Se c'è un personaggio che alla coscienza civile non ha quasi mai fatto appello – cioè al suo esibirla come una prebenda o come un diritto a pontificare su vizi e virtù altrui – quello è stato probabilmente Indro Montanelli. La storia professionale e umana del più grande giornalista italiano nella seconda metà del Novecento è infatti costellata di atteggiamenti eretici e irriverenti, di scetticismo e disincanto nei confronti del potere, di nobile rispetto nei confronti dell'avversario (quasi sempre comunista) e di una sana mutevolezza di opinioni. Proprio l'opposto di quell'intransigentismo morale che spesso va a braccetto con un virtuosismo civico e laico che nel nostro Paese, tuttavia, emana sempre un certo odor di sacrestia. Eppure forse nessuno come Montanelli è riuscito a farsi portavoce di un'Italia moderata e perbene, talvolta anche anticonformista, sempre libera di criticare e allergica al potere in tutte le sue manifestazioni, da quello proveniente dall'alto fino alla tirannia, altrettanto pericolosa, del senso comune suscitato dal basso. A suo modo una vocazione civile anche questa, ma sotto mentite spoglie.
Il percorso umano e professionale di Montanelli nella seconda metà dello scorso secolo è già stato analizzato da numerosi biografi. Ma in questa sede vogliamo rendere conto di come la sua personalità spiccatamente individualista e controcorrente sia riuscita a mettersi al servizio della verità storica, in particolare con l'epico episodio dell'ottobre ungherese del 1956. Di come l'esigenza di «steccare nel coro», connaturata alla sua indole, fosse un modo di manifestare non solo il proprio dissenso ma anche un campanello d'allarme da suonare al raggiungimento di una soglia massima di conformismo sociale. Di come nel corso degli anni la sua vocazione giornalistica abbia ceduto progressivamente il passo a una passione "impolitica" (cioè "politica" ma svuotata di partecipazione ideologica) contrapposta tanto alle sirene del rivoluzionarismo degli anni Settanta quanto alla degenerazione partitocratica di un sistema, quello della prima repubblica, nato "istituzionalmente" bloccato. E di come questa passione sia poi stata tradita dagli italiani.
È un Montanelli da impegno civile quello che a Budapest nell'autunno del 1956 racconta l'effimera rivoluzione magiara e la spietata repressione dei tank sovietici? Lo è, perché ancora una volta (si pensi alle sue cronache dalla guerra civile spagnola) rompe gli schemi consolidati, evita i silenzi omertosi di larga parte dell'intellighenzia nostrana – quella che ancora pochi anni fa usava la neutra dizione togliattiana di "fatti" d'Ungheria per non concedere il sostantivo "rivoluzione" – e contemporaneamente scontenta gli anticomunisti in servizio permanente effettivo. A Budapest si trattò, come scrisse sul "Corriere della Sera" in quei giorni, di una rivoluzione di studenti e operai, di una guerra per la libertà e per il socialismo, non di una rivolta reazionaria o borghese destinata a spalancare la strada al capitalismo. Appagando il suo spirito caustico e irriverente, Montanelli riuscì in quella occasione a scontentare tutti, ovvero il fronte compatto dei fautori della "controrivoluzione": chi vedeva nella rivolta la minaccia nei confronti dell'ordine comunista e chi un'auspicabile restaurazione di valori capitalistico-borghesi.
Più che la sinistra, Montanelli riuscì allora a irritare – lui che provocatoriamente esibiva come medaglia al merito la definizione di "reazionario" concessagli dalla stampa antifascista – proprio la borghesia. Quella borghesia alla quale, in Italia aveva sempre rimproverato cedimenti morali, deficit di sobrietà, timore del nuovo e scarsa intraprendenza. Longanesi non glielo perdonerà. Eppure, come ha osservato Enzo Bettiza, «quei comunisti ungheresi, che si rinnegano combattendo altri comunisti, costituiscono un vero miracolo per lui che fino allora aveva provato un ribrezzo fisico oltreché mentale per il comunismo». E arriverà a scorgere in loro e nel breve fiorire di stampa libera animata dal circolo Petöfi quello spirito frondista che aveva caratterizzato certe svolte a sinistra dei Gruppi universitari fascisti o di testate come l'"Omnibus" di Longanesi o il "Selvaggio" di Maccari.
Un terzismo anarchicheggiante e libertario, quello montanelliano, capace di sublimare nella sua figura l'ansia di manomettere gli schemi. Ma non fino al punto di romperli definitivamente. Piegarli, esibirne i vizi, metterli alla gogna. Ma senza arrivare al punto di rottura. Critico sì, ma da "collaborazionista". Come a loro modo, secondo Montanelli, erano anche i giovani insorti magiari.
