1. Del tema mi sono occupato lungamente, e in diversi momenti[1], e vorrei cogliere questa occasione per fare il punto su di esso, ed anche per verificare una linea interpretativa che, pur tra le oscillazioni e le imperfezioni proprie di chi nuota in mezzo ai vortici[2], ha sempre cercato di andare più a fondo, su un tema dove a fondo non si riesce ad andare quasi mai. Insomma, pur assumendo come oggetto specifico il tema che mi è stato proposto, in nessun caso questo contributo può essere considerato un contributo di tipo storico, non è mia intenzione delineare un profilo storico della destra italiana. Lo si può considerare, piuttosto, un contributo di teoria politica, o di metodologia politica, nel quale cercherò di sviluppare concettualmente il tema proposto, rispettando comunque la storia nello sviluppo delle analisi teoriche, nella speranza che per questa via si riesca ad offrire qualche strumento e qualche stimolo per una comprensione più adeguata di un fenomeno che continua ad essere, ancora oggi, tra i più complessi e controversi dell'intera contemporaneità. Non che non si siano fatti grandi passi avanti su questo terreno, tutt'altro, o che non esistano studi importanti sull'argomento, ma è come se la sostanza della cosa continuasse ancora a sfuggirci, e la destra, dopo quasi vent'anni di governo, fosse rimasta ancora oggi quell'oggetto misterioso e malefico, di cui parlava Giovanni Tassani alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Della destra si potrebbe dire ciò che Walter Benjamin diceva a proposito del fascismo e, cioè, che «la sua fortuna consiste, non da ultimo», nel fatto che i suoi avversari la combattono «in nome del progresso come di una legge storica», e poi si stupiscono del fatto che essa è ancora tra di noi, ma – continua Benjamin – lo stupore «non è all'inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l'idea di storia da cui proviene non sta più in piedi»[3]. Occorre innanzitutto affrontare la questione ad un alto livello di astrazione[4], e collocare il tema della destra su un terreno più solido del semplice terreno cronologico, perché ciò che produce la destra, e rende la sua presenza strutturale, è, innanzitutto, la contemporaneità (destra e contemporaneità: ecco la prima questione che vorrei brevemente discutere in questo intervento), la quale, tuttavia, e questo mi sembra il punto importante, va liberata da una idea – progressista – di storia "che non sta più in piedi", perché la contemporaneità è sostanzialmente instabilità, e la destra è un polo o un problema strutturale di essa, che la contemporaneità incessantemente produce e riproduce. Ma che cosa è contemporaneo? E come si colloca la destra all'interno di esso? Quali sono le discontinuità che hanno trasformato il mondo moderno in mondo contemporaneo o che, quantomeno, hanno rappresentato la struttura portante della contemporaneità? Il primo elemento di discontinuità rispetto al mondo moderno è rappresentato dalla Rivoluzione industriale, la quale introduce la nozione di mercato mondiale; il secondo elemento è rappresentato, invece, dalla Rivoluzione francese, la quale introduce l'idea di nazione. Questi sono gli elementi e le categorie forti che non solo introducono uno spartiacque rispetto al mondo moderno, ma che rappresentano anche l'inizio della contemporaneità, nel senso che con l'introduzione della idea di nazione e con quella di mercato mondiale, prendono forma visibile i problemi che sono attuali nel mondo di oggi. Infatti, tramite alcuni passaggi novecenteschi (attraverso i quali questi due elementi, queste due categorie forti della contemporaneità, si divaricano), questo mutamento produce anche instabilità, nel senso che, nel Novecento, e fino a noi, fino al nuovo ciclo di globalizzazione emerso a partire dall'89, il mondo contemporaneo diventa un mondo strutturalmente instabile e imprevedibile, il quale oscilla permanentemente tra nazione e mercato mondiale, tra libertà e autorità, nel senso che quando, nella contemporaneità, si diffonde il comandamento secondo il quale non c'è salvezza nello stato, la società è spinta verso la paura, una paura, poi, che, per essere esorcizzata, ha bisogno del potere, o di un padrone, come dirà Tocqueville[5]. Non aver affrontato questo