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Il governo politico della crisi

FABRIZIO BRACCO
Articolo pubblicato nella sezione: Il "vissuto" della crisi - Analisi.

Intendo proporre, in queste pagine, alcune considerazioni sulla necessità di un governo della crisi che utilizzi gli strumenti e gli attori della politica, avendo sullo sfondo i nodi problematici rimasti irrisolti nel corso dell’ultimo ventennio dal pensiero politico democratico intorno al rapporto tra democrazia e tecnocrazia, democrazia e globalizzazione. Nodi su cui la ricerca contemporanea deve riuscire a dare risposte adeguate. Il nucleo fondamentale della mia riflessione verte, anche per uscire più rapidamente dalla crisi, su un recupero di centralità della politica, intesa come esercizio di governo democratico delle dinamiche sociali ed economiche, orientato al perseguimento del bene comune. Tre, a mio avviso, sono i temi sui quali riflettere: riforme istituzionali e rilettura del regionalismo italiano; ruolo delle élites; riforma dei partiti politici come premessa alla riforma della politica.
Immagino l’obiezione di molti: perché tirare in ballo il regionalismo italiano, i partiti politici e il ruolo delle classi dirigenti in uno scritto dedicato alla crisi economica? Perché l’Italia non ce la farà ad uscire dalla crisi se non coglieremo l’occasione proprio della crisi per sciogliere una volta per tutte quei nodi della nostra Repubblica irrisolti da decenni: di assetto istituzionale, di rappresentanza democratica, di autentica riforma dei partiti politici, di nuovo protagonismo delle élites intellettuali, sociali ed economiche, nazionali e locali.


L’uscita dalla crisi necessita di un governo politico e non di una soluzione tecnocratica

Una premessa innanzitutto. La grande depressione degli ultimi cinque anni – ormai è evidente come i paralleli con il '29 non siano poi così fuorvianti – richiede un profondo ripensamento delle rassicuranti certezze degli allievi di Milton Friedman e della scuola di Chicago. Se le scelte dei consumatori sono comunque razionali ed i mercati necessariamente funzionano non mi spiego, allora, come non si riesca ad uscire dalla crisi. E non prevedendosi all’orizzonte – per fortuna – altre economie di guerra, dovremmo tutti interrogarci sul come utilizzare al meglio gli errori del passato per non ripercorrere le stesse strade. Scrive Paul Krugman: «ma le recessioni non sono forse dei periodi in cui non c’è una domanda sufficiente per occupare tutti coloro che sono disposti a lavorare? Le apparenze possono ingannare, dicono gli economisti di acqua dolce [gli allievi delle suddette scuole di pensiero economico]. Secondo loro, in un sistema economico efficiente la domanda complessiva non può crollare. E quindi, semplicemente, non crolla (Krugman 2012, p. 120)». Eppure la recessione si è verificata lo stesso. La sensazione è che economisti, giuslavoristi e una parte consistente del mondo accademico e dell’alta burocrazia si siano avvicinati alla crisi con un approccio ideologico, mentre, a mio avviso, un’analisi più realistica delle cause della recessione avrebbe consentito di elaborare strumenti più efficaci, consegnandoci almeno la speranza di un’uscita prossima da questi anni bui.
Nella peculiare situazione italiana – appesantita dalle scelte compiute nei nove anni dei governi di centro-destra (2001-2006 e 2008-2011) – è stato quasi inevitabile che il dibattito politico si spostasse rapidamente dall’assenza di crescita e dalla crescente disoccupazione al debito e al deficit statale. Con la nascita del governo dei tecnici nel 2011, poi, i moniti sinistri sul pericolo del disavanzo eccessivo hanno soppiantato qualunque riflessione sulla necessità di una ripresa della domanda interna e dell’occupazione.
La mia idea è che le tesi tecnocratico-moralistiche dei tecnici al governo (in buona parte alti dirigenti ministeriali corresponsabili di quelle scelte di politica economica e fiscale ora da essi stessi definite irresponsabili) hanno sortito tre conseguenze nefaste sul dibattito pubblico sulla crisi. Hanno alimentato quella che Krugman definisce la «grande illusione» europea, ovvero che per uscire dalla recessione fosse sufficiente intervenire sui deficit eccessivi (Krugman 2012, pp. 200 e ss.). Hanno impedito qualunque riflessione sui limiti strutturali e sulle difficoltà concrete della società italiana. E, infine, hanno costretto nell’angusta cornice della necessità dell’equilibrio finanziario questioni – penso all’architettura istituzionale dello Stato, al valore costituzionale delle autonomie, alle politiche fiscali, industriali e del lavoro − che meriterebbero ben altre analisi e strumentazioni.


