanto differenti e incomparabili sono le forme in cui esse si concretano, dagli interventi su singoli gruppi di cellule a strutture o protesi biorobotiche, da interazioni neurologiche con computer esterni al singolo soggetto ad apparati di potenziamento sensoriale del tatto o della vista, solo per fare qualche altro esempio.
Un atteggiamento di comprensione teorica più comprensiva è quello che qui si intende porre alla prova, seppure in forma necessariamente preliminare e sintetica. Esso, come sopra anticipato, intende porsi nell’alveo della riabilitazione della filosofia pratica aristotelica. L’esigenza anti-monistica e anti-riduttivistica, insieme alla necessità di apprezzare le condizioni di contesto nel quale tale potenziamento dovrebbe collocarsi e all’istanza di esaminare caso per caso come dotato di propri rischi e opportunità, fanno infatti apparire l’atteggiamento fronetico e l’intera prospettiva della filosofia pratica aristotelica come strumento orientativo potenzialmente utile e di fatto ignorato dall’attuale dibattito rispetto al tema. In ciò che segue si intende quindi avviare un’esplorazione di uno schema per differenti possibili applicazioni a questioni riguardanti la modificazione della natura umana, ovvero il potenziamento umano, specificamente dedicato alle consequenzialità di ordine sociale e di interazione competitiva tra differenti soggetti all’interno di uno stesso contesto e in presenza della necessità di ripartizione di risorse.
4. Human enhancement e giustizia. Una proposta di “riabilitazione” della filosofia pratica aristotelica
4.1 Che cos’è la giustizia? Una definizione preliminare
Per provare ad elaborare tale schema, appare opportuno ritornare di un “classico” riferimento, all’interno di un’ideale “storia del concetto di giustizia”: Aristotele, pensatore che appare invero del tutto negletto dall’attuale dibattito sullo human enhancement – e specificamente al luogo, il V capitolo dell’Etica Nicomachea (da qui in avanti: Et. Nic.), nel quale viene proposta una trattazione destinata a restare paradigmatica di tale concetto.
Com’è noto, Aristotele inizia a considerare la giustizia come una virtù etica. Per un altro, essa è da subito trattata come una virtù molto speciale, ovvero come la «virtù perfetta», in quanto: «chi la possiede può esercitare tale virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cose personali, ma non sono capaci di esercitarla nei rapporti con gli altri. […] La giustizia, sola tra le virtù, è considerata anche “bene degli altri”, perché è diretta agli altri» (Et. Nic. 1129b 25 – 1130a 5).
Dunque il carattere di “perfezione” della giustizia non proviene tanto dal suo essere virtù (ovvero tendenza al bene) della persona che la esercita, piuttosto dal suo costitutivo essere impegno nel cercare il bene degli altri.
Ma, in prima approssimazione, cosa significa “giustizia”? Aristotele propone preliminarmente due significati, uno più ampio: il giusto «è ciò che è conforme alla legge», accanto ad un altro al quale fondamentalmente si dedicherà: il giusto «è ciò che rispetta l’uguaglianza» (Et. Nic., 1128b 34). La preliminare comprensione di ciò che è giusto deriva dall’osservazione del comportamento di un uomo ingiusto che – dice Aristotele – «cerca di avere più degli altri» (Et. Nic., 1129b 5): l’ingiusto cerca di ottenere più di altri «afferrando», ovvero esercitando la ben nota e deprecata pulsione della pleonexia, la prevaricazione (Et. Nic., 1129a 32 – b 2). Egli, in altri termini, cerca di ottenere non attraverso mezzi giusti o espliciti e secondo quanto effettivamente gli occorre, bensì utilizzando forme sleali o vantaggi non dichiarati al fine di ottenere in ogni situazione anche ciò che esorbita la sua necessità materiale.
Nel seguito del Libro, restando all’interno di questo secondo significato, Aristotele distingue tra giustizia distributiva, che riguarda quanto si può ripartire tra i membri della cittadinanza in termini di onori, denaro o incarichi, secondo una graduatoria di merito che interpreta l’uguaglianza nel senso della proporzionalità (chi più fa, più deve avere) rispetto al ruolo (pubblico) occupato da ciascun cittadino, e giustizia commutativa, o correttiva, che riguarda invece l’apportare «correzioni nei rapporti privati» (Et. Nic., 1130b 30-33).