tema, o averlo disperso, è stato causa non ultima della odierna (lunga) egemonia della destra, perché – come sosteneva Franco De Felice, riprendendo e commentando il Secolo breve di Hobsbawm – «il mondo è sull'orlo di un "collasso sociale" e […] il recupero di un'autorità pubblica è il compito più urgente che l'esperienza del secolo lascia in eredità alle generazioni future, come condizioni di sopravvivenza»[6]. In effetti, la società contemporanea è caratterizzata da una tensione strutturale, da una contraddizione costitutiva, tra il carattere espansivo del mercato, e da un processo di secolarizzazione crescente, e la necessità di nuclei minimi di natura prescrittiva, senza i quali la società cesserebbe di esistere come tale[7]. Questa tensione costituisce un fattore generalissimo nell'emergere della destra, ma – come vedremo fra poco – non ancora in grado di cogliere la sua specificità, la quale può essere colta solo passando ad un livello medio di generalità, ovvero analizzando i singoli processi di sviluppo nazionale, all'interno dei quali nascono, si formano e si sviluppano le specifiche destre.
2. Dunque, destra, fenomeno politico della contemporaneità, sulle cui tensioni essa incessantemente si riproduce. Questo è un punto molto importante, perché se la destra è un fenomeno legato alle tensioni strutturali del contemporaneo, essa è anche un fenomeno che si presenta in modi sempre nuovi, non è qualcosa che, allo stesso modo, irrompe dal passato, come se davvero fossimo ancora poggiati su una tradizione intesa come una dottrina, un insegnamento trasmesso, una linea che discende verso di noi, e che ci vincola, qualcosa che potremmo chiamare una trasmissione vincolante[8], una vincolante continuità fra la fonte e noi interpreti, e noi soggetti del presente. Non è questa, infatti, la tradizione del contemporaneo, né è questo il nostro rapporto con la tradizione; un rapporto che, invece, si sviluppa soprattutto per rispondere alle domande che provengono dalla realtà e che spezzano l' unità e la continuità di una tradizione, chiedendo nuovi strumenti di comprensione. Se questo è vero, la varietà è la regola, la varietà è l'essenza della destra (così come di tutti i fenomeni politici e culturali della contemporaneità[9]), e occorre elaborare una teoria della destra che considera la varietà come l'essenza della destra, la quale si manifesta, appunto, come varietà. Insomma, occorre fare interagire creativamente gli strumenti propri della storiografia (sostanzialmente individualizzanti) e quelli tipici delle scienze sociali, a vocazione generalizzante, perché anche prendendo per buono l'assunto sostanzialistico della metodologia di un pezzo importante della storiografia sulla destra, da Ignazi a Revelli, a Ferraresi, e altri[10] (un modo tutto sommato tradizionale di intendere l'unità e la continuità della storia di un fenomeno politico), e, cioè, il fatto che nella storia si discute sempre degli stessi problemi, e che sono all'opera sempre le stesse esigenze, il problema permane, perché il punto è, anche qui, non quello di constatare questo dato, ma quello di chiedersi: a che gradazioni emergono questi problemi e queste esigenze perenni? Tentando di classificare alcune ideologie del nostro tempo (destra e sinistra), Dino Cofrancesco ha distinto opportunamente i materiali base di una ideologia, che ovviamente ci sono, dalle gradazioni con le quali questi materiali emergono storicamente. Nel prendere in esame l'ideologia della destra, Cofrancesco afferma che sicuramente esistono dei valori comuni, comuni a tutte le destre di sempre, «sì da spiegare, in ultima analisi, la ragione per cui essi vengono assunti – già nel linguaggio quotidiano – sotto la stessa categoria etico-politica di destra»: un certo amore per la tradizione, un certo senso dell'onore, un rifiuto o un senso di fastidio per il relativismo culturale, un desiderio di abbandonarsi alla comunità[11]. E tuttavia, aggiunge subito dopo Cofrancesco, ciò che realmente conta sul piano storico concreto, non sono tanto i materiali di base, quanto, piuttosto, i modi e le gradazioni attraverso le quali essi emergono nel processo storico concreto. Per es. «l'esigenza dell'abbandono fiducioso alla comunità, il bisogno di possedere, grazie