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I confini della felicità

Candido Cannavò
Intervista a cura di Luca Alici

Un viaggio nel mondo dell'handicap, che, come Lei scrive, «non contempla confini geografici» e «abbraccia un popolo sparso dovunque», non per un percorso scontato «nelle angustie, nei problemi e nel dolore», bensì alla ricerca delle sue meraviglie: questa è l’idea che ha mosso il suo ultimo libro, E li chiamano disabili. Un incontro con persone, storie, sentimenti, valori che provocano l'idea di “normalità” che si è oramai sedimentata nelle nostre convinzioni. Cosa possiamo imparare da questa “diversità”?

Direi innanzitutto la lezione dell’amore per la vita, che si accompagna ad una forte consapevolezza del suo valore inestimabile: tutto ciò, nei disabili, non è semplicemente presente, ma rappresenta un qualcosa che si moltiplica a dismisura. Essi amano e danno valore assoluto anche alle piccole cose della loro esistenza, alle minime conquiste di ogni giorno, a tutto ciò che l’esperienza offre loro. Partono da una situazione anche di gravissimo disagio, ma ciò non impedisce di assegnare a tutto un valore nuovo: viene fuori, grazie alle loro storie, un vero e proprio inno di amore per la vita.
Secondariamente, mi preme mettere in luce la forza con cui affrontano il dolore e la determinazione con la quale provano a trasfigurarlo. Certo, con questo non intendo negare il peso che la sofferenza ha nelle loro vite, ma impressiona la forza con cui lo oltrepassano, una forza che davvero ci risulta difficile immaginare. È come se ci fosse una zona nella quale noi facciamo fatica a penetrare e dove i disabili, invece, sviluppano delle potenzialità che ci sembrano impensabili, quasi misteriose: parlo, ad esempio, di chi riesce ad accettare una vita senza braccia e la realizza pienamente; della sensibilità di chi non può vedere e vede attraverso mille altri modi, tante altre parti del suo corpo o di quello degli altri.
Una volta, di fronte ad una platea, in un mio intervento pubblico, mi hanno chiesto: «Cosa le hanno insegnato i non vedenti negli incontri che lei ha avuto modo di fare durante le sue molte esperienze?» E io risposi: «Mi hanno insegnato paradossalmente a vedere e a vedere in mille altri modi ciò che noi guardiamo in una sola maniera e ad una sola dimensione».

Nella Prefazione, Walter Veltroni scrive: «l’esplorazione del mondo dei disabili non deve essere vissuta attraverso lo stereotipo di un viaggio nel dolore e nell'angoscia, ma [...] questo andare può trasformarsi in un’esplorazione alla ricerca della bellezza e della forza vitale». I tanti racconti che trovano voce ed espressione nel suo lavoro condividono proprio questa medesima traiettoria e scoperta: da un fondo buio di dolore ad una felicità non solo ancora possibile, ma forse più piena e più goduta. Come si può arrivare alla felicità attraverso l’originaria esperienza della sofferenza?

Certamente occorrerebbe avere un’unica definizione certa della felicità, che non ci viene data né dai filosofi né da un computer, in maniera tale da “verificarla” in relazione alla quotidianità di queste persone. E allora quello che mi sento di dire è che in questi casi felicità vuol dire godere di ciò che, durante la vita, si riesce a strappare alla vita stessa, di ciò che si riesce a conquistare oltre i propri limiti, di ciò che si può valorizzare tra le difficoltà.
Ovviamente non mi permetto di dire che tutte le esperienze di disagio raggiungono lo stesso stato e la stessa gravità e non oso immaginare che tutti i casi rispondano nel medesimo modo alle difficoltà e rientrino nei canoni delle storie descritte nel mio libro. Io ho raccontato le esperienze di quelli che si possono definire dei veri e propri “campioni” della disabilità: ma sono degli esempi che possono essere traino per tutti gli altri, non solo nel ritratto delle pagine che ho dedicato loro, ma nella loro vita, che continua e che continuano a costruire splendidamente. Lo scultore non vedente ha aperto il suo studio e lo ha inaugurato con una festa a Sala Bolognese (sarà la prima scuola d’arte del mondo diretta da un non vedente); la ballerina senza braccia ha avuto una serie importante di successi, esibendosi anche in televisione; il chirurgo continua ad operare partendo da una sedia a rotelle; Pancalli è diventato capo di un Comitato Olimpico Internazionale delle Paralimpiadi che lo ha reso una celebrità mondiale e adesso lo hanno chiamato a gestire l’emergenza della Federcalcio: onestà, capacità e grande volontà hanno ispirato questa scelta.
Sono esempi di come si riescono a raggiungere delle soddisfazioni, e quindi delle felicità, vivendo la vita in maniera intensa e piena, con ampie motivazioni e fondate ambizioni, partendo da lontano e anche da una situazione di grave disagio.

