Premessa
Scrivere un profilo breve su Luigi Sturzo è impegnativo, per più motivi. Perché è uno di quei casi in cui il rischio apologetico può essere insorgente nella vastissima bibliografia, dato che quella del prete siciliano è una figura politicamente militante che ha peraltro impattato nella storia contemporanea italiana in modo decisivo. Si tratta del fondatore di quel partito nel quale si è riversata l’esperienza del movimento cattolico italiano, e cioè l’aspetto politico più importante nella storia del Paese dal Risorgimento in poi. Inoltre la stessa longevità politica di Sturzo, dalle esperienze amministrative locali a quelle politiche nazionali che si estendono fino al secondo dopoguerra, accompagnate sempre da un’intensa riflessione teorica, impongono un arduo problema di scelta, se si vogliono evitare i brevi cenni sull’universo. E pertanto si è deciso qui di concentrarsi su due aspetti che appaiono fondamentali e si sottraggono il più possibile a un taglio parziale e arbitrario. Si tratta di due snodi peculiari del pensiero e dell’azione di Sturzo, posto che nel suo caso sia possibile districarsi in una tale dicotomia. E quindi insieme all’importanza epocale della costituzione del PPI, si è tentato di dare conto delle matrici culturali e il portato teorico del popolarismo sturziano, per apprezzare i quali è naturalmente necessario il rapporto al contesto storico ed intellettuale. Insomma, prendendo le mosse da uno spunto, sobrio e per ciò stesso più efficace, di Giuseppe Galasso, «mi pare che non si debba dubitare che la grande impresa storica di Sturzo sia stata il Partito popolare, ovviamente non partendo dal gennaio 1919, ma dagli anni di “gestazione” del Ppi. Sturzo resta anche nella politica italiana per quello che egli ha pensato e realizzato tra gli anni che precedono e gli anni che seguono la prima guerra mondiale» (Galasso 1990, p. 440). Da qui, appunto, tenteremo di proporre una riflessione su Luigi Sturzo.
1919. La svolta di Santa Chiara. Il Partito Popolare Italiano e la ricomposizione della nazione
Nelle sue lezioni sull’Italia contemporanea tenute alla Sorbona del 1950, raccolte dall’editore Einaudi nel 1961, Federico Chabod delinea una interessante periodizzazione, un arco che va dal 1918 al 1948. Di fatto, è una storia del fascismo, la sua genesi, il crepuscolo e gli albori della Repubblica. O per meglio dire, dell’Italia che si inoltra nel tunnel della dittatura. Il saggio è prezioso per gli spunti storiografici e politologici che contiene. In realtà, nonostante il titolo, fin dalla pagina iniziale (come ha anche opportunamente rilevato Flavio Felice nella più recente ed aggiornata monografia sturziana) l’anno a cui viene data enfasi è il 1919: «È questa la data da cui dobbiamo prendere le mosse, il momento in cui avvertiamo un rivolgimento profondo nella vita italiana, rispetto a quella che ci appariva nel 1914, prima della guerra mondiale» (Chabod 1961, p. 20).
È un aspetto su cui Chabod insiste, con una panoramica geopolitica e socioeconomica dell’Italia che si appresta ad affrontare il dopo guerra con un quadro che solo apparentemente sembra, alla vigilia della conferenza di pace di Parigi, favorevole, con la fine dell’impero asburgico che espandeva i propri domini nel nord-est italiano. E che in realtà nasconde una situazione di grave crisi economica e di isolamento internazionale. Da Vittorio Veneto alla “vittoria mutilata” passano solo un paio di mesi, con un clima incandescente che si riversa sulla condizione occupazionale - dalle fabbriche alle campagne - che diviene drammatica.
In questo decisivo frangente storico, il 18 gennaio del 1919, Luigi Sturzo, da un albergo nel centro di Roma e insieme ad alcuni amici, lanciò l’appello Ai liberi e forti con il quale veniva fondato il Partito Popolare Italiano (Guccione 2010, p. 53). «Per certi aspetti, esso costituisce un fatto di estrema importanza, l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente: il ritorno ufficiale, massiccio, dei cattolici nella vita politica italiana» (Chabod 1961, p. 43).