La critica dall'interno di un sistema consolidato, il frondismo che necessita giocoforza di un contrappunto per definirsi tale, o, come amava ripetere, quello «steccare nel coro» che richiede una schiera unanimemente registrata per offrire il giusto risalto alla stonatura è un'altra delle cifre umane del Montanelli giornalista. Si definiva, prezzolinianamente, un anarchico anomalo. Meglio ancora, un anarco-conservatore: «... mi sento un po' tradito dalla sorte, perché in fondo ero nato per fare il ribelle in una società ordinata. Ho trovato, al posto di una società ordinata, un bordello dove l'unico modo di fare il ribelle è di schierarsi dalla parte dei Carabinieri». Non perché uomo d'ordine tutto d'un pezzo o perché fanatico di un facile intransigentismo morale. Certi paladini delle regole a ogni costo gli ricordavano più un gesuitismo di ritorno, un moralismo predicatorio di ascendenza religiosa che non quella sana etica protestante di cui ammirò sempre la capacità di fondere senso di responsabilità individuale e intraprendenza economica.
Piuttosto perché il vizio, cioè il "bordello", era insito nella storia degli italiani, nel loro atavico campanilismo, nell'incapacità di vivificare le proprie tradizioni e il proprio passato – utilizzati entrambi come oggetti da museo da rispolverare solo a fini polemici contro l'avversario di turno –, nel reducismo ostentato per ottenere benefici, nel giacobinismo retorico trasferito nell'agire politico, nella determinazione a perseguire il proprio particulare affidandosi al raggiro e alla truffa.
Una ulteriore cifra del Montanelli della seconda metà del Novecento è la sua volontà di influire sulla vita pubblica. Se la fama negli anni Trenta e Quaranta era stata conquistata sul campo come corrispondente in Spagna e poi in Finlandia, dopo la guerra e il reintegro nel "Corriere" la tentazione di farsi portatore sano dei malumori di una società sbandata dopo vent'anni di fascismo e una guerra civile lacerante iniziò poco a poco a farsi strada.
Ma sulle colonne del paludato foglio di via Solferino non era possibile sbilanciarsi troppo. Fu invece la contemporanea esperienza con "Il Borghese", come ha osservato Paolo Granzotto, a fornire a Montanelli, grazie anche alla libertà garantita da quella testata, l'opportunità di vestire i panni dell'ispiratore «della gente che sta ansiosamente aspettando che qualcuno le suggerisca cosa deve pensare». Al "Borghese" collaborò dal 1950 al 1956, sferzando al tempo stesso comunisti e borghesi («Avessimo noi borghesi la forza di colpire i nostri traditori con la stessa spietata intransigenza con cui i comunisti colpiscono i traditori loro!»), denunciando l'involuzione partitocratica del Paese (causata dall'esigenza di combattere il Pci, che grazie ai finanziamenti sovietici, scrisse, poteva evitarsi altre pratiche illecite) e inventando la formula del votare Dc, ma «senza dirlo in giro», anticipazione di quel «turatevi il naso» che tanto successo avrebbe avuto nell'impedire il sorpasso comunista alle politiche del 1976.
Per un attimo, di fronte all'avanzata delle sinistre negli anni Cinquanta, fu anche tentato, insieme a Longanesi e con la collaborazione dell'ambasciatore statunitense a Roma, Clara Boothe, di passare dai consigli alle vie di fatto: creare una struttura segreta, una sorta di Gladio giornalistica da attivare in caso di vittoria elettorale del Pci. Organizzazione che non fu mai messa alla prova, ma che la dice lunga sul personaggio, sempre funambolico e agguerrito contro ogni deriva di massa, da qualunque parte conducesse.
La svolta "pedagogica" del «suggerire cosa pensare» e quella delle "vie di fatto" troveranno una loro sintesi suprema nella fondazione de "Il Giornale" a metà degli anni Settanta. Fino ad allora la popolarità come giornalista e scrittore gli aveva procurato un numero crescente di lettori grazie ai volumi dedicati ai grandi personaggi contemporanei e ai numerosi reportage (la Sicilia di Salvatore Giuliano, il Giappone, Israele, l'Eni di Mattei). Inchieste che non erano mai un concentrato di dati e di minuziose ricerche d'archivio, di soffiate e di verbali di tribunale attentamente compulsati. A suo modo, infatti, Montanelli era un giornalista anomalo (e proprio per questo superiore alla media). Non amava innalzarsi a indagatore delle malefatte dei politici o a tutore integerrimo delle regole, perché un fondo di cinismo lo induceva a capire che al mondo la specchiata moralità quasi mai va a braccetto con l'eccellenza. Per questo privilegiava l'osservazione da caricaturista, cioè la capacità di cogliere in pochi tratti la figura di un personaggio, di un ceto sociale, di un popolo. Il risultato era uno stile decisamente poco paludato, immediato, capace di essere compreso e apprezzato «anche dal lattaio dell'Ohio» (regola aurea appresa in gioventù durante una breve esperienza giornalistica statunitense). E capace di creare una stretta simbiosi con i suoi lettori, di cui conosceva bene gli umori, spesso barricadieri e intransigenti. Che spesso lusingava. Ma dei quali talvolta si divertiva a farsi beffe.