Il limite e la sua sfida costituiscono la cifra della vita quotidiana del disabile e al contempo l’appello alla responsabilità di chi lo incontra e condivide con lui un tratto di strada, se non la vita intera: il valore di una persona e la sua felicità non possono misurarsi sulla base dei suoi limiti. Secondo lei il legame con gli altri può essere, e in che modo, una risorsa per affrontare questi limiti?

Più che una risorsa è una necessità, un’assoluta necessità: senza questa vicinanza, questo affetto e questa fiducia non avrebbero potuto raggiungere quanto hanno raggiunto. Esiste una componente di dipendenza che va affrontata, affermata con estrema chiarezza, e che sarebbe ipocrita nascondere e nascondersi.
Detto questo mi sentirei di indicare due fattori su tutti: l’amore e il senso di responsabilità. In molte delle mie storie l’amore dei genitori, ad esempio, è determinante e va oltre ogni confine che potremmo immaginare; ma, in questo amore, per essere autentico, ci deve essere l’assegnazione di responsabilità, la capacità di rendere responsabile il disabile e di fargli capire che la vita è comunque sua, che è comunque chiamato a gestirla, che non sarà per sempre legato ad un’altra esistenza, ad un’altra persona che continuamente saprà e potrà essergli vicino, ma che arriverà il momento in cui dovrà affrontare la vita in modo autonomo.
Amore e senso di responsabilità: su questo apporto degli altri si può costruire qualsiasi vita, indipendentemente dai limiti che la ostacolano, indipendentemente dall’intelligenza o dai mezzi che la arricchiscono.

Quasi a tenere insieme queste due dimensioni, il limite e il suo superamento, si può senz’altro dire che la pratica sportiva, sia nella silenziosa quotidianità del suo «catechismo fisiologico», come lei scrive, sia nel boato rituale ed ubriacante dell'evento agonistico, costituisce un luogo emblematico, in cui si è costretti a superare la sconfitta e a cercare continuamente la propria vittoria. Superare se stessi, superare gli ostacoli che il proprio corpo aggiunge a quelli degli avversari, significa assegnare un volto nuovo alla competizione: che cosa è lo sport per il disabile? E poi, per concludere, in una situazione, come quella di questi mesi, in particolare testimoniata dalle vicende dell’ultimo Tour de France o dallo scandalo di “Calciopoli”, in cui la scorciatoia sembra nuovamente affermarsi come la strada principale, cosa il mondo dei disabili può insegnare allo sport?

Al di là del fattore dell’agonismo che si realizza in queste competizioni, quello che reputo senza dubbio più interessante è un fatto di cultura. Lo sport, da questo punto di vista, è la punta avanzata di quell’atteggiamento culturale che si chiede di mutare per una più matura comprensione del mondo dei disabili. Lo sport è infatti il luogo dove questo cambiamento è stato più profondo e questa esigenza maggiormente avvertita: siamo cioè passati da una situazione in cui la vergogna era la cifra principale, per cui le stesse famiglie tenevano i figli disabili nascosti in casa, ad una situazione nella quale non solo si è affermata la convivenza, ma il disabile è arrivato all’esibizione di se stesso, a mostrarsi e a gareggiare. Ogni manifestazione sportiva che li coinvolge, fino alle stesse Paralimpiadi, costituisce una sfida, ma anche un’esibizione del disagio fisico: sport e spettacolo ad un tempo. È proprio il mostrarsi l’elemento nuovo, che caratterizza indubbiamente una cultura nuova, anche e soprattutto nella pratica sportiva.
Per quanto riguarda la competizione: è una competizione alla pari, secondo categorie, in cui io trovo tutta la bellezza e direi anche i rischi dello sport. In questo modo mi collego alla seconda parte della domanda: purtroppo, entrando nella così detta “normalità”, anche nello sport dei disabili si sono registrati casi di doping. Raggiungere la normalità non soltanto nelle sue virtù, ma mutuandone i vizi. Sintomo pericoloso di come siamo alla pari, di come si sia giunti alla “normalità”: alla pari nella gara; alla pari, purtroppo, anche nelle irregolarità di un insano agonismo.


Intervista rilasciata l’11 agosto 2006


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