Il regionalismo come soluzione di uscita dalla crisi e non come problema di natura finanziaria per lo Stato unitario

Emblematica, per ciò che si diceva, la considerazione riservata dal governo dei tecnici alla questione regionalista, che per il ruolo che ricopro mi tocca da vicino. I processi di riforma avviati con le Bassanini, e proseguiti con le revisioni costituzionali fino al Titolo V, hanno portato alla nascita dello Stato regionalista. E non è un caso che, nello stesso periodo, lo stesso processo abbia interessato tutti i Paesi europei, compresi quelli più tradizionalmente unitaristi come la Gran Bretagna, che nel 1997 ha avviato con successo il secondo processo di Devolution, e la Francia, che nel 2003 ha realizzato una compiuta costituzionalizzazione della Regione (auspicata già agli inizi degli anni ‘60 e avviata sotto la presidenza Mitterand). E anche Paesi europei di tradizione federale e autonomistica come la Germania e la Spagna conoscono, nello stesso arco di tempo, processi di revisione costituzionale e di riorganizzazione del loro decentramento interno.
In Italia, tuttavia, dal 2008, e soprattutto dopo il cambio di governo nel novembre del 2011, tutta la legislazione dell’emergenza appare caratterizzata da un particolare imprinting, cioè dall’idea che le Regioni e le autonomie locali siano diventate un problema di politica fiscale e di bilancio, e come tali da ridurre al minimo. Le misure anticrisi, adottate a partire dalla Legge finanziaria 2008, possono infatti interpretarsi in due modi: come disposizioni che agiscono direttamente sull’assetto istituzionale delle Regioni e delle autonomie locali; oppure come disposizioni che impongono tagli (spesso con una logica lineare) alla spesa pubblica, ai finanziamenti alle Regioni e alle autonomie locali, a prescindere da una visione strategica di natura economico-finanziaria (Mangiameli 2012).
Le misure di tipo istituzionale, in questo contesto, vengono assunte non per ubbidire ad un riordino dei livelli di governo, ma in vista di effetti di tipo finanziario, in questo modo subordinando gli aspetti costituzionali dell’autonomia alle necessità contingenti, assunte come permanenti. Infatti, il dato che emerge dalla normativa dell’emergenza è che dalla crisi sembra non potersi uscire, almeno nel medio periodo, per cui non resta che effettuare una politica di bilancio estremamente rigorosa, soprattutto verso le Regioni e le autonomie locali, anche a discapito di principi costituzionali come l’autonomia e la democrazia, e diritti sociali la cui tutela è costituzionalmente prevista, come istruzione e salute.
Prendiamo il caso della spesa per il sociale. Come è noto, tra gli obiettivi della strategia Europa 2020, in tema di sviluppo sociale, troviamo l’uscita dalla condizione di povertà per 22 milioni di persone. All’Italia è stato assegnato l’obiettivo di ridurre di 2,2 milioni di persone l’area dell’esclusione sociale, attraverso misure che vanno dal rafforzamento del mercato del lavoro, a misure a sostegno del reddito, al sostegno specifico per gruppi a rischio (giovani, famiglie con bambini, disabili, anziani), etc. Un indicatore di sintesi per effettuare confronti a livello europeo è l’incidenza sul PIL della spesa sociale. Nel 2009 (con la crisi che non aveva ancora dispiegato tutti i suoi effetti) per l’Italia tale indicatore è pari al 29,82% del PIL, poco al disopra della media UE (29,51%) ma nettamente inferiore a quello dei paesi del Nord Europa (Danimarca 33,44%) o a quello di Paesi a noi più direttamente comparabili come la Francia (33,06%) o la Germania (31,38%). Se poi consideriamo indicatori più specifici il dato italiano è anche peggiore della media UE: vedi l’incidenza sul PIL della spesa per contrastare la disoccupazione (0,8% dell’Italia contro 1,72% della media UE) oppure l’incidenza della spesa per alloggi sociali (0,02% contro lo 0,57%) (Grasselli-Galluzzo 2012, p. 444). Non è affatto vero, quindi – come giustamente osserva in un recente pamphlet Federico Rampini – che il nostro stato sociale costa troppo e quindi non potremmo più permettercelo (Rampini 2012).
È di poche settimane fa la pubblicazione dell’annuale rapporto dell’OCSE sull’istruzione, Education at a glance 2013, in cui si legge che «l’Italia è l’unico Paese dell’OCSE che dal 1995 non ha aumentato la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria. Al contrario, nello stesso periodo, i Paesi dell’OCSE hanno aumentato in media del 62% la spesa per studente negli stessi livelli di istruzione» (OCSE 2013). Anche la spesa per l’istruzione universitaria, in Italia, mostra un gap negativo del 30% rispetto alla media dei Paesi OCSE. Su istruzione, università, formazione e ricerca, in altre parole, si è intervenuti con tagli di spesa di natura congiunturale. Mentre sarebbe necessario, per non annullare le speranze di uscita dalla crisi, incrementare il finanziamento di tali settori con misure di tipo strutturale.
