Una questione di architettura
Nel 2003 Doc Searls e David
Weinberger pubblicarono un articolo dal titolo World of
Ends. What the Internet Is and How to Stop
Mistaking It for Something Else[1]. Il testo era soggetto a una licenza Creative
Commons che lo donava al pubblico dominio, rendendo possibile riprodurlo e
tradurlo liberamente. Offrendone una delle prime versioni in italiano, mi presi
la libertà di tradurre kantianamente «world of ends» con «regno dei fini»[2]. Perché Internet,
rispetto ai media tradizionali, riesce a contenere tanta ricchezza e
multeralità di servizi e di informazioni? World of Ends lo spiega con
chiarezza: la rete è così intelligente perché la sua architettura è stupida.
La rete si differenzia dal telefono,
dalla stampa o dalla televisione perché non è costituita da centrali intelligenti
che distribuiscono servizi a terminali stupidi: noi possiamo trasformare
facilmente il nostro calcolatore personale in un server, o farlo
partecipare a un network di tipo peer-to-peer perché la rete non
è nulla più di uno stupidissimo groviglio di cavi e di frequenze, con dei
protocolli di collegamento di pubblico dominio, che cresce senza appartenere a
nessuno, nella misura in cui si aggregano altri nodi.
«Quando Craig Burton descrive l'architettura stupida della rete come una sfera cava composta esclusivamente da fini, dipinge un quadro che coglie l'aspetto più notevole dell'architettura di internet: togliere il valore dal centro e rendere possibile una folle fioritura di valore fra i punti finali connessi. Perché, ovviamente, quando ogni fine è connesso, ciascuno con ciascuno e ciascuno con tutti, i fini non sono affatto punti finali. E che cosa fanno i fini? Qualsiasi cosa possa essere fatta da chiunque voglia muovere bit in giro. Si nota l'orgoglio nella nostra voce, quando diciamo “qualsiasi cosa” e “chiunque”? Deriva direttamente dalla semplice e stupida architettura tecnica di internet. Poiché internet è un accordo, non appartiene a nessuna persona o gruppo. Non alle compagnie che attualmente forniscono le dorsali internet. Non al provider che ci fornisce connessioni. Non alle aziende di hosting che ci affittano server. Non alle associazioni di industriali che credono che la loro esistenza sia minacciata da quello che il resto di noi fa sulla rete. Né a qualunque stato, a prescindere dal grado di sincerità con cui crede di star solo tentando di tenere il suo popolo sicuro e soddisfatto. Connettersi a Internet è consentire a far crescere valore ai suoi margini. E allora accade qualcosa di veramente interessante. Siamo tutti ugualmente connessi. La distanza non conta. Gli ostacoli cadono e per la prima volta il bisogno umano di connettersi può essere realizzato senza barriere artificiali. Internet ci dà i mezzi per diventare, per la prima volta, un regno dei fini»[3].
L'architettura dei media di cui ci serviamo influenza il modo in cui pensiamo e il tipo di comunità che
costruiamo. Chi ha una formazione umanistica dà talvolta per scontato che le
questioni tecniche siano soltanto applicative, come se l'attività di pensiero
individuale fosse, romanticamente, una secrezione del genio. Per il matematico
e teorico dell'intelligenza artificiale Alan Turing questo pregiudizio, secondo
il quale i processi di deduzione e di applicazione sono meccanici, è ingannevole:
le conseguenze di una idea di solito non si presentano alla mente assieme con
l'idea stessa, ma sono frutto di elaborazioni successive, anche altrui, spesso
remote nello spazio e nel tempo[4]. La
scienza non è una raccolta casuale di idee brillanti: è «una attività collettiva, collaborativa e distribuita»[5],
nella quale le strutture di comunicazione e condivisione del sapere hanno un
ruolo decisivo. E siccome ogni comunità è anche comunità di informazione,
quanto vale per la scienza vale, a maggior ragione, per la società in generale.
Benedict Anderson, per esempio, spiega l'invenzione del concetto politico di
nazione in quanto «comunità immaginata», delimitata nello spazio e sovrana,
come prodotto dell'interazione fra un sistema di relazioni produttive (il
capitalismo), una tecnologia della comunicazione (la stampa) e la fatalità della diversificazione linguistica, cui l'editoria diede fissità[6].
