1. Eroi nel Silenzio
Dal giugno del 1940 Parigi e la Francia sono sotto l'occupazione tedesca e il regime collaborazionista di Vichy instaurato dal maresciallo Philippe Pétain.
Mentre molti scrittori francesi scelgono di tacere per esprimere la propria resistenza nei confronti del Nemico, il disegnatore satirico Jean Bruller, volto, corpo e deus ex-machina creativo, celato dietro alla foresta nominale di Vercors, decide di parlare attraverso il silenzio, con il racconto di una parola rifiutata.
Nel 1942 il "romanzo breve" di 96 pagine, Le silence de la mer, viene stampato e diffuso clandestinamente dalle Éditions de Minuit, in 350 copie e sotto pseudonimo.
La trama, lineare come il toit tranquilledi Valéry da cui l'autore trae ispirazione, si svolge durante il periodo dell'Occupazione: due eroici personaggi, zio e nipote, spogliati di nomi e connotazioni fisiche particolari, sono costretti ad ospitare nella loro casa l'ufficiale tedesco Werner von Ebrennac. Nella differenziazione espressiva ed esistenziale, i protagonisti si allineano nella scelta, apparentemente irremovibile, di non rivolgergli mai la parola; mentre l'antagonista, stimolato dalla statuaria determinazione, si insinua nel loro silenzio e intreccia nel loro ascolto, rovescio simmetrico della chiusura verbale, una serie di considerazioni sul significato della guerra per la Germania e per la Francia.
Nell'angusto microcosmo, Vercors colloca un piano inclinato drammatico in cui il climax, la finale "caduta delle illusioni", viene superato da una inaspettata prossimità dei fronti opposti.
L'approccio analitico al testo si snoda secondo una scansione schematica in due momenti. Essa ricalca, con un'intenzione ricostruttiva, quella ideale su cui il romanzo è disegnato; e offre, in chiave interpretativa, la possibilità di riferirsi ad apporti "esterni" alla sua genesi, giungendo a lambire un'interpolazione inedita, giustificata dalla convergenza dei contributi verso gli elementi indicati nel titolo della trattazione.
Il primo momento ripercorre le sette parti precedenti il finale, e si avvale del riferimento, reso esplicito dallo stesso von Ebrennac, alla fiaba La Belle et la Bête, ricordata nella versione, edita nel 1756, di M.me Leprince de Beaumont. La rilettura si pone l'obiettivo di seguire i due percorsi intorno ai quali si articola il racconto: quello della nipote, teso al silenzio e al minimalismo gestuale, che con le sue oscillazioni "interne" rivitalizza l'atteggiamento dello zio, ed emerge vivificato dalla sua parola scritta; e quello dell'ufficiale tedesco, dotato di protagonismo verbale, che scava un autentico Bildungsroman irradiante l'intero costrutto testuale, e sfocia nella rottura dell'opposizione silente.
Il secondo tempo tenta di pulire le lenti interpretative utilizzate e di mettere a fuoco la parte finale, giungendo con lo sguardo oltre lo spazio e il tempo caratterizzanti il frammento di Vercors. L'apertura universale che impregna i discorsi dell'antagonista giustifica la possibilità di una fuga verso un altrove geografico "totale": verso la formula decostruttiva melvilliana di Bartleby the Scrivener: A Story of Wall Street (1853), che indirizza la comprensione del gesto finale, politicamente "denso", di von Ebrennac.
2. La Bella e la Bestia: il dilemma totalitario
Nel "racconto lungo" di Vercors, la caduta dell'anti-eroe verso la luminosità accecante del Male politico, intravisto nel suo nucleo spiritualmente distruttivo, si interseca con la resistenza passiva opposta dal narratore e dalla sua nièce absurde.