La verità è che i nostri sistemi d’istruzione e di protezione sociale sono sottofinanziati e producono risultati poco efficaci. Sempre l’OCSE ci dice che i quindicenni italiani, nei test PISA, raggiungono delle performance in termini di apprendimento di competenze in literacy e matematica ben al di sotto della media dei loro coetanei OCSE e molto lontana da quelli dei Paesi europei a noi comparabili. Dati Eurostat dimostrano che il grado di efficacia delle politiche pubbliche italiane di contrasto alla povertà (misurato attraverso il raffronto tra i tassi di rischio di povertà prima e dopo i trasferimenti statali connessi a tali politiche) è insoddisfacente. «La spesa sociale specificamente destinata al contrasto della povertà in Italia produce effetti sul rischio di povertà tra i più bassi in Europa (Grasselli-Galluzzo 2012, p. 451)». È la qualità delle politiche pubbliche, prima ancora del loro costo, a dover essere discussa.
Risparmi e riforme sono possibili se basate su un’idea di Paese, su una chiara visione strategica del suo sviluppo. Per lo stato sociale, l’istruzione e la ricerca, invece, dobbiamo fare le stesse considerazioni fatte a proposito del regionalismo e dell’architettura istituzionale dello Stato: le misure adottate dai governi dell’emergenza obbediscono esclusivamente a logiche di contenimento di spesa pubblica, a discapito di una seria analisi dei bisogni del Paese, delle sue prospettive e dell’efficacia degli interventi, necessaria per rispondere ai bisogni reali dei cittadini.
Su questa impostazione, inoltre, andrebbero fatte almeno quattro considerazioni. Andrebbe, innanzitutto, commisurata, sul piano dei costi, ai problemi che pone la stessa amministrazione statale. Problemi non affrontati nel decennio successivo alla revisione del Titolo V, con il risultato che la spesa statale non è affatto diminuita con il trasferimento di funzioni alle Regioni e agli enti locali. Secondo, la spesa pubblica locale andrebbe considerata non solo come dissipazione di denaro pubblico, ma in relazione alle politiche pubbliche da essa generate in grado di attivare investimenti e garantire condizioni di vita accettabili per tutti i cittadini. Terzo, la menomazione della democrazia locale e regionale e i tagli lineari attenuano la capacità di funzionamento degli enti locali e delle Regioni, e deresponsabilizzano la classe politica locale che di fronte alla mancanza di risorse finiranno col non erogare più servizi ai cittadini. Quarto, lo svuotamento di tutti i fondi di perequazione non pone più il problema allo Stato centrale di assolvere quello che dovrebbe essere il suo compito fondamentale in un sistema regionalista, ovvero la perequazione territoriale, determinando – lo testimoniano le statistiche della crisi − l’acuirsi del divario tra le Regioni del Nord e del Sud del Paese.
Le vicende del regionalismo italiano, con il passaggio dal primo regionalismo al federalismo a Costituzione invariata e alla revisione del Titolo V, hanno evidenziato come le Regioni, nate dal pensiero delle forze democratiche presenti in Assemblea Costituente − che ipotizzavano la costruzione di comunità incentrate sulla prossimità e sulla sussidiarietà, valorizzando i principi di autonomia, autogoverno, libertà e democrazia − non sia stato mai accettato fino in fondo né da alcune forze politiche, di destra e di sinistra, né dall’alta burocrazia statale, né da alcune categorie sociali forti nel paese. Di qui le reazioni dell’amministrazione statale e dei poteri centrali che hanno fatto dell’interesse nazionale e, per un certo periodo, anche dello Stato sociale e della questione meridionale i loro punti di forza per non attuare il Titolo V prima, e per disattenderlo dopo.
C’è da dire, tuttavia, che la contestazione sui costi e sull’utilità delle Regioni, fatta propria da una larga fetta dell’opinione pubblica, è tale anche per responsabilità di alcuni consiglieri e alcuni governi regionali, protagonisti, in varie realtà del paese, del lievitare dei costi di funzionamento della politica. Un tema, quello dei costi delle Regioni, che continua tuttavia ad offuscare il tema dei costi dello Stato, in relazione soprattutto alla resa di servizi alla collettività. Nei fatti, nonostante le Regioni abbiano ridotto del 25% i costi della democrazia locale (ovvero il numero dei membri delle assemblee regionali e i loro compensi), la costante attenzione sull’autonomia costituzionale di Regioni ed enti locali ha consentito di evitare la riforma del Parlamento con il taglio del numero dei Parlamentari, il ripensamento del bicameralismo perfetto (riforma attesa dal 1970), la riforma della giustizia (in particolare quella civile), dell’amministrazione centrale e periferica dello Stato e delle numerose agenzie pubbliche. Senza considerare che proprio queste strutture della Repubblica determinano una negativa immagine del Paese, anche a livello internazionale, comportando una mancanza di attrazione per gli investitori esteri.
Il confronto della spesa tra le amministrazioni centrali e quelle locali è significativo. Il federalismo a costituzione invariata e la riforma del Titolo V hanno oggettivamente comportato un incremento del personale occupato nelle pubbliche amministrazioni delle Regioni e della spesa regionale, passata dal 1990 al 2009 (e cioè: prima dell’effetto delle prime misure anticrisi) da 63,9 a 171,9 miliardi di euro, con un incremento sul totale della spesa delle pubbliche amministrazioni di un 5% (dal 17% al 22%). Entrambi questi due aspetti sono chiaramente legati al travaso delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni.