Dimenticarsi dell'importanza
dell'architettura è pericoloso, nella misura in cui essa è determinata da
uomini, aziende e stati, perché lascia interamente nelle mani di architetti non
necessariamente benevoli il compito di progettare parti importanti della nostra
vita.
Esperimenti di filosofia politica: l'anello di Gige e il Panoptikon
Nel 1995 Sherry Turkle scrisse un libro
fortunato, Life on the Screen[7], che
constatava precocemente come il desktop computer, con l'interfaccia a
finestre, la quale aveva fatto uscire il calcolatore dal mondo ristretto degli
informatici, avesse abituato gli utenti a tecnologie della parola opache.
Noi vediamo soltanto finestre, che ci permettono di controllare una
molteplicità di compiti e di identità. Nei mondi mediati dal computer,
il sé risulta effettivamente multiplo, fluido e costruito dall'interazione dei
collegamenti con la macchina, costituito e trasformato dal linguaggio: la sua
comprensione appare connessa alla navigazione e al bricolage piuttosto
che all'analisi. L'idea di un sé non unitario, bensì decentrato, che nelle
teorie di Lacan, Foucault, Deleuze poteva suonare astrusa, è stata resa
quotidiana e concreta proprio dall'interfaccia grafica a finestre[8].
L'esperienza dell'interfaccia descritta
da Sherry Turkle è comune a tutti coloro che usano la rete. Meno comune è
invece l'attenzione alla sua architettura. Pochi, per esempio, sono consapevoli
che sono già in fase di commercializzazione computer i quali non sono
più calcolatori personali: essi, infatti, contengono un chip – le cui
chiavi crittografiche non sono date all'utente – che, se trova software capace di dialogare con lui, permetterà di controllarli da remoto; potrà
stabilire per esempio che programmi possiamo installare, o potrà impedirci di
leggere dei file, interamente al di fuori del nostro controllo. Questo
progetto, detto eufemisticamente «trusted computing», ha già da tempo
indotto il profeta del software libero, Richard Stallman, a scrivere articoli
molto allarmati[9]. Ma è purtroppo probabile che buona parte dell'utenza si accorgerà di aver perso la
sua libertà, imparando a sue spese che l'architettura non è solo una questione
tecnica, quando ormai sarà troppo tardi per tornare indietro. Le stesse
macchine che ci hanno aiutati ad essere più colti e più liberi, sottratte al
nostro controllo, potranno essere usate per renderci schiavi.
Anche la filosofia politica – quando ha
cercato di comprendere il mondo allo scopo di cambiarlo – ha prodotto progetti
architettonici. In questa sede conviene metterne a confronto due, che si
somigliano specularmente, perché hanno entrambi ad oggetto il controllo
sociale: l'anello di Gige platonico e il Panoptikon di Bentham.
Un personaggio della Repubblica di Platone, Glaucone, racconta la favola di Gige, un pastore lidio, il quale,
scoperto un anello magico che rendeva invisibile chi lo indossava, riuscì a
penetrare nel palazzo reale e, facendosi visibile secondo i suoi desideri,
sedusse la moglie del re e si impadronì del suo potere. Se due anelli così,
sostiene Glaucone, venissero dati a un uomo giusto e a un uomo ingiusto,
entrambi, al riparo dello sguardo altrui, asseconderebbero sregolatamente i loro
capricci (Resp. 539c ss.). Il dominio della visibilità e
dell'invisibilità ci trasforma in uomini a identità variabile, fuori da ogni
controllo sociale – se almeno si presuppone che il controllo dall'esterno sia
l'unico fattore che ci rende giusti.
Per quanto disegnato più di due millenni
dopo, il Panoptikon dell'utilitarista inglese Jeremy Bentham si fonda sulla
medesima filosofia di Glaucone. Il Panoptikon è un carcere modello, di forma
semicircolare, al cui centro si trova una torre di sorveglianza, mentre le
celle sono interamente esposte allo sguardo delle guardie, e dei muri separano
i prigionieri in modo che non possano vedersi fra di loro. Un sistema di
imposte permette ai guardiani di vedere senza essere visti: i prigionieri,
nell'incertezza, si comporteranno sempre con la disciplina desiderata[10].