Il confronto è strutturato secondo una linea di demarcazione rappresentata dalla visita dell'ufficiale nella capitale francese e dall'incontro con gli uomini politici tedeschi che preparano la "meravigliosa unione" tra i due popoli. La linea non si limita a segnare il passaggio tra un "prima" e un "dopo" nell'educazione sentimentale del personaggio, ma permette al lettore di identificare la natura culturale del momento storico totalitario, e di operare una scelta di campo alla luce delle posizioni politicamente rilevanti incarnate dall'autore, dal narratore e dalla figura duale, maschile e femminile, che polarizza il testo nella sua raffinata stratificazione espressiva.
La successione dei primi sette capitoli evidenzia come il lato maschile della figura indicata disegni una singolare teofania, una parabola cristologica nel segno chiaroscuro di una terrificante rivelazione.
L'ufficiale Werner von Ebrennac viene presentato come un unicumindividuale, a partire da alcuni elementi descrittivi che ne indicano la distanza da tutti coloro che lo hanno preceduto e, frammentariamente o incomprensibilmente, annunziato.
La padronanza linguistica, segno di una formazione intellettuale cosmopolita lontana dal senso pratico militare, viene compendiata dalla passività (il primo verbo che lo vede sub-jectum è il passato remoto, alla forma passiva, fut précédé), dalla sostanziale immobilità, riflesso di quella parziale, che affligge il suo corpo, gettandolo ai margini dell'azione bellica oltre che dell'ideale di perfezione ariana.
In modo speculare, la divinità umana manifestata nell'imperfezione e nella debolezza, intrattiene con gli involontari ospiti, e con lo stesso autore, un rapporto oscillante tra sorprendente avvicinamento e brusco allontanamento.
Il cognome, con cui sceglie di presentarsi senza fornire alcuna indicazione del grado militare, terminante in -ac e denotativo di una possibile origine latina (acus), restituisce a Vercors risonanze autobiografiche; l'aspetto fisico, dettagliatamente osservato, permette al narratore di soffermarsi sulla sua bellezza, crudelmente sovraumana; infine, l'inusuale espressione di estime nei confronti di "coloro che amano la loro patria" offre al lettore e agli stessi protagonisti l'opportunità di rivisitare le potenzialità del mediumsilenzioso che per l'ufficiale appare un habitat naturale, un terreno fertile su cui piantare semi linguistici indirizzati all'ascolto dei due orgogliosi francesi.
Se dal punto di vista dell'organizzazione del tempo, von Ebrennac apre uno iato in cui il narratore e la nipote collocano una riflessione sulla propria scelta di resistenza, dal punto di vista dell'occupazione dello spazio vitale, egli si mostra refrattario a qualunque tentativo di fornire confini alla propria ingombrante presenza, e appare, con la sua statura gigantesca, smisurato [immense].
Il tratto fisico, innervato di sfumature fiabesche e riguardante il rapporto con un luogo chiuso, è il primo segno della sua radicale eccezionalità.
La chiarezza descrittiva che tratteggia minuziosamente la figura di Werner von Ebrennac è applicabile in modo rovesciato al vuoto connotativo in cui vengono immersi l'io narrante e la sua imperscrutabile nipote.
La loro contrazione esistenziale sul presente è simile a quella vissuta da discepoli intrappolati nella vicenda terrena di una protodivinità dell'Assurdo, ed è rafforzata da un particolare sfuggente allo svolgersi dell'azione: l'emergenza quasi totalizzante della comunicazione non verbale nelle loro interazioni reciproche, basate sull'intuizione di intenzionalità rarefatte, e determinate dall'iniziale e automatica scelta di non dire nulla.
Allora l'humus silenzioso su cui sembra attecchire il flusso verbale dell'antagonista, non è solo il frutto di una volontà di azione privativa, contrastiva del nemico alla porta, ma la naturale prosecuzione, nel continuum temporale, di un portato esistenziale che non si lascia scalfire dalla sua venuta, secondo una stratificazione che vede acuite le possibilità dirompenti della puntiforme rivolta.