Ciò che sorprende, per contro, è che nel contempo la spesa pubblica statale non è diminuita e che il numero dei dipendenti statali, se si considerano anche quelli a tempo determinato, è rimasto invariato. Per contro, dall’esame della spesa delle pubbliche amministrazioni si evidenzia che la distribuzione tra il centro (lo Stato) e la periferia (le Regioni e gli enti locali) tra il 1990 e il 2009 è passata dal 61% al 52%, per il centro e dal 39% al 48%, per la periferia.
L’analisi degli andamenti dei flussi del personale e della spesa, perciò, mostra una certa regionalizzazione del sistema italiano, ma a questo non ha corrisposto una effettiva trasformazione dello Stato: gli apparati centrali continuano a costare ancora il 30% del PIL, con una diminuzione sensibile della finanza finale, che genera beni e servizi per i cittadini, e una crescita della finanza strumentale, che costituisce sostanzialmente la spesa per il personale.
La considerazione istituzionale più semplice che deriva dall’osservazione di questi dati è che, dal punto di vista organizzativo, sussiste nel nostro sistema dei poteri pubblici un overlapping sulle materie regionali. Il Parlamento e il governo, perseguendo una linea di ricentralizzazione della legislazione e delle funzioni amministrative, non si sono accorti che hanno generato un enorme gap di funzionamento nella Repubblica. Nella stessa direzione si sono posti anche il mancato adeguamento dei raccordi istituzionali tra centro e periferia (vedi la riforma costituzionale del Parlamento e la creazione del Senato delle Regioni e delle autonomie) e la scarsa trasparenza nella formulazione del federalismo fiscale. Si tratta di scelte – o non scelte − compiute dal Parlamento e dal Governo, che hanno ostacolato la realizzazione di un regionalismo più efficace e responsabile.
E comunque, accanto alla ridefinizione del ruolo dello Stato centrale e al rilancio delle Regioni e del sistema delle autonomie locali, come condizione per favorire l’uscita dalla crisi si pone il problema dell’Europa. Com’è noto, molti attribuiscono le nostre difficoltà di uscita dalla crisi alla debolezza dell’Europa e alla crescente egemonia tedesca. Ma non è così. In questi anni abbiamo perso di vista che la risoluzione dei problemi internazionali ed europei dell’Italia passa necessariamente attraverso il rilancio ed il rafforzamento dell’identità e della sovranità politica europea. Solo un migliore bilanciamento tra gli interessi economico-monetari e quelli politico-sociali dell’Unione (ovvero la sua unità politica, prima che monetaria) potrà creare quella dimensione continentale della cittadinanza a cui i nostri padri hanno creduto. Dalla crisi, in altre parole, si esce con più Europa, non con meno Europa.
Ritenere, al contrario, che tutto passi per un duro – quando non drammatico − processo di ristrutturazione interna dello Stato, significa pensare al regionalismo come ad un problema anziché una soluzione per la ripresa economica. E, soprattutto, continuano a rimanere impregiudicati i limiti che caratterizzano da 150 anni la questione nazionale.
La mia idea non è ovviamente un rilancio del regionalismo sul piano ideologico, come pure era accaduto ani addietro, quando si è assistito – in piena crisi economica – all’apertura di inutili sedi ministeriali nel territorio di alcune regioni, ma l’accoglimento di un regionalismo efficace come principio organizzativo dello Stato.
La risposta alla crisi globale potrebbe partire bene da questo sistema e risultare più condivisa e più efficace rispetto ad una politica di semplici tagli come quella attuale; anche in considerazione della circostanza che non possono essere in discussione solo misure di riduzione della spesa pubblica che deprimono l’economia nazionale, ma dovrebbe essere affrontata anche la realizzazione di politiche pubbliche di crescita con risorse meglio allocate (lavori pubblici, stato sociale, ricerca, istruzione, formazione, etc.).
Le disposizioni istituzionali sin qui adottate, a prescindere dai dubbi di costituzionalità, devastano il sistema di governo territoriale paralizzando le attività delle Regioni e delle autonomie locali, e corrono il rischio – come sta accadendo – di risultare inutili dal punto di vista del contenimento della spesa, per la loro inadeguatezza istituzionale e finanziaria.


Il ruolo delle élites per la ripresa

La democrazia vive a partire da un forte senso civico e di appartenenza dei cittadini, dal loro impegno e dal loro prendersi cura insieme dei beni pubblici. Per questo la ripresa, oltre ad un nuovo ordinamento statuale, richiederà una nuova tensione etica e civile, una riforma morale e intellettuale a cui far concorrere le migliori energie del paese. Un tema che nella lunga tradizione della pubblicistica italiana nasconde quello più delicato e controverso del ruolo delle élites nella nostra storia.