Si tratta di un punto su cui occorre insistere. Nella riflessione contestuale agli avvenimenti, il 1° novembre del 1919 Antonio Gramsci su L’Ordine Nuovo, il periodico da lui fondato (insieme a un gruppo di intellettuali socialisti), il 1° maggio di quell’anno scriveva:
la costituzione del Partito Popolare ha una grande importanza e un grande significato nella storia della nazione italiana. Con essa il processo di rinnovazione spirituale del popolo italiano, che rinnova e supera il cattolicismo, che evade dal dominio del mito religioso e si crea una cultura e fonda la sua azione storica della società, assume una forma organica, si incarna diffusamente nelle grandi masse. La costituzione del Partito popolare equivale per importanza alla Riforma germanica, è l’esplosione inconscia irresistibile della Riforma italiana (Gramsci 1978, p. 42).
L’intellettuale sardo, molto sensibile alla questione dirimente della storia italiana costituita dalla presenza della Chiesa cattolica, individuava la portata epocale della novità. La sostanza dei fatti restituiva oggettivamente la consapevolezza diffusa che la nascita del Partito Popolare rappresentava lo snodo storico decisivo dell’Italia da quando, dopo il 1860, era iniziato il processo di unificazione (cfr. l’esemplare saggio di Tesini 1990, pp. 349-410). E ciò nonostante gli accenti critici se non ostili su cui da destra e sinistra si vide il sorgere del partito dei cattolici: «La pubblicistica liberale e socialista del tempo fu inutilmente astiosa e cattiva nei confronti del partito liberale, immeschinendosi nella polemica se esse prendesse ordini o meno dal Vaticano e ricorrendo ancora a un linguaggio che purtroppo risentiva del tono delle vecchie polemiche clericali del periodo risorgimentale» (De Rosa 2017, p. 16)
In effetti, l’operazione politica del prete siciliano andava a sanare il non expedit, che aveva indebolito pericolosamente le neonate istituzioni nazionali mettendo a repentaglio il traguardo eccezionale della aspirazione secolare all’unità. Così l’ingresso ufficiale e convinto delle masse cattoliche nella vita pubblica del Paese poteva dirsi - per certi versi paradossalmente se l’angolo visuale rimane la breccia di Porta Pia - il compimento dello stesso Risorgimento. Dal 1860 al 1919, i sessant’anni di vita del regno d’Italia erano stati via via attraversati da incredibili prove. Il primo parlamento di Palazzo Carignano, che può contare su una base di legittimità assai esigua (ha diritto al voto nemmeno il 2 per cento della popolazione), deve immediatamente affrontare la lacerazione della sinistra, divisa tra repubblicani intransigenti e riformisti. La scomunica di Mazzini a Crispi ricadeva su quel risorgimento democratico che intendeva seguire la via elettorale contro la tentazione sovversiva. I fatti di Aspromonte e Mentana erano le punte delle spinte rivoluzionarie ancora presenti nel Paese. A quella laica, che rischiava di privare l’ordinamento unitario di un suo fondamento essenziale, si aggiungeva la scomunica di Pio IX, che indicava alla società cattolica, che coincideva di fatto con la popolazione italiana, la natura demoniaca del nuovo stato liberale, che aveva in Roma, la città dei papi, la sua preda designata. E così, mentre la questione romana metteva una grave ipoteca al già precario assetto istituzionale e all’inedito equilibrio geografico dello stato, l’altra questione, quella delle terre irredente, apriva la via alla partecipazione dell’Italia al primo conflitto mondiale, da cui il Paese sarebbe uscito alla fine, come detto, vittorioso e squassato.
Qui si apre lo spazio per cogliere il ruolo di Sturzo nella storia politica nazionale. Ed è appropriata l’idea di Giuseppe Galasso, che riprendendo la fondamentale biografia di De Rosa, ne ha “spostato” l’interpretazione, riconoscendo nell’azione del prete calatino non già la “scoperta della politica” da parte dei cattolici, come voleva De Rosa, ma “la scoperta dello stato”: «con Sturzo si ha la definitiva accettazione e il definitivo riconoscimento da parte del cattolicesimo politico italiano della irreversibilità del processo risorgimentale. Irreversibilità dello Stato unitario, irreversibilità della necessità di accettare le regole del gioco politico del liberalismo e della democrazia dei moderni» (Galasso 1990, p. 441).