Nel corrispondere a tale esigenza, la giustizia correttiva appare impegnata in maniera precipua ad interpretare il carattere che rende «perfetta» la giustizia come virtù: la sua attenzione al bene degli altri, e non esclusivamente al proprio, ovvero mira esclusivamente al ripristino dell’uguaglianza tra i privati, indipendentemente dal loro ruolo o condizione (Et. Nic., 1131B 32 – 1133a 5). In tale tensione si ritrova la differenza specifica dell’essere della virtù etica: in quanto tale, essa si costituisce innanzitutto come una metriotes, una sorta di medietà tra due estremi, ovvero tra un massimo e un minimo. In questo caso, il giusto correttivo va appunto a correggere, mediando, dis-uguaglianze, ovvero vantaggi o svantaggi, «perdite o guadagni» indebitamente acquisiti o patiti. L’elemento distintivo di tale forma di giustizia è dunque il suo orientamento al recupero, ovvero al rimedio da una situazione di disuguaglianza esistente o da un dis-equilibrio – sorto ad un certo punto e per determinate circostanze – tra un guadagno e una perdita indebiti, ovvero acquisito/patito da qualcuno a scapito di qualcun altro.
4.2. Dalla giustizia all’equità – e ritorno
Ma il discorso sulla giustizia si ramifica e distende con molta accuratezza, nel contesto del V Libro, al di là di quanto sia ora possibile richiamare in causa. Una menzione a parte merita però il concetto di equità, che appare particolarmente fruttuoso in vista dell’elaborazione dello schema dedicato allo human enhancement che si intende proporre alla discussione. L’autore ha preliminarmente a cuore l’inserimento dell’equità all’interno del perimetro concettuale della giustizia, pur precisandone sia un profilo di differenza («se si esaminano attentamente
Ma in che senso si comprenderebbe la superiorità dell’equità sulla giustizia? All’interno dell’argomentazione aristotelica, la fondatezza di un tale duplice assunto si fonda, quasi paradossalmente, su un’aporia. Cosa infatti ci potrebbe essere di superiore alla riabilitazione dell’uguaglianza che innanzitutto la giustizia correttiva sancisce? Detto in altri termini, ricavati dalla metafisica aristotelica: come potrebbe una specie (l’equo) di un genere (il giusto), essere superiore a quello stesso genere e tuttavia rimanerne all’interno? È concettualmente molto elegante la soluzione proposta da Aristotele: «Ciò che produce l’aporia è che l’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale» (Et. Nic.., 1137b 10-13). Quindi l’equo sarebbe superiore ad una porzione certo rilevante ma non esaustiva del giusto.
Ma, si potrebbe ulteriormente chiedere, perché l’equo sarebbe una correzione e in che senso il giusto avrebbe bisogno di essere corretto? La risposta a queste domande Aristotele le trova all’interno della stessa natura della legge.
La legge «è sempre una norma universale». Essa però, per il sopraggiungere di un caso specifico (nuovo o non contemplato in essa), deve poter essere corretta, per il tramite di una sorta di “secondo legislatore”, appunto l’uomo equo, che «corregge l’omissione», ovvero «considera prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente» (Et. Nic., V, 1137b 14-27); cerca di adattarne l’universalità delle disposizioni ai casi che potrebbero non rientrare in essa, o che potrebbero suscitare anche esiti palesemente ingiusti, se non fossero sottoposti ad un tale intervento di equità. È chiaro, in questo contesto, il riferimento a quella che noi chiameremmo “ermeneutica giuridica” e all’auspicata phronesis del giudice.
Ma è proprio qui che si inserisce un’indicazione preziosa per quella che potremmo qualificare in punto di avvio di un’antropologia dell’equità. L’uomo equo, si legge infatti poco oltre, è «chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge» (Et. Nic., 1138a 1-3). L’uomo equo non abusa della posizione di (più o meno esplicita) preminenza per ottenere vantaggi per sé o per i membri della sua comunità ristretta. Al contrario: equo è colui che decide di prendere meno di quello che la legge gli avrebbe permesso o assegnato.