all'appartenenza, un bene prezioso che nessun rovescio di fortuna può annullare, nessuna posizione modesta nella piramide dei ruoli e delle funzioni sociali può far dimenticare», è una cosa, certo importante, e che sarebbe pericoloso sottovalutare, altra cosa è la esasperazione e la radicalizzazione che il fascismo e il nazismo fa di questa esigenza[12]. Non si tratta, dunque, dello stesso e medesimo fenomeno, e il compito dello storico non è quello di indagare la perennità e la continuità dei materiali di base (della problematica comune), ma la novità (storicità) delle gradazioni, con le quali essi emergono nel processo storico concreto, perché è esattamente tramite le gradazioni che si rimette continuamente in questione la problematica comune e si ridefinisce la stessa nozione di tradizione politica, il cui sviluppo – ecco il punto decisivo – non può essere letto sin dall'inizio, «dall'embrione in cui sarebbero evidenti i segni della fine, e dagli esiti che finalmente renderebbero più intellegibili quegli stessi segni»[13]. Occorre mettere in questione ogni visione di tipo genetico (ogni ontologia dei materiali base), per dare il giusto rilievo al problema delle gradazioni, perché senza una teoria delle gradazioni è impossibile affrontare la questione delle tradizioni, sulla quale si addensano buona parte degli equivoci e delle confusioni di cui è tessuta la nostra storia contemporanea. E per cogliere le gradazioni occorre passare dal livello alto di generalità con il quale ci siamo avvicinati al tema nel punto precedente, ad un livello intermedio di analisi, ovvero all'analisi dei singoli casi nazionali, perché solo attraverso questa analisi è possibile cogliere i materiali di destra alle specifiche gradazioni con le quali essi si manifestano in un processo storico concreto e determinato. Infatti, soluzioni di destra sono sempre possibili nella crisi e nelle oscillazioni della contemporaneità, ma le forme e le gradazioni che tali soluzioni assumono dipendono dallo specifico contesto storico nazionale e sociale e dal modo come in quel contesto si è venuto a configurare il rapporto nazionale-internazionale, ovvero dello stato del sistema internazionale. Insomma, per riprendere alcune categorie della teoria del fascismo di Germani, occorre sempre distinguere tra la ragion d'essere della destra (che metaforizza sempre il tentativo della società prescrittiva di ritornare ad essere il tipo dominante di società[14]) e le sue possibili forme politiche.
3. Il rischio del mancato riconoscimento della suddetta distinzione è quello di confondere nella stessa categoria gradazioni differenti dello stesso fenomeno, ma anche «sistemi socio-economici assai differenti, ad esempio sistemi il cui fine è la smobilitazione delle classi subordinate con sistemi che esprimono la mobilitazione primaria di queste classi»[15]. La differenza classica, studiata a lungo da Germani, è quella tra nazionalpopulismo e fascismo, tra peronismo e fascismo europeo, la quale consiste «nella classe da cui furono tratte le masse mobilitate e nel tipo di mobilitazione»[16]. Processo di mobilitazione primaria e classi inferiori nel primo caso, mobilitazione secondaria e classi medie nell'altro. Perché, ed è questo il punto che mi sembra decisivo, non esiste solo una varietà di gradazioni, ma anche una varietà di direzioni che la destra può prendere, giocando la sua ragion d'essere in direzioni completamente diverse, se non opposte. E per cogliere la direzione l'analisi va ulteriormente specificata e, per così dire, rimodellata sui tempi brevi, perché è solo nei tempi brevi di un ciclo di mobilitazione, e ad un livello più basso di astrazione, che noi possiamo analizzare la specificità (gradazioni e direzione) di un singolo movimento di destra, il quale emerge e si manifesta sempre dentro un ciclo di mobilitazione e per rapporto ad esso. Ovviamente, una destra in Italia c'è sempre stata, sia prima sia dopo il fascismo, anche se dopo la caduta del fascismo e fino a metà degli anni Settanta, essa è stata fortemente marginale o semplicemente impossibilitata a definirsi tale, perché il contesto non lo consentiva. Le cose mutano nella seconda metà degli anni Settanta, dopo un lungo ciclo di mobilitazione economico-sociale e nelle immediate