Se la proposta tecnocratica lascia largamente insoddisfatti, infatti, è anche vero che essa nasce da una complessiva crisi delle élites politiche, sociali ed economiche, incapaci di farsi carico delle difficoltà del paese. Una sorta di apatia collettiva che, tra latente conservatorismo e inadeguatezza culturale, ha lasciato spazio agli unici in grado, quanto meno, di vantare una conoscenza dei problemi sul tappeto, ovvero l’alta burocrazia.
Un tema, quello dell’ignavia – e quindi della mancanza di impegno politico − delle élites nostrane, che pare un tratto distintivo della storia italiana. Già Leopardi, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824), individua nell’apatia e nella noia i tratti distintivi delle classi «non laboriose e non bisognose». Apatia e noia che nascono dal cinismo, cioè dal rifiuto della dimensione moderna della «società stretta», dei suoi doveri, dei suoi sforzi, dei suoi progressi, della sua energia. «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni» secondo Leopardi, e si distinguono per mancanza d’immaginazione e capacità di progettare il proprio futuro, il che rende l’Italia priva di costumi e di uno stile sociale, politico, culturale condiviso (Leopardi-Cordero 2011).
È pur vero che in fasi eccezionali della storia italiana – l’Unità d’Italia, la modernizzazione del primo Novecento e la ricostruzione del secondo dopoguerra – le élites nazionali e locali hanno dimostrato di saper uscire dall’impotenza dettata da egoismi particolaristici e privilegi. Ma, in genere, al di fuori di queste grandi cesure storiche in cui si sono riappropriate del loro ruolo, la storia del nostro Paese non ha visto le élites farsi promotrici di una reale modernizzazione del paese. Si tratta, in sostanza, di élites che non hanno rinunciato al comando, ma al ruolo politico di tracciare una direzione di progresso per il paese. Così, per tali élites, il vero sforzo diventa non «fare l’Italia», ma conservare se stesse attraverso l’unità d’Italia. È l’apoliticismo il grande male delle vecchie e nuove élites italiane. Un apoliticismo che, per le nuove élites, si declina nelle forme di un’estraneità quando non addirittura di un’ostentata opzione anti-politica.
Quello della apoliticità delle élites – secondo un recente libro di Carlo Galli − è un tema ricorrente nella letteratura e nella pubblicistica a cavallo tra i due secoli, almeno fino all’avvento del fascismo. È con l’affermarsi dell’eversione fascista che le voci di pochi e isolati intellettuali si levano a declinare un nuovo ruolo per le élites italiane. Piero Gobetti per primo teorizza nella responsabilità contro il compiacimento al nascente regime la nuova missione delle classi dirigenti nazionali. La visione di Gobetti è una «concezione etica della politica e una concezione politica della cultura (Galli 2012, p. 38)». Il dovere della politica sta nel coltivare lo spazio del conflitto – delle idee e dei contenuti – e non nell’unanimismo. E quello dell’intellettuale sta nel saper essere non-conformista. Al contrario, secondo Gobetti, «le classi medie intellettuali hanno dato esempio di inconsistenza e di mediocre fronda fiancheggiatrice» (Gobetti 1995, p. 31).
Che nel nostro paese quello delle élites sia un nodo irrisolto lo dimostra anche il fatto che uno dei non molti contributi italiani al pensiero politico internazionale consiste, appunto, nella «scoperta scientifica della teoria delle élites». Gramsci, in particolare, cala la sua teoria delle élites all’interno delle condizioni storiche e sociali da cui sorgono le élites stesse, per capire come il loro obiettivo non sia l’esercizio del potere autoconservativo – come pensavano gli elitisti conservatori Mosca e Pareto – ma l’egemonia, intesa come indicazione di una linea di sviluppo storico collettivo. Gramsci fa derivare da Machiavelli la scoperta che «esistono davvero governanti e governati, dirigenti e diretti (Gramsci 1967, p. 14)» all’interno della struttura necessaria della politica. Così Gramsci interpreta la storia d’Italia, lamentando il secolare distacco tra intellettuali e popolo. Le élites risorgimentali, secondo Gramsci, hanno fatto solo il minimo necessario, ovvero la costruzione dello Stato unitario, senza nulla più osare. I piemontesi, per supplire alla debolezza delle élites sociali ed economiche italiane, hanno creato una sorta di centralismo burocratico, consegnando la neonata nazione nelle mani di élites di burocrati.
Anche Gaetano Salvemini, ora in chiave pluralistica e democratica, vede nelle élites il compito di formare una nuova aristocrazia a base popolare, questa volta attraverso la scuola pubblica. E non è un caso che l’art. 34 della Costituzione repubblicana preveda che «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi» − sarebbe interessante, a questo proposito, verificare se e in quale misura la scuola pubblica italiana riesca a svolgere tale missione di ascensore sociale, che non significa limitarsi a produrre un innalzamento dei livelli di istruzione (per la nostra regione, si veda Orlandi 2012, pp. 212-262). Intellettuali liberali, conservatori, socialisti e democratici, dunque, hanno ben chiara la necessità non solo di una permanente circolazione delle élites in termini competitivi e paretiani, ma anche di un continuo ricambio al loro interno con elementi provenienti dall’esterno, magari dai ceti popolari.