Richiamando lo schema dell’equilibrio tra vantaggio e perdita operante nel contesto della giustizia correttiva, potremmo affermare che l’uomo equo, invece di mettersi dalla parte del vantaggio, preferisce occupare il lato della perdita, al fine di dare più spazio e possibilità non a sé, ma ad una più ampia comunità di possibili altri, nel presente e per il futuro. Egli prende meno per se stesso, al fine di lasciare più per gli altri: questo è forse il migliore e il più profondo senso di giustizia di cui l’uomo equo riesce a farsi interprete con il proprio operare.
5. Il potenziamento è legittimo? Limiti e possibilità da rivedere
Non è purtroppo possibile in questo contesto elaborare compiutamente tutti gli spunti che il Libro V dell’Etica Nicomachea restituisce, forse un poco inaspettatamente, al lettore interessato ad una sua possibile applicazione all’odierna società tecnologica. Per altro, come è noto, quest’ultima, forse un poco inavvertitamente (ovvero del tutto consapevolemente), tende ad amplificare la percezione del vantaggio per il singolo individuo derivante dall’uso di ogni singolo apparato o strumento, in termini di efficienza, risparmio di tempo, prestazioni, ecc. Tuttavia – e in ciò esattamente riproducendo la dinamica della virtù perfetta aristotelica – sopisce fino ad evitare di menzionare il vantaggio che dovrebbe o potrebbe derivare ad ogni possibile “altro” da tale adozione e uso.
Parte esattamente da qui una possibile tassonomia della giustizia e dell’equità di matrice aristotelica, che potrà essere in questa sede solo accennata nella sua struttura di fondo e che si proverà a porre in relazione a forme dello human enhancement ovvero di reale o presunto “potenziamento” della natura umana.
In primo luogo, come si ricorderà, la giustizia consiste nella ricerca non solo del bene dal punto di vista della prima persona, ma anche, e innanzitutto, nel cercare il bene degli altri. Inoltre, poiché l’uomo ingiusto è innanzitutto colui che cerca di ottenere più di altri “afferrando”, vale a dire: utilizzando forme sleali o non dichiarate di vantaggi, sarà solo la giustizia correttiva ad individuare e ristabilire una medietà tra una sorta di guadagno e una sorta di perdita. La sua differenza specifica è infatti il suo orientamento al recupero, al ripristino da una disuguaglianza esistente, o da una disparità, un dis-equilibrio – potremmo dire: innato o che si è generato ad un certo punto – tra un guadagno e una perdita, in tutti i termini nei quali ci sia possibile immaginare entrambi.
Da questo punto di vista, si potrebbe suggerire qui una prima proposta di sviluppo del modello di giustizia correttiva, indirizzandolo in modo esplicito a tutte le esigenze di recupero da situazioni di danni o disabilità, congenite o acquisite a seguito di eventi traumatici, malattie o invecchiamento. In questi casi il potenziamento umano potrebbe essere trattato come una forma di guadagno relativo al recupero da una forma di perdita. Estensivamente, potremmo chiamare le questioni che rientrano all’interno di questo ambito come “questioni di giustizia” per la società del potenziamento umano.
Tali questioni dovrebbero mirare – per quanto possibile oggi, grazie al multiforme apporto tecnologico – a restituire capacità e funzionamenti (Nussbaum – Sen 1993) tipici di una persona adulta “sana” a quella persona che tali capacità e funzionamenti ha perso o non ha mai posseduto.
Partendo da una elaborazione analitica di tutte le questioni pubbliche potenzialmente rientranti in tale prospettiva, potrebbe cogliere il suo punto di avvio un nuovo sistema di politiche pubbliche, volto a considerare l’insieme di innovazioni tecnologiche volte al potenziamento umano come una possibilità di riabilitazione di elevati standard di qualità di vita per ogni cittadino di una comunità. Andrebbe però certo considerato analiticamente ogni contesto in cui ogni possibile innovazione tecnologica potrebbe evocare rivendicazioni di giustizia correttiva nel senso sopra chiarito. Il campo delle applicazioni biomediche di nuova generazione – come i sistemi bionici ibridi, le protesi bio-meccatroniche e le componenti per l’aumento sensoriale e motorio – ma anche l’ambito di frontiera della ricerca biomedica – si pensi solo all’universo delle nanotecnologie o delle interfacce neurali – costituiscono sicuramente aree problematiche che necessitano di specifici lessici e tassonomie di giustizia correttiva.