vicinanze della sua crisi, quando, cioè, si incomincia ad aprire uno spazio per una contro mobilitazione di segno contrario. Infatti, se guardiamo all'Italia degli ultimi cinquant'anni, notiamo che l'emergere della destra, alla fine degli anni Settanta, rappresenta una forma determinata di contro mobilitazione, che si oppone alla precedente mobilitazione economico-sociale (che prese forma in Italia alla fine degli anni Cinquanta, e poi entrò in una fase più acuta dopo il '68, e che trovò nel PCI un meccanismo organizzativo capace di esprimerla politicamente, e che, proprio per questo, durò per tutti gli anni Settanta), per difendere le classi e gli interessi che erano stati colpiti o, comunque, minacciati, nel ciclo precedente di mobilitazione, la quale, come scriveva Franco De Felice, ebbe come controcanto una acuta crisi sociale che interviene sulla governabilità stessa dei processi economici, nel senso che in quegli anni sono stati erosi quei legami e quelle solidarietà di gruppo di carattere non economico, con i relativi codici morali, che permettevano di strutturare la vita in società[17]. E tuttavia, questa fase acuta della mobilitazione popolare ed il movimento collettivo che ne seguì, non portò a nessun ordine nuovo, anche se esso fu percepito come estremamente minaccioso da parte della classe dirigente, e soprattutto dei ceti medi, contribuendo così a scatenare la mobilitazione di questi ceti, alla quale si associarono ampi settori (disillusi) del ciclo precedente che incominciarono a percepire la crisi della mobilitazione economico-sociale come l'inizio di una nuova esclusione, e quindi di una nuova marginalità, i quali, proprio per questo, si resero di nuovo disponibili. Ecco il blocco di questa destra: il ceto medio minacciato dalla intensa mobilitazione economico-sociale e tutti quei settori che, nella crisi di questa mobilitazione, incominciano a percepire la tragedia della loro prossima e, forse, definitiva esclusione. Quindi, proprio per questo, destra ad alta gradazione, la quale ha come carattere primo il classismo, un classismo che usa il populismo in esclusiva funzione di questa caratterizzazione, e, cioè, come stile politico. Dobbiamo a Margaret Canovan l'elaborazione di una tipologia utile a distinguere «tra due grandi famiglie di populismi, internamente molto differenziate: da un lato, il populismo come movimento sociale; dall'altro, il populismo come stile politico»[18], e questa distinzione è molto importante ai fini del nostro discorso, perché se è certamente vero che populismo e democrazia procedono sempre insieme[19], è vero anche che mentre negli anni Sessanta e Settanta in Italia era prevalente una nozione classista di popolo, una declinazione economico e sociale di popolo, in cui era considerato fondamentale il posto reale occupato dall'individuo nel sistema di produzione o nella gerarchia sociale, a partire dagli anni Ottanta (che sono gli anni in cui si afferma il populismo e la discussione su di esso) il populismo rinasce come stile politico, la cui caratteristica saliente «all'interno della democrazia è una forma di romanticismo, uno spostamento dal meccanicismo alla vita, dall'artificialità alla spontaneità, un appello che, scavalcando la struttura formale delle istituzioni democratiche esistenti si rivolge al popolo che si suppone essere rappresentato da tali strutture»[20], e che, di fatto, finisce per rafforzare solo la volontà del potere sul popolo, e non anche viceversa[21]. Ora questo blocco si è eroso, perché la forte predominanza del classismo sul populismo, ha fatto sì che i settori popolari che si erano resi disponibili incominciano di nuovo a sganciarsi, e, per così dire, a passare di nuovo dalla mobilitazione psicologica alla mobilitazione economico-sociale[22], mentre il nuovo ceto medio, bloccato nelle sue aspirazioni, privo di risorse e di riconoscimento, mai incluso nella sua politica di classe, è sempre più collocato contro di essa. Quello che ancora manca è una èlite adeguata a questo nuovo blocco, così come una adeguata ideologia. Ma qui si aprirebbe un discorso troppo diverso, che riguarderebbe innanzitutto la sinistra, e devo quindi interromperlo, avendo proposto, spero, qualche utile spunto per analizzare il problema della destra.