La presa di posizione della giovane francese, immediatamente accolta dal suo tutore, presenta delle ramificazioni fondamentali, complementari all'oralità del nuovo arrivato: se i due decidono di non replicare alle sue parole e di non prendere alcuna iniziativa verbale nei suoi confronti, è pur vero che i suoi discorsi, in un francese sostanzialmente corretto e sempre più gravitanti intorno alla temperie bellica, vengono ascoltati e, dall'autore e dal narratore, fissati in forma scritta.
L'apertura dei due "testimoni auricolari" viene condensata nella sua ambiguità, e stilizzata in forma iconica da una struttura, reale e simbolica, che de-finisce lo spazio in cui essi si dibattono: la porta, che divide le stanze in cui zio e nipote concentrano le loro energie vitali da quelle in cui alloggia l'ufficiale tedesco.
In seguito all'osservazione di costui sulla possibilità per i due ospiti di chiudere il passaggio impedendo ogni bruciante contatto con la sua indesiderata presenza, il narratore ammette che l'opzione di lasciare aperta la porta si fonda su ragioni solo in parte chiare e pure.
È vero che egli non può uscire indenne dal cerchio terribile del male inflitto all'Altro, ma in tale evangelica reciprocità del negativo, si annida la serpentesca apparizione di un vettore eteroclito, leggibile attraverso l'apporto etologico del saggio di Konrad Lorenz, dal titolo Armi e Morale, contenuto nella celebre raccolta L'anello di Re Salomone (1967).
Il testo espone, con brillante esaustività e preoccupazione attualizzante, la relazione di proporzionalità diretta tra le potenzialità distruttive delle armi utilizzabili dalle specie animali, nella lotta con i propri simili, e il sistema di inibizioni, preventivo dell'annullamento totale della stessa specie: ad esempio, l'esibizione da parte di un esemplare sottomesso, della porzione più debole del proprio corpo, all'avversario più forte e già vincitore, permette a costui di non procedere verso una dinamica annientante.
Il meccanismo, che getta un'ombra sul "meraviglioso detto del Vangelo" relativo al "porgere l'altra guancia", potrebbe essere applicato al momento in esame del racconto, attraverso una rifrazione che vede entrambi gli opposti narrativi coinvolti in qualità di vittime.
Se le raisonsalla base della duplicità del/nel negativo (abstension) offerta dai due protagonisti vengono accennate nel loro carattere spurio, qual è la ragione che muove gli atteggiamenti, i comportamenti e soprattutto la logica discorsiva di Werner von Ebrennac?
La ricostruzione dell'ufficiale contiene l'indicazione della scaturigine e del telos del progetto politico e culturale, individuale e collettivo, da lui disegnato: l'unione spirituale di due paesi, la Francia e la Germania, per cui il confine geografico rappresenta al tempo stesso una bruciante linea di tangenza conflittuale e un fecondo punto di accumulazione culturale.
Per von Ebrennac, gli Stati Uniti d'Europa sono, in parte, un'eredità ideale ricevuta dal padre che, prima di entrare nel silenzio della morte, ha amato la Francia e, pur nel patriottismo fervidamente nutrito e nel dolore per la disfatta tedesca durante la prima guerra mondiale, ha preconizzato, in parallelo con il socialista indipendente francese Aristide Briand (di cui Vercors si farà doppio letterario nelle "memorie apocrife" – 1981), l'opportunità di un avvicinamento tra i due paesi storicamente ostili.
Il tradimento dell'universo incarnato dal co-fondatore de "L'Humanité", attuato da una perversa borghesia del denaro e dell'opportunismo politico, ha impedito a Briand, e al vecchio von Ebrennac, di vedere realizzata tale progettualità.
Ora il figlio intende riportarla alla luce attraverso due vettori creativi di diversa natura, che segnano il distacco dal lascito paterno: lo sguardo alla parola scritta, "diritto" foriero, nelle innumerevoli vette della letteratura francese, dell'esprit d'équilibre di matrice illuminista; e la composizione musicale, "rovescio" tedesco, decostruttivo di ogni confinamento verbale del flusso emozionale, e della stessa individualità che, soverchiata da tale flusso, può riemergerne solo in una condizione di completa servitù artistica.