La rete, con la sua illusione di
anonimato alimentata da una interfaccia tecnologicamente opaca, può apparire
assai simile a un anello di Gige. Ma, dietro l'interfaccia, essa contiene tutti
gli strumenti per realizzare un Panoptikon: anche ora, senza il trusted
computing, che renderà possibile un controllo totale, il nostro indirizzo
IP ci identifica in modo univoco e chi non si preoccupa di cifrare le sue
comunicazioni di posta elettronica e la sua navigazione sul web può essere sorvegliato molto facilmente[11]. Il
diritto alla sorveglianza panottica è invocata variamente da governi più o meno
democratici e dalle lobby della proprietà intellettuale, spesso con
successo[12].
Molti di noi, infatti, danno per
scontato – come Glaucone, come Bentham – che il nostro comportamento sia
regolato esclusivamente dallo sguardo altrui, e che questa eteronomia valga
ugualmente sia per il mondo materiale, sia per mondo spirituale. La nostra
identità è la maschera che ci cuciono addosso gli occhi degli altri.
Platone, dal canto suo, non si è fatto ammaliare dalla favola di Glaucone e ha
accettato la sua sfida. È possibile comportarsi con giustizia senza essere
incatenati a una identità o identificazione imposta dall'esterno, almeno nel
mondo dell'immateriale?
Il racconto fenicio e il mito di Er
La Repubblica di Platone contiene
due miti sull'identità: il racconto fenicio, politico e dichiaratamente falso,
e il mito di Er, etico e dichiaratamente vero. I due miti sono narrati in un
testo, come la Repubblica, consapevole della loro architettura. Il mito,
tipico delle culture orali, imprime nelle menti dei typoi – stampi,
modelli o cliché – (Resp. 371b). Agisce al di sotto
dell'autoconsapevolezza razionale, e tuttavia non se ne può fare a meno, perché la prima educazione ha, giocoforza, la sua forma[13].
«Cercherò di persuadere prima gli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto della città, che tutto quello con cui li avevamo fatti crescere ed educati, a loro pareva di subirlo e che venisse ad essere intorno a loro come nei sogni, mentre in realtà allora essi erano giù entro la terra, plasmati e fatti crescere, essi stessi, le loro armi e il resto del loro equipaggiamento fabbricato. E una volta che furono completamente pronti, la terra, come fosse loro madre, li mise alla luce, e ora essi devono prender risoluzioni e difendere la terra in cui sono come se fosse la loro madre e nutrice, se qualcuno va su di lei, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e nati dalla terra…»
(Resp. 414d-e)
Il Socrate platonico racconta questo
mito – «un qualcosa di fenicio» – per legittimare la gerarchia politica nel
momento dell'istituzione della polis che stava idealmente fondando. Ma
ha cura di dichiarare che si tratta di una menzogna, vergognosa, ancorché nobile (Resp. 414e). Platone costruisce artificialmente un mito ad uso
di una comunità immaginata, perché i suoi cittadini si vedano come
fratelli per la loro stessa natura, e non per una costruzione educativa. Come
mai un mito di questo tipo è così falso che ci si sente in dovere di
precisarlo?
Per Platone, quello che noi siamo
dipende dalla nostra cultura ed educazione, e non dalla nostra natura[14]: ma la logica
dell'identità politica richiede che i cittadini si credano parte di una entità
collettiva che preesiste rispetto a loro. C'è bisogno di raccontare questa
storia perché la loro comunità è soltanto immaginata: l'architettura del mito
serve a imporla nei loro cuori.
Il merito di Platone consiste nel
rendere esplicito che i ragionamenti pratici basati sull'identità sono
necessariamente una menzogna[15].
Chi ha davvero una identità precostituita non si domanda che cosa deve fare, ma
si limita a seguire la sua natura. Se colui del quale raccontiamo la storia ha
bisogno di chiederselo – come una agente non predeterminato, ma libero –
significa che l'identità che di lui raccontiamo in effetti non c'è. I narratori
di miti vogliono costringerlo in una comunità che non ha affatto scelto,
facendogli anzi credere che non occorre scegliere, perché egli è già dato in
quel modo, come se fosse spuntato dalla terra.