E qui torniamo ancora una volta allo steccare nel coro. Perché quando il consenso intorno alla sua persona iniziava a crescere, allora significava che era giunto il momento di smarcarsi, di mettere a segno una "stecca". Anche a costo di scontentare quegli stessi lettori che in lui vedevano un campione intransigente della conservazione e del perbenismo. Lo hanno evidenziato Sandro Gerbi e Raffaele Liucci in una recente biografia, andando a scovare posizioni montanelliane "altre" rispetto all'immagine talvolta stereotipata che i suoi detrattori (ma anche i suoi più vicini collaboratori) ne hanno fatto. Ad esempio, un'iniziale comprensione per le richieste degli studenti nella prima fase del '68, quando ancora la denuncia delle mafie e delle baronie accademiche non era stata presa in carico dall'ala più violenta e rivoluzionaria del movimento studentesco. O, ancora, alcune critiche formulate nel 1970 nei confronti di una legislazione troppo repressiva sulla droga. Ma anche una timida apertura montanelliana nei confronti dei comunisti di Berlinguer nel 1973 (che anni dopo sconfessò). Così come un laicismo intransigente che durante la campagna per il divorzio lo indusse a entrare in polemica con Paolo VI. Probabilmente erano atteggiamenti istintivi, derivanti da quel carattere toscanamente impertinente, sempre sulfureo e attento a costruirsi inimicizie piuttosto che facili consensi. Tuttavia, facevano parte dell'uomo, della sua forma mentis. Perché l'indole, come ha scritto Enzo Bettiza, «era quella di un liberale disincantato, solitario, nevropatico, tetragono al compianto e al conforto. Preferiva elargire dubbi piuttosto che consolazioni facili».
Quel che è certo è che non fu una semplice esigenza di smarcarsi l'uscita dal "Corriere". La scelta fu meditata a lungo. E indotta prima da dissapori con la proprietà, quindi resa quasi esecutiva dal brusco licenziamento di Giovanni Spadolini, il direttore di via Solferino in cui Montanelli aveva visto non solo l'integerrimo professionista, alieno da personalismi e garante di un atteggiamento centrista, ma anche il possibile referente per fare del quotidiano milanese un supporto per il rafforzamento del Pri nell'ambito del centrosinistra. La poltrona di Spadolini fu assunta da Piero Ottone, che nel giro di pochi anni avrebbe reso assai più confusa la tradizionale linea filogovernativa della testata, in favore di un atteggiamento definito "liberal-laburista". Lo ha riassunto bene Marcello Staglieno: «Di fatto tutti questi programmi si ridussero ben presto a ciò che Montanelli paventava "antologismo": mancanza di una precisa linea politica, strisciante tolleranza per la contestazione studentesca, rispettosa attenzione verso un Pci ancora legato a Mosca, indulgenza verso troppi giovani che, nei propri atteggiamenti ribellistici, già stavano incubando quella che fu la vera, terribile eredità del Sessantotto: il terrorismo».
Lo strappo con il "Corriere" è ormai storia del giornalismo e della cultura italiana degli anni Settanta. Fatica invece ancora oggi a entrarne a far parte la storia della nuova testata fondata da Montanelli con un gruppo di transfughi dal "Corriere". Quel "Giornale" che prima dalla sede di piazza Cavour a Milano e poi dai locali di via Negri avrebbe diretto per quasi vent'anni facendone un think-tank di un attivismo culturale e politico di stampo liberalconservatore. Un rilievo che la storiografia tende ancora a sminuire privilegiando letture semplificatorie e ancorate a luoghi comuni (si pensi alla poderosa Storia della stampa italiana edita da Laterza, dove il "Giornale" è definito come organo della Montedison e portatore di una «linea politica e culturale ferma agli anni della guerra fredda e alla contrapposizione frontale tra comunisti e anticomunisti»). E che invece meriterebbe analisi più approfondite. Perché nel panorama degli anni di piombo il "Giornale" rappresentò non solo un esperimento riuscito di controcanto rispetto a una certa ubriacatura rivoluzionaria di cui fu vittima una parte significativa della stampa periodica, ma anche uno svecchiamento rispetto a un suo provincialismo di fondo. La migliore autorappresentazione quotidiana della "stecca" montanelliana, capace di interrompere quel cortocircuito che aveva trasformato il conformismo ideologico in conformismo intellettuale. Lo dimostra la schiera di giornalisti e collaboratori d'eccellenza di quella testata: Mario Cervi, Fernando Mezzetti, Enzo Bettiza, Salvatore Scarpino, Frane Barbieri, Vittorio Dan Segre e François Fejtö, con la terza pagina affidata a firme come Guido Piovene, Geno Pampaloni, Rosario Romeo, Nicola Abbagnano, Renzo De Felice, Raymond Aron e Jean-François Revel. Per quasi un decennio, dal 1974 ai primi anni Ottanta, la terza pagina del "Giornale" sarà una delle più autorevoli nel panorama della stampa quotidiana italiana.