Ma un’opportuna integrazione di tale provvisorio e parziale schema la offre senz’altro il riferimento all’equità. Come si ricorderà, l’equo è qualcosa di superiore al giusto legale, e costituisce una sorta di correttivo di esso in relazione a casi singoli. Nello specifico, l’uomo equo mirerà sempre a prendere meno vantaggi per sé di quanto la legge gli avrebbe consentito. In questo modo, diremmo, l’uomo equo opera una correzione, individuale e volontaria, a vantaggio di possibili altri.
Riportando tale insieme problematico al contesto dello human enhancement, in prima approssimazione si potrebbe stabilire il criterio in base al quale il potenziamento della stessa sfera di capacità umane e funzionamenti sopra la linea di ciò che è “normalmente” attribuito ad una persona adulta “sana” è considerato come forma di vantaggio che deve essere compensato con una corrispondente forma di perdita o di “restituzione” delle conseguenze positive di tali vantaggi alla sua comunità di riferimento.
Tale criterio non può evitare alcuni confini chiari: va innanzitutto preservato il massimo spazio per la libera autodeterminazione dell’individuo, laddove il potenziamento richiesto non violi leggi già vigenti (Palmerini – Stradella 2013). Tuttavia, se tale determinazione ha direttamente o indirettamente un impatto sugli altri, producendo situazioni di indesiderato e patito svantaggio, dobbiamo avere la possibilità sia teorica, sia politico-giuridica, di arrestare tale autodeterminazione e valutarne i possibili effetti sotto la lente dell’equità nel senso appena richiamato. In maniera speculare alla prima, potrebbe avviarsi da qui una ipotetica lista di “questioni di equità” per la società del potenziamento umano.
L’obiettivo di fondo di tali questioni dovrebbe essere l’elaborazione di un criterio del vantaggio legittimo: non tutto ciò che può essere fatto deve anche essere realizzato (si veda ad esempio l’uso volontario e consapevole di doping da parte di un atleta, ma anche un possibile impianto neurale che enfatizzi inopinatamente le mie capacità cognitive o di memoria). L’assecondare acriticamente le possibilità di implementazione del nostro corpo e cervello messe a disposizione dall’avanzare della tecnologia può aprire la porta a distorsione anche rilevanti della coesione sociale e della libera concorrenza tra individui all’interno di una comunità. Il rischio di un danno di difficile valutazione diacronica pare essere evidente: un vantaggio individuale potrebbe diventare una perdita sociale e un indebito miglioramento umano potrebbe innescare catene di iniquità di difficile compensazione.
Volendo provare a riassumere i profili di tale tassonomia, si potrebbe affermare che, mentre una teoria della giustizia (in termini di giustizia correttiva) adeguata alle sfide dello human enhancement dovrebbe aver di mira la protezione legittima del recupero da una perdita o un danno, una parallela teoria dell’equità dovrebbe porsi come obiettivo la tutela del miglioramento legittimo.
In questo senso, per altro, la domanda dalla quale si è preso avvio, relativa alla staticità o modificabilità della natura umana riceve una nuova angolazione attraverso la quale essere indagata. Se la natura umana – pare ormai potersi sostenere – sembra non potersi distanziare da un profilo di modificabilità, quanto si è fino a qui provato a indicare apre il terreno di una valutabilità aperta di ogni possibile modificazione, innanzitutto determinandone l’ascrizione alla categoria della restituzione da uno svantaggio congenito o insorto, ovvero la alternativa iscrizione a quella del vantaggio rispetto alla dotazione genetica (ovvero, solo per usare due grandi approssimazioni: fisica e mentale) ricevuta alla nascita – e decretandone la potenziale o già effettiva legittimità o meno.
Ovviamente tale articolazione appare ancora del tutto preliminare e bisognosa di integrazioni. Tuttavia essa non può, già a questo livello, evitare l’emersione di una serie di domande e obiezioni.
Rispetto al versante della giustizia correttiva, mentre appare piuttosto evidente identificare il punto mediano, ovvero la metriotes tra “normalità” e “disabilità” a livello fisico (ad esempio nel caso di una mutilazione o evidente limitazione di qualche arto), potrebbe risultare molto più complesso fare altrettanto nel caso di un danno cognitivo o psichico rispetto all’attribuzione dello status di “sanità”.