Ma alla fine del decimo e ultimo libro
della Repubblica, Socrate racconta la storia diversa, e straordinaria,
di Er, soldato valoroso caduto in battaglia, che, dato per morto, ritorna in
vita con la memoria dell'aldilà. Le anime dei morti, dopo aver attraversato un
millennio di ricompensa o di espiazione – un tempo dunque lunghissimo ma
finito, eccezion fatta per i tiranni – vengono condotte davanti alle tre Moirai,
le divinità greche del destino, e ascoltano l'annuncio di un araldo:
«Parole della vergine Lachesi, figlia di Ananke: anime, che vivete solo un giorno (ephémeroi) comincia per voi un altro periodo di generazione mortale, portatrice di morte (thanotephòron). Non vi otterrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto. La virtù (areté) è senza padrone (adéspoton) e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio (theos) non è responsabile» (Resp. 617d).
Per la mitologia greca, il daimon è la creatura divina che presiede alla sorte di ciascuno di noi. Ma nel
racconto di Er il daimon non è il nostro destino, bensì la nostra
scelta, fra una molteplicità di paradigmi di vita offerti in opzione. La
maggioranza sceglie sulla base delle abitudini della vita precedente:
Agamennone, per esempio – riferisce Socrate con umorismo – sceglie la vita di
un’aquila, mentre Odisseo, stanco di avventure, la vita tranquilla di un
privato (Resp. 620a ss.). Prima di tornare al mondo, le anime vengono
abbeverate al fiume Amelete (trascuratezza, incuria), che fa loro
dimenticare tutto. Er, però, viene trattenuto dal bere e ritorna dai morti con
la memoria del suo mito. Memoria che – conclude Socrate – anche noi potremo
conservare, se attraverseremo bene il Lete e seguiremo la via ascendente
della giustizia e del discernimento, per trovarci bene in questo mondo e
nell’altro millenario cammino (Resp. 620d ss.), che si svolge
nell'aldilà.
Anche il racconto di Er è un mito
sull'identità. In questo caso, però, essa è l'esito di una scelta e non una
menzogna, ancorché nobile, pensata per predeterminare le scelte politiche dei
cittadini. Quello che siamo lo scegliamo noi: perfino nel mondo classico della
necessità e del destino è possibile diventare diversi e migliori. Platone scherza
sul contenuto delle scelte – essere uomo, donna, aquila o guerriero – perché
quello che conta veramente, per lui, non è l'identità, ma la libertà che le sta
dietro e a cui dobbiamo credere, se vogliamo farla diventare vera. Soltanto i
tiranni, per punizione, rimangono ancorati a una sola identità in eterno:
essendo ossessionati dall'ego e dal potere, si privano del piacere di
esplorare, di discutere e di sperimentare e rimangono prigionieri della
monotonia della loro anima. Ma tutti gli altri, nel mondo di Er, hanno dinanzi
a sé un numero indefinito di virtualità, se solo sanno scegliere liberamente e
ne rimangono consapevoli.
Per imparare e per discutere non ho
bisogno di essere incatenata a una identità; ho bisogno, invece, di credermi
libera – libera dalle mitologie politiche e dalla gerarchie sociali. Chi ha
letto il libro di Howard Rheingold, The Virtual Community[16], e ha partecipato a
gruppi di discussione on-line, godendo della possibilità di scegliere se
essere anonimo o pseudonimo, capisce in che senso Platone ha ragione.
L'abolizione delle gerarchie della vita reale produce ambienti spesso rumorosi,
ma una circolazione dell'informazione assai più ricca e delle discussioni molto
più libere, dalle quali chi sa controllare il medium[17]può imparare
moltissimo. Nel mondo delle idee, l'anello di Gige non è pericoloso.
Nella Repubblica il mito menzognero
dell'identità politica convive con la storia straordinaria della libertà
derivante dalla possibilità di rendere provvisorio e opzionale quanto
identifica storicamente gli individui. La politica, da parte sua, ha a che fare
col mondo delle disuguaglianze, degli interessi materiali, della povertà, della
retorica del potere; essa non si può risolvere interamente in sapere senza
incatenare la conoscenza libera a una ideologia ufficiale. Platone, di questo,
era consapevole fino alla contraddizione. Ma era altrettanto consapevole che il
mondo della conoscenza funziona in modo diverso: la condivisione e la
discussione hanno bisogno che chi vi partecipa possa compiere le sue scelte e
raccontare le sue storie.