Robert Dahl, in particolare, ha avanzato la tesi che la democrazia contemporanea sia, in realtà, una poliarchia (Dahl 1989), cioè un insieme di nuclei di potere, di élites sociali, che concorrenzialmente perseguono il proprio interesse, e apertamente – purché siano in grado di legittimarsi attraverso logiche universali, cioè di superare rigorosi test di democraticità – si candidano a dirigere la vita pubblica. Nella società moderna politici, imprenditori, professionisti, giornalisti, scienziati, intellettuali, burocrati, artisti, perseguono – con alleanze e conflitti – il medesimo fine: esercitare influenza o potere nella società, presentando i propri interessi come prioritari alla definizione degli interessi generali del paese. La democrazia contemporanea consiste, appunto in questo continuo confrontarsi, collidere, allearsi di diverse proposte egemoniche, necessariamente parziali, ma impegnate a giustificarsi come le più utili alla comunità in una determinata fase storica. Si tratta del «gioco democratico», che può essere falsato se le élites fanno cartello e non competizione, se rifiutano di cooptare forze nuove ingenerando una sorta di pensiero unico, se optano per limitare la propria azione all’interno di precondizionamenti strutturali o di decisioni già prese da altri (magari da parte di organismi sovranazionali).
I membri delle élites, inoltre, per legittimare le proprie pretese egemoniche, devono sottostare ad una seconda condizione. Ortega Y Gasset (La ribellione delle masse, 1929) elabora la coppia concettuale «esemplarità/docilità», intendendo che le masse seguono le élites a condizione che queste abbiano la capacità di porsi come modelli civili e culturali. Guidare una comunità significa elaborare un discorso pubblico, una cultura politica, affrontare critiche e proposte alternative. Sta qui la dimensione morale della politica. Immorale, per contro, è l’élites incolta, che non fa corrispondere al privilegio di guidare una collettività una reale capacità a farlo.
Le élites italiane degli ultimi decenni si sono macchiate di tale dimensione immorale: hanno ceduto lo spazio politico loro spettante ad un Capo – Berlusconi – in modo che esse potessero occuparsi solo dei propri affari, abdicando così al compito di dirigere responsabilmente il paese. La conseguenza è stata una progressiva riduzione del potere e dell’influenza delle élites tradizionali, in particolare di quelle – insegnanti e accademici, alti burocrati, intellettuali e giornalisti – che si rapportano alla sfera politica in una dimensione dialettica viva e feconda. Berlusconi ha rappresentato, nei fatti, il tentativo di una reductio ad unum della dimensione poliarchica della democrazia moderna. E non è un caso che la tecnocrazia abbia finito col rappresentare, per una certa fase, l’alternativa più radicale allo straripare della volontà egemonica del Capo.
Le élites sociali ed economiche, attraverso Berlusconi, hanno perseguito il tentativo – visto a più riprese nella storia italiana – di «imboscarsi come élites, di negarsi come portatrici di uno specifico ethos, e di affermarsi soltanto come gruppi di potere economico-affaristico» (Galli 2012, p. 107). Anche se i parlamentari berlusconiani sono in buona misura professionisti e imprenditori, infatti, questo non ha significato un ritorno delle élites economiche alla direzione politica. Questa è lasciata al Capo, nella cui persona si concentra tutta la legittimità democratica (è l’unico ad aver vinto le elezioni).
Se le élites si ritirano dalla politica è perché si sentono superiori ad essa. E se lasciano lo spazio della politica a Berlusconi è perché questi – pur non essendo una loro diretta espressione – è pur sempre il garante di un nuovo ordine fondato sull’idea che la politica è un’attività inutile o dannosa, e deve essere subalterna all’agire economico. Nel ventennio berlusconiano, in altre parole, abbiamo assistito ad una sorta di rivolta delle élites alle proprie responsabilità di direzione del paese.
Il cinismo, il particolarismo e l’apoliticismo hanno favorito la mutazione genetica del dibattito pubblico nostrano, del senso del dovere civile, contribuendo a dipingere i chiamati alla guida delle istituzioni democratiche come una «casta» che al privilegio del ruolo non ha inteso far corrispondere le relative responsabilità di direzione competente della comunità. È a questo punto che si è inserita la vera analogia col periodo fascista: nel 1943 come nel 2011 le élites tradizionali, davanti al rischio del collasso sistemico (oggi diremmo del default finanziario) indotto dalla loro stessa inazione, hanno ripreso in mano la situazione e neutralizzato Berlusconi, e con lui l’intero debole sistema politico.
Le analogie, tuttavia, finiscono qui. Nel ‘46, infatti, terminata la fase emergenziale dell’implosione del regime e della Resistenza, le élites politiche, culturali ed economiche hanno saputo rientrare nel pieno delle loro responsabilità attraverso l’esperienza costituente e la ricostruzione. Oggi, al contrario, assistiamo ancora ad una certa riluttanza a riappropriarsi del ruolo di direzione che competerebbe loro. Per questo sarebbe necessario un rinnovamento profondo (non solo generazionale) delle classi dirigenti, animate da un rinnovato spirito civico, competenti e capaci di offrire una prospettiva di futuro al paese.