Lo smisurato von Ebrennac individua nella musica la sublime ma dolorosa fuoriuscita dall'umano a più dimensioni (musique inhumaine), perciò si pone l'obiettivo della creazione di sonorità a misura d'uomo: la difficile poiesis, orientata dall'umanesimo, si distanzia dalla Realpolitik paterna indirizzata alla conquista territoriale, poiché diviene realizzabile attraverso la pacifica permanenza in Francia, in un villaggio simile a quello conosciuto, in cui essere accolto, significativamente, da figlio.
La misura umana è rintracciabile nella parola letteraria confinante, e confinata nei volumi degli autori francesi moderni e contemporanei, conservati nella stanza dei due ospiti, e illuminati da un fuoco inquieto ma non distruttivo.
Misura e parola vengono presentate attraverso la rilettura di una fiaba, ricordata nel titolo tedesco, Das Tier und die Schöne, la Bella e la Bestia, e in realtà rielaborata, in una popolare versione moderna (1756), dall'autrice francese Jeanne-Marie Leprince de Beaumont (1711-1780).
Von Ebrennac legge in maniera emozionale la metamorfosi favolistica, e ne restituisce un senso inedito, compenetrato nel suo disegno: egli si identifica con la Bestia; partecipa della sua inumanità e della sua impossibilità a liberarsi delle catene di una potenza carica d'odio; e accoglie, con gioia quasi infantile, la sua finale trasformazione in un chevalier pur, délicat et cultivé, reso libero e umano dal mutamento d'animo della Bella, dal suo amore corrispondente.
Però la Bella deve volere: nella sua icona, sintesi di una specularità etico/estetica illuminata ancorché impersonale, necessità e volontà finiscono ottimisticamente per sovrapporsi, per lasciar spazio a un legame che includa l'Altro nella sua correggibile imperfezione, e, soprattutto, per guarire una forza pericolosamente priva di confini ma desiderosa di trovarne.
La rivisitazione della fiaba permette di evidenziare un particolare degno di interesse: il vero motore della parabola iniziatica della Bella, è uno scambio intrecciato dal padre con la Bestia, un baratto, sul confine tra vita e morte, tra la sopravvivenza del genitore, colpevole del furto di una rosa nella dimora del mostro, e il destino della giovane donna, rinchiusa ma sospesa in un Altrove inclusivo dell'antica domus paterna.
Se la Bella deve volere, qualunque mezzo è lecito affinché essa modifichi la sua volontà: la paternità, vittima originaria poi causa primordiale della sventura coinvolgente l'eroe, vicario e partente verso la propria crescita attiva, innesca una dinamica di potenza, incontrollabile, inevitabile e infine, inevitabilmente sconfitta, di cui la mostruosità, in progress verso l'umanizzazione, rappresenta la successiva personificazione.
Per von Ebrennac, la forza indomabile, di duplice ascendenza paterna, e lo spirito fine e poetico, di impronta femminile, sono inestricabilmente uniti in un vincolo ideale, al contempo, positivo e negativo, pacifico e sanguinario, agonale e distruttivo.
A chiarire la mutua vincolatività dei due portati interviene un nuovo riferimento letterario, eccedente la contrapposizione politica e culturale in esame.
Si tratta di una battuta finale della "tragedia politica senza catarsi"[1], Macbeth (1605-1606) di William Shakespeare, in cui il tiranno vede sfuggirgli tra le dita lorde di sangue l'abnegazione dei nobili signori di Scozia, che finalmente misurano la sua annichilente ambizione e, obbedendo più al timore che all'amore, attendono la sua imminente auto-distruzione. Il gigante politico, rimpicciolito nella sua statura e ridotto a un nano fraudolento, mostra tra le vesti ridicolmente cascanti la sua paurosa nudità.