Da questa sede Montanelli potrà finalmente incarnare il nuovo ruolo di consigliere "impolitico" nelle principali svolte del Paese per quasi due decenni. La prima occasione fu, come abbiamo già visto, quella per le elezioni del 1976, che con l'invocazione a votare Dc «turandosi il naso» contribuì a evitare il sorpasso del Pci (e secondo alcuni a stabilizzare un sistema potere democristiano ormai incapace di proposta politica).
Quindi, negli anni successivi, fornendo in occasione delle diverse tornate elettorali i nominativi di esponenti politici di fiducia pescati tra le file di Dc, Pli e Pri, il cui scopo avrebbe dovuto essere quello di partecipare al sistema partitocratico (cui Montanelli continuò sempre a riservare pesanti stoccate) per scardinarlo dall'interno. Ma saranno successi effimeri.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta prevarrà invece in Montanelli il disincanto e il pessimismo, come a sancire l'impossibilità di porre fine alla degenerazione del sistema e a individuare una via per il cambiamento delle istituzioni. Nell'Italia di quegli anni, il liberalconservatorismo, che all'estero con Ronald Reagan e Margaret Thatcher stava dimostrando una grande capacità riformista rispetto alle ingerenze stataliste degli anni Settanta, sembrava non avere diritto d'asilo. «Le grandi riforme in Inghilterra le hanno fatte i conservatori, non i signori laburisti. Noi usiamo delle parole cui non corrispondono più i significati tradizionali», spiegò a un gruppo di studenti universitari entusiasti che lo avevano eletto a proprio nume tutelare. Ma la vera grande riforma, aggiunse, era un'altra: «Questo popolo che si vanta di essere intelligente è un popolo di cretini perché gli manca il senso dei valori e calpesta tutto il suo passato, lo deride. [...] Questa è la grande lotta che dobbiamo fare. Non tanto contro i partiti, che si equivalgono pressappoco. La classe politica è quella che è, lo sappiamo benissimo. Ma perché? Perché la pianta uomo non funziona. Che cosa vuoi, io non ci credo, non credo neanche tanto alle riforme istituzionali. La riforma, in Italia, è morale e di costume. [...] Questo è quel che possiamo realizzare: noi possiamo tener vivo questo bisogno, questa necessità, questa urgenza di una grande riforma che ognuno deve compiere per conto suo dentro se stesso».
La repentina scomparsa del mondo comunista (cui tributò l'onore delle armi facendo suo il motto churchilliano: «In guerra decisione; nella disfatta fermezza; nella vittoria magnanimità») e le indagini di tangentopoli con la conseguente fine della prima repubblica segnarono il venir meno dei due grandi bersagli che avevano caratterizzato l'impegno giornalistico e impolitico di Montanelli. Ci sarà ancora, nei primi anni Novanta, la battaglia a favore delle due campagne referendarie di Mario Segni sulla preferenza unica e sul sistema maggioritario. Ma il pessimismo sulla possibilità di riformare non più solo la borghesia, nei confronti dei quali aveva sempre mostrato un atteggiamento critico, ma l'Italia e il suo popolo assumerà toni drammatici («L'Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me, non è più la Patria. È soltanto il rimpianto di una Patria», così nel commiato nell'ultimo volume della sua Storia d'Italia).
Nel volontario abbandono del quotidiano da lui fondato, dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi – che avrebbe inteso condizionarne la linea politica –, non c'è la fine di un giornalista, ma quella del suo progetto impolitico, cioè di una destra conservatrice e libertaria al tempo stesso, capace di unire idealmente Giolitti a De Gasperi, Cavour a Minghetti. La fine di un passato idealizzato e impossibile da trasporre nella realtà senza sporcarsi le mani nella bassezze dell'agire pubblico. L'esperienza della "Voce" ne fu la testimonianza: «Se si attendono che "La Voce" sposi questo o quello schieramento, si sbagliano. Noi diremo di no a tutti», questa la dichiarazione d'intenti del neo-direttore. Che, strizzando l'occhio a un centrismo ormai sempre più privo di consistenza, ritrovò tuttavia nell'attaccare il bersaglio berlusconiano il vigore polemico dei tempi passati.
Bibliografia