Come riformare gli attori politici per ricreare una vera circolarità democratica della partecipazione e delle competenze

È chiaro che, accanto ad un rinnovamento delle élites, l’Italia avrebbe bisogno di un rinnovato ruolo dei partiti politici sulla scena pubblica, nella veste di soggetti fondamentali per una piena vita democratica. E a tal fine occorre riflettere su almeno tre ordini di problemi. Il primo è quello di rinnovare i processi partecipativi interni, e quindi la qualità delle decisioni maturate.
A questo proposito, il PDL, SEL, Scelta Civica, la coalizione di sinistra che si è coagulata attorno ad Ingroia, ed in fondo lo stesso Movimento Cinque Stelle non offrono molti spunti di riflessione. Un partito che ruota attorno alla figura del capo, che ne è l’unico elemento costitutivo, è un partito che impoverisce, e non arricchisce, la democrazia.
Al contrario, è interessante il dibattito interno che sta interessando il maggiore partito italiano, il Partito Democratico, riguardo la forma che una grande organizzazione collettiva dovrebbe assumere nel XXI secolo.
L’occasione scatenante, come tutti sappiamo, è stata la «vittoria dimezzata» alle ultime consultazioni politiche, a cui hanno fatto seguito delle manovre abbastanza impenetrabili in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. A seguito delle critiche che lo hanno convinto alle dimissioni, l’allora segretario Pierluigi Bersani ebbe a rintracciare una delle cause del malfunzionamento del suo partito nella mancanza di un «principio d’ordine» e in un latente anarchismo dei rappresentanti eletti. «In questo modo – continuava Bersani – non si costruisce un soggetto politico ma solo uno spazio politico».
Come se, esaurita l’elezione di chi viene delegato a rappresentare un soggetto collettivo, costui (il segretario politico e tutti gli eletti dalle primarie) non avesse a lavorare per continuare a costruire continuamente la volontà collettiva di tale soggetto, e non solo a rappresentarla. Un incessante sforzo collettivo è proprio ciò che connota la democraticità interna di una qualunque organizzazione. Un soggetto politico democratico, infatti, si nutre innanzitutto di luoghi e di spazi di confronto.
Uno dei classici del pensiero liberal-democratico, John Stuart Mill, è convinto che la politica democratica sia incentrata sul discorso, i cui fondamenti sono l’interazione e la cooperazione dei cittadini che, competendo per le cariche pubbliche, si influenzano a vicenda. Il processo di formazione dell’opinione politica è quindi centrale nella democrazia, e si fonda sull’agonismo delle idee che competono nell’assemblea (Urbinati 2006, p. 11). Tali idee si confrontano e, attraverso il confronto, maturano una posizione collettiva. Il semplice momento della delega della rappresentanza non ha fondamento democratico senza il conflitto delle idee e la discussione. Soltanto un processo del genere, continuo e faticoso, consente di maturare un pensiero davvero condiviso e collettivo sulle questioni. Si tratta di elementi che mancano nell’attuale situazione italiana.
Come ci insegna una profonda conoscitrice del totalitarismo (e quindi del suo anticorpo, ovvero della democrazia) come Hannah Arendt, sono questi i luoghi dove avviene il processo pubblico di formazione e di confronto delle opinioni che legittimano il governo democratico. Dove avviene la competizione su tesi anche opposte, ma dove si forma la volontà condivisa degli associati.
È utile sottolineare come i partiti politici manifestino una carenza di momenti democratici interni che impedisce una vera partecipazione alle scelte e mina la qualità delle scelte stesse.
Il secondo aspetto è quello di un ritorno a farsi corpo intermedio tra società e istituzioni. I partiti moderni, infatti, sembrano tutti rivolgere il proprio sguardo solo al versante dell’apparato pubblico, volgendo le spalle alle richieste del mondo esterno. Sono anch’essi figli di quello che io definisco il «paradosso tecnocratico» delle nostre amministrazioni, ovvero del fatto che le sedi decisionali si restringono a pochi attori sulla base del principio che solo in pochi sono in possesso delle competenze. La realtà fattuale, al contrario, dimostra come nella gran parte dei casi i saperi siano diffusi e polverizzati in una miriade di soggettività, individuali e collettive. Una soluzione interessante è quella che Fabrizio Barca definisce dello «sperimentalismo democratico» (Barca 2013, p. 20), pensata per superare gli errori della macchina pubblica. Tali errori si fondano sul presupposto che esistano delle istituzioni o regole ottime, indipendenti dai contesti, elaborabili da tecnici al di sopra delle parti, e che il problema dell’azione pubblica consista essenzialmente nell’applicare tali regole ai «luoghi». Conseguenza di tale impostazione è che, se solo gli amministratori ed i pubblici burocrati detengono il sapere per dettare le regole della convivenza, allora avremo bisogno di costruire macchine pubbliche massicce, spesso sproporzionate rispetto a quelli che sono i reali bisogni delle nostre comunità. Nella nostra regione tale processo di costruzione delle macchine pubbliche è avvenuto in assenza di una vera riflessione, quasi come il riflesso di un’eredità culturale mai completamente elaborata.