Ma von Ebrennac legge la caduta di Macbeth secondo una direttrice diversa dalla catarsi bloccata: egli vede l'opportunità del fosco tradimento, che, calata nella congiuntura dell'Occupazione, diviene l'assoluta imprescindibilità dell'"accettazione della parte" di venditore della propria patria, da parte dell'Ammiraglio Darlan.
E tutto ciò in nome della preservazione e della proliferazione reciproca dello Spirito.
3. «Preferirei di no»: la "soluzione" della rivolta
È possibile per la Bella scoprire, in fondo allo sguardo offuscato di violenza del carceriere, la preghiera di essere trasportato dalla chiusura della solitudine distanziante al disvelamento della relazione commisurata all'Alterità ?
La risposta all'interrogativo polverizzato nell'ultima parte del racconto, viene predisposta dall'autore nella forma di un doppio somersault, espressivo e tematico, che atterra nelle formulazioni della rivolta, declinate dal "finale di partita" politicamente attivo dello stesso Jean Bruller, e potenziate dal suo scarnificante tratto di disegnatore satirico nascosto tra le pieghe del testo.
Fino all'epigrafe shakespeariana che apre l'ottava parte, il binomio parola/silenzio, introdotto dalla singolarità di von Ebrennac nello spazio chiuso, reale e verbale, dei suoi ascoltatori, si incardina nella dimensione collettiva della Storia, innervando il passato politico delle due nazioni, leggendone il presente ma, soprattutto, plasmandone il futuro.
La parte finale subisce, in continuità con l'incipit tragoedia rappresentato dal casuale rispecchiamento tra l'ufficiale e il narratore, una perturbante inversione che si avviluppa intorno al fallimento, smascherato dagli "uomini vittoriosi" agli occhi dell'incredulo compagno, dell'"unione matrimoniale", ironicamente spezzata in nome della completa sottomissione dello Spirito francese.
Il tormentato rovesciamento, che vede la "principessa lontana" trasformata in "cagna strisciante" dalle logiche di un dominio trascendente la misura della "semplice" conquista, rompe il binomio ricorsivamente tracciato e lo fa precipitare al di sotto di un limes in cui non sembra esserci altro che oppressione.
Il logos dell'ufficiale, alimentato dal/nel silenzio, viene frantumato e interpolato, in maniera crescente, da precipitati preverbali, il-logici e ir-razionali, che si rifrangono sulle due parti della figura maschile e femminile, inizialmente lacerata, in funzione politicamente ricompositiva.
Il gesto, incontrollato e simmetricamente mostrato dai corpi, quello di von Ebrennac, dotato di una nudità esibente il grado militare, e quello della nipote, fissamente rivolto al "rinnovato" compagno, e dolorosamente attraversato da fremiti incontrollabili di partecipazione empatica, si manifesta a partire dalle mani.
La mano di von Ebrennac avanza in modo incerto verso la rottura della reciprocità del negativo, attraverso l'azione de-cisiva, intrusiva e impegnativa, di bussare alla porta dei due protagonisti, attendendo una risposta. La risposta giunge in maniera altrettanto elaborata e irrevocabile, con un'indicazione che tradisce nuovamente l'oscillazione tra profonde intenzionalità.
Un altro vettore di se-duzione dal primario status relazionale è lo sguardo che per entrambi viene caratterizzato secondo una nuova declinazione di disumanità, attraverso ossessive raffigurazioni animali. Grand-duc, faucon, chien sono incarnazioni di un mondo naturale fino a quel momento lasciato ai margini della narrazione, anche se non completamente dimenticato (mouvement naturel de cerf).
L'immagine di maggiore condensazione comunicativa è rappresentata da un animale letterario, dotato di libera esistenza, ma all'occasione volontariamente intrappolato in un luogo domestico, con lo scopo preciso di rivelare ad un ignaro ospite, il proprio messaggio di disperazione: Never More!