Non è casuale che oggi coloro che
vogliono imporre i propri miti, per interessi governativi o commerciali, temano
la rete e vogliano ridurla sotto il loro controllo. I loro disegni avranno
successo, se ci dimenticheremo che la possibilità di essere diversi da quello
che altri hanno fatto di noi e di pensare nuove città nei discorsi è una
ricchezza a cui non si può rinunciare.
pievatolo@dsp.unipi.it
[1] D. SEARLS - D. WEINBERGER, World of Ends. What the Internet Is
and How to Stop Mistaking It for Something Else: <http://worldofends.com/>.
[2] D. SEARLS - D. WEINBERGER, Regno dei fini. Che cos'è internet e come smettere di scambiarla per qualcos'altro, “Bollettino telematico di filosofia politica” <http://bfp.sp.unipi.it/rete/worldofends.htm>. Il concetto di regno dei fini si ritrova nella Fondazione della metafisica dei costumi (1785): «agisci secondo massime di un membro universalmente legislatore in vista di un regno dei fini semplicemente possibile» (GMS, IV 439). Il regno dei fini si realizzerebbe se le massime conformi all'imperativo categorico fossero seguite universalmente. Dal momento che l'imperativo categorico prescrive la coerenza, ne deriverebbe un coordinamento di tutti i fini possibili in una totalità sistematica. In altre parole, si potrebbe dire che l'imperativo categorico, in quanto formale, è un protocollo contenutisticamente stupido: proprio questo gli rende possibile contenere, entro i limiti della sua architettura, una straordinaria varietà di fini.
[3] D. SEARLS - D. WEINBERGER, cit., § 7.
[4] A. TURING, Macchine calcolatrici e intelligenza, in V. SOMENZI (a cura di), La filosofia degli automi, Bollati Boringhieri, Torino 1965, pp. 140-42 (Computing Machinery and Intelligence, “Mind”, vol. 59, 1950, pp. 433-60; disponibile in rete presso <http://www.abelard.org/turpap/turpap.htm>).
[5] F. DONATO, "Macchine calcolatrici e intelligenza" di A. Turing, in I media telematici come strumento per la comunicazione scientifica, “Bollettino telematico di filosofia politica”, <http://bfp.sp.unipi.it/dida/telema/apas02.html>.
[6] B. ANDERSON, Imagined Communities, Verso, London-New York 1991, chapt. 3 (tr. di M. Vignale, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 55 ss.).
[7] S. TURKLE, Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, Simon and Schuster, New York 1995 (tr. it. di B. Parrella, La vita sullo schermo, Apogeo, Milano 1998).
[8] Ivi, pp. 9-28 (pp. IX-XXXIII tr. it.).
[9] R. STALLMAN, Can you trust your computer?, trad. it. Puoi
fidarti del tuo computer?, “Bollettino
telematico di filosofia politica”
<http://bfp.sp.unipi.it/rete/stallman.htm>.
Si vedano anche
gli articoli di Alessandro Bottoni,
<http://punto-informatico.it/cerca.asp?s=%22alessandro+bottoni%22&B=CERCA&r=PI>
e di Marco Calamari <http://punto-informatico.it/cerca.asp?s=%22marco+calamari%22&B=CERCA&r=PI> per “Punto informatico”, nonché
<http://www.no1984.org>.
[10] Bentham espose il suo progetto in una lettera del 1787, visibile per esempio in L. LEFAIVRE - A. TZONIS (eds.), The Emergence of Modern Architecture, Routledge, London 2004, p. 445.
[11] La crittografia, in rete, non è uno strumento da criminali e da servizi segreti, ma è indispensabile per proteggere la privacy di chiunque. Su questo tema si consiglia il sito del “Progetto Winston Smith” <https://winstonsmith.mixmaster.it/pws/index.html>.
[12] Si veda L. LESSING, Free Culture. How Big Media Uses Technology and the Law to Lock Down Culture and Control Creatività, The Penguin Press, New York 2004.
[13] G. CERRI, Platone sociologo della comunicazione, il Saggiatore, Milano 1994, pp. 17-37.
[14] Si veda S.M. OKIN, Women in Western Political Thought, Princeton University Press, Princeton 1979, pp. 51-70.
[15] Si veda F. REMOTTI, Contro l'identità, Laterza, Roma-Bari 2001.
[16] H. RHEINGOLD, The Virtual Community, <http://www.rheingold.com/vc/book/>.
[17] Si
veda il sito dell'hacker finlandese Fravia <www.searchlores.org>.