Per converso, rispetto a quello dell’equità, potrebbe apparire di evidente sostenibilità etica e condivisione più largamente sociale il “dovere pubblico” di interrompere le forme di distorsione e miglioramenti “egoistici”. Tuttavia, le questioni sollevate a tale proposito sono “giuridificabili”, ovvero in grado di avviare una produzione legislativa legittima all’interno di un quadro giuridico democratico? Ogni singola possibilità andrebbe verificata con grande attenzione, da questo punto di vista.
Ancora, sotto un profilo etico-giuridico più generale, sarebbe da chiedersi se e in che misura l’attuale normativa relativa alla privacy, alla responsabilità e al consenso informato possa dirsi sufficiente, rispetto ad effetti di lungo periodo di apparati che spesso risultano disponibili anche se al di fuori degli ordinari standard di affidabilità a lungo termine o rispetto ad una loro diffusione sistemica. In termini più espliciti, dovrebbe essere tematizzata la questione circa il rischio di non reversibilità, insieme a quella relativa alla definizione della durata e degli scopi legittimi di tali “potenziamenti”. Quando questi ultimi, solo per fare alcuni esempi, vanno dalla prospettazione di design del patrimonio genetico da trasmettere alla generazione successiva al tentativo di rallentare o arrestare l’invecchiamento, fino a prospettare combinazioni di “sopravvivenza” inedite e indefinite dell’umano in simbiosi con macchine, il rischio di mancato controllo o controllabilità, insieme alla non condivisa previsione degli esiti sistemici andrebbero valutati con un’attenzione ad oggi non ancora compiutamente tematizzata.
In ultimo ma non da ultimo, si ritiene che andrebbe compreso il grado di esclusività ovvero di inclusività di tali procedure, al fine di evitare o se non altro contemplare ex ante nuove e più o meno esplicite forme di “divide”, più sottili, diffusive e specifiche dell’ormai noto “digital divide”. Si allude qui al radicalizzarsi di differenze incolmabili tra chi può e chi non può permettersi potenziamenti tecnologici di frontiera, che già nel medio termine rischiano di rendere non più assorbibili le differenze tra “chi può” e “chi non potrà mai”, fino a portare ad un orizzonte neppure troppo futuribile la possibilità di un’umanità di “serie A” e una, o magari altre, di serie “inferiori” (Pirni – Lucivero 2013).
Quanto qui presentato, mentre da un lato sembra suggerire una linea di inquadramento di matrice aristotelica di questioni di giustizia ed equità per la società tecnologica forse promettente, dall’altro richiede di non trascurare ambiti problematici, come quelli ora solo succintamente presentati che, nel riflettere l’oggettiva difficoltà delle questioni riguardanti lo human enhancement, ne rendono ancora più concreta l’urgenza di risposta.
L’ansia di auto-superamento, costante cifra costitutiva dell’umano, si trova oggi a lambire possibilità – per quanto forse preconizzate – mai raggiunte in alcuna altra epoca. Il trovarsi di fronte un campo di inedite possibilità non significa però, per una riflessione all’altezza dell’epoca tecnologica nella quale si trova ad operare, semplicemente assentire, ovvero evitare di problematizzare quel campo ed ognuna di quelle specifiche possibilità con la massima accuratezza di cui può disporre. Qui il “poter fare” tipico della ricerca scientifica e tecnologica deve trovare rinnovate ragioni di collegamento al “volere indirizzare”, al “potere vietare” o al “dovere correggere” che caratterizza l’etica pubblica nel suo senso complessivo, e che forse riceve proprio dall’approfondimento del solco tracciato dalla “riabilitazione della filosofia pratica” rinnovati cespiti di riflessione da applicare ad emergenze problematiche inedite all’epoca del suo affermarsi.
Se siamo ormai necessitati a prendere congedo dall’immodificabilità della natura umana, non per questo una costante valutazione critica delle modificazioni o potenziamenti possibili di tale natura non deve del pari e costantemente “potenziarsi”, ovvero affinarsi e procedere parallelamente all’evolversi del quadro delle modificabilità possibili. Si tratta di un compito certo infinito, ma al quale, “naturalmente”, non è possibile sottrarsi.
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