Si tratta del Corvo del celebre poem, The Raven, di Edgar Allan Poe (1809-1849), pubblicato nel 1845 sull'"Evening Mirror", tradotto in francese da Charles Baudelaire, e magistralmente illustrato dallo stesso Vercors.
L'invadente portatore di Verità compare nel racconto in maniera occulta, solo attraverso la disvelante formula, indicativa dell'inevitabile discesa umana verso le pianure del non senso costellate di cadaveri.
Il Corvo intrattiene una rapporto di feconda contiguità con un più misterioso e destabilizzante messaggero letterario, di indubbia familiarità con la ciclicità dirompente dell'universo naturale, e di paragonabile distruttività onnivora: Bartleby lo scrivano, protagonista dell'omonimo racconto di Herman Melville (1819 - 1891).
La «formula della creazione»[2], I would prefer not to, che nella sospensione dell'oggetto della negazione debole, fattualmente si rivolge alla totalità, è indicata come paradigma della scoperta di una Natura prima, opposta a quella normativa, di origine presuntivamente pattizia e intrecciata in una dimensione storica o inter-individuale profondamente inautentica.
Nel vuoto immenso e terrificante da essa scavato, la non preferenza del tutto propone anche un versante costruttivo e proiettivo, una "libertà di" allineata all'esistenzialistica "liberazione da", che apre a un'innovativa codificazione della responsabilità. Essa che, nel suo etimo più denso, si inscrive nell'orizzonte della risposta a un'ideale chiamata, prelude alla rifondazione comunitaria di un "popolo a venire", da ricercarsi in primo luogo nell'apertura anarchicamente esperita dalle differenti incarnazioni melvilliane.
Il personaggio di Bartleby, la sua minimalistica naturalità, incuneata in una socialità folle, arbitrariamente violenta, e infine confinante in un'istituzione "totale", soprattutto, la sua sovrana accettazione di un destino di precoce estinzione, conducono al nodo terminale del tragico dipinto da Vercors: la decisione di Werner von Ebrennac di far coincidere il proprio dovere di ufficiale con il proprio diritto, di farsi trasferire al fronte passando attraverso le porte spalancate di uno stato di natura, al di qua di codificazioni filosofiche moderne, e di progetti politici ideali.
La scelta di rivolta rovescia e radicalizza, su un ideale asse spaziale, quella eccezionalmente profilata nel tempo dell'attesa: essa è orientata in senso chiaramente conflittuale, perciò si indirizza consapevolmente verso l'assunzione di un esito mortifero, auto ed eterodiretto, secondo una riproposizione dell'originaria debolezza, ora partecipativa della distruzione dell'altro.
La rivelazione, accompagnata da una ritrovata oralità che, nella sua connotazione disperata, si presta al fraintendimento e al possibile distanziamento esistenziale del narratore, viene accolta dalla nipote, che risponde al saluto finale dell'ufficiale partente, secondo una dinamica riconoscente e responsabilizzante.
Nell'arcipelago della speranza, i doppi storici, compagni di lotta del silenzioso Vercors passano attraverso la strettoia della morte, preparando una comunità di fratelli o una "società senza padri".
Bibliografia
- G. DELEUZE, G. AGAMBEN, Bartleby - La formula della creazione, tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 1993.
- E. KRIPPENDORF, Shakespeare Politico - Drammi storici, Drammi romani, V Tragedie, tr. it. di R. Benatti e F. Materzanini, Fazi Editore, Roma 2005.
- K. LORENZ, L'anello di Re Salomone, Adelphi, Milano 1967.
- H. MELVILLE, Bartleby the scrivener-Bartleby lo scrivano, a cura di M. Bacigalupo, Oscar Paralleli Mondadori, Milano 1994.
- E.A. POE, Il Corvo e tutte le poesie, a cura di T. Pisanti, Newton Compton, Roma 2000.
- VERCORS, Le silence de la mer et autre récits, Éditions Albin Michel, Paris 1951.