Sarebbe semplice obiettare che il modello socialdemocratico si poggia su basi molto diverse, ovvero sul fatto che «propositi e proposte non sono mai concepiti in moduli di tecnocrazia efficientista o paternalistica, ma in funzione dell’elevamento non soltanto della condizione di vita del lavoratore, ma della capacità di partecipazione alla vita della società» (Arfè 1976, p. XV). La vera questione, tuttavia, è che «la conoscenza necessaria per assumere decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale non è concentrata nelle mani di pochi» (Barca 2013, p. 24), ma spesso dispersa fra una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere: dagli imprenditori, ai semplici cittadini − nella triplice veste di produttori, consumatori ed utenti di servizi pubblici e privati − alle organizzazioni del terzo settore, ai centri di ricerca, ai corpi intermedi della società. Ed è solo dal confronto e dal conflitto tra posizioni diverse e conoscenze parziali che si crea innovazione utile alla soluzione di problemi.
La macchina pubblica, per prendere decisioni – riguardino il ciclo dei rifiuti, la manutenzione del territorio o altro – deve costruire un processo che, convincendo i molteplici detentori di conoscenze a partecipare, promuova il confronto, l’innovazione dei punti di vista e li traduca in decisioni per la collettività. Un processo che non può coincidere con gli anemici percorsi partecipativi previsti dalle amministrazioni.
Ed è qui che si inserisce il ruolo innovativo del partito. Un partito che, in questo nuovo quadro di circolazione delle idee, è chiamato a costruire quel ponte con i variegati pezzi di società, punti di vista ed interessi particolari, che le istituzioni da sole non possono costruire. Tornando ai teorici del pensiero democratico, è nel momento dell’antagonismo delle idee e della maturazione di un punto di vista condiviso che si enfatizza il ruolo dell’attore politico. Di quell’attore politico che non intenda il suo ruolo come un asfittico serrarsi dentro le stanze e un parlare all’esterno solo attraverso comunicati stampa.
In altre parole, partiti politici attivi e sinceramente democratici – in grado, cioè, di fornire un’arena politica alla società – sono indispensabili al rinnovamento della macchina pubblica.
Una forte resistenza a questa visione può ragionevolmente provenire dalle élites tecnocratiche delle amministrazioni e da partiti che non ricerchino il giusto equilibrio tra principio di maggioranza (gli eletti dagli iscritti) e competenze interne ed esterne. Un partito che pensi di esaurire la propria funzione nella selezione (magari attraverso le primarie) del personale da sottoporre al vaglio elettorale per le cariche pubbliche, e non si ponga il contestuale problema di selezionare i propri quadri dirigenti anche sulla base di competenze di lettura e analisi dei processi politici e sociali, non è chiaramente funzionale a questa nuova interpretazione del suo ruolo. Detto altrimenti, un partito che lasci la selezione dei propri quadri dirigenti al solo gioco delle correnti (il che si traduce spesso in soluzioni al massimo ribasso, che scontentano il meno possibile) non è adeguato alla complessità della società contemporanea e, nel caso del PD, tradisce la sua vocazione originaria.
Come giustamente scrive Michele Salvati, una volta scolorite le vecchie appartenenze, era chiaro che il problema del PD sarebbe stato quello di «tenere insieme» le due tendenze che storicamente costituiscono il campo politico progressista: una d’ispirazione liberale e una di formazione socialdemocratica. «Un partito, infatti, è una comunità d’intenti, e si è partito se si riconosce la stessa comunanza profonda alle principali tendenze che in esso operano» (Salvati 2013). L’esasperazione del correntismo all’interno del PD è, appunto, il fallimento di un reciproco riconoscimento culturale che, come tale, rischia di impoverire la qualità della proposta politica e della leadership di tale partito.
Alfredo Reichlin, in un suo recente contributo per il prossimo congresso del PD, annota saggiamente che la crisi italiana non è solo crisi economica, ma è crisi di identità, di rappresentanza democratica, di distacco della società civile dallo Stato. Per invertire questa pericolosa china è necessario che emerga, come nelle grandi fratture della storia italiana, una classe dirigente, un sistema politico in grado di «ridare un’anima all’Italia, di insediarsi nella storia del paese». Per cogliere i profondi perché della crisi italiana e imboccare una via d’uscita che non sia fatta solo di misure congiunturali ed emergenziali è necessario capire che al fondo di questa crisi ci sono «tutte le storture del nostro sviluppo storico» (Reichlin 2013, p. 2). Non è più possibile tornare ai giochi di una politica del passato, fatta di accordi, strategie di sopravvivenza e, nel migliore dei casi, di alambicchi tecnici. Non basta nemmeno annunciare programmi di governo, perché resteranno inapplicabili se non riacquistiamo l’ambizione del «pensiero largo», per restituire cittadinanza a tutti, anche agli ultimi.


Bibliografia

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