Perciò, la “svolta di Santa Chiara” è l’evento storico risolutivo del lungo processo di unificazione, che sarebbe rimasto monco ed incerto fintantoché avesse avuto l’ostilità o l’estraneità dei cattolici. Con un programma che coniugava le classiche istanze della dottrina sociale della Chiesa («integrità della famiglia», «libertà d’insegnamento in ogni grado», lo «sviluppo della cooperazione», «libertà e indipendenza della chiesa nella piena esplicazione del suo magistero spirituale»), alle prospettive più innovative (riforma elettorale in senso proporzionale, voto alle donne, decentramento amministrativo e valorizzazione delle autonomie locali, riconoscimento dei sindacati, adesione al programma wilsoniano della Società delle Nazioni), l’Appello permetteva a Sturzo anche di coinvolgere le diverse correnti del composito movimento cattolico, da quelle più radicali e progressiste ad altre liberali e conservatrici. Un manifesto politico in cui è palpitante la situazione di incertezza e di crisi di quel 1919 - il proclama è rivolto a quanti «in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria» - ma che diviene, nelle parole del massimo biografo del prete calatino, Gabriele De Rosa, «uno dei documenti più elevati e di maggiore impegno civile della nostra letteratura politica, una carta d’identità perfettamente laica, senza riserve e pregiudiziali clericali di nessun genere, espressione singolare di una consapevolezza altamente liberale dei problemi di un moderno Stato democratico, uscito dal dramma del primo conflitto mondiale» (De Rosa 1977, p. 194).
Naturalmente tutto questo fu il portato di una lunga preparazione, di un lento cammino di avvicinamento, ispirato e sorvegliato dal Vaticano, e di cui Sturzo fu, al momento opportuno e in circostanze favorevoli, il più sagace e capace interprete (in modo mirabile, cfr. De Rosa 1985, p. 205); nonché la risposta a specifiche contingenze storiche che derivavano dalla crisi postbellica nella quale i due avversari storici, lo stato e la chiesa, si ritrovarono a convergere per fronteggiare un comune nemico che si aggirava per l’Italia e che trovava nella rivoluzione russa del 1917, lo spartiacque epocale della storia contemporanea, il proprio faro ed alimento ideale.
1919. La «maledetta legge elettorale» e «il piccolo prete intrigante»
Dopo il disastro di Caporetto il presidente del Consiglio Boselli si dimetteva. Gli succedeva il suo ministro degli Interni, Vittorio Emanuele Orlando, che avrebbe guidato il Paese al riscatto militare con la resistenza sul Piave e la battaglia di Vittorio Veneto. Sul piatto della mobilitazione del nuovo governo vi era anche la promessa di una nuova legge elettorale a suffragio universale maschile, che abbatteva le ultime limitazioni di età, censo ed istruzione presenti nella legge giolittiana del 1912. Promessa mantenuta alla fine del 1918, ma la disfatta diplomatica del governo alla conferenza di pace di Parigi, che si apriva nel giorno stesso dell’appello sturziano ai liberi e forti, e che raggiunse il suo apice quando il presidente americano Wilson si rivolse direttamente agli Italiani scavalcando la delegazione italiana che resisteva alle proposte degli Alleati, finiva con l’esporre l’Italia a una forte crisi politica interna, alimentando le correnti nazionaliste che trovarono in D’Annunzio il loro vate. Mentre l’altro leader della destra, Mussolini, nel marzo di quell’anno fondava i Fasci Italiani di Combattimento, con Il Popolo d’Italia che ne diveniva l’organo di stampa ufficiale. Le dimissioni di Orlando portarono alla formazione di un nuovo esecutivo guidato da Nitti, fatalmente debole. Sul piano internazionale, sottoscrisse ciò che il suo predecessore platealmente aveva rifiutato di firmare abbandonando la conferenza. Sul piano interno, assecondando la spinta di quelli che oramai erano i soggetti politici più forti, il partito socialista e il partito popolare, introdusse il sistema proporzionale, che avrebbe portato nel novembre del 1919 alle nuove elezioni. Era un cambio di volta. Il suffragio universale maschile combinato con la proporzionale spazzava via di colpo un’epoca e una classe politica che aveva retto l’organizzazione del Regno d’Italia imperniato sullo Statuto Albertino e che si fondava sul notabilato selezionato nei collegi uninominali con il metodo maggioritario. Adesso entravano in scena le segreterie dei partiti, le loro organizzazioni territoriali, la propaganda capillare. La stessa libertà di cui aveva goduto il parlamentare del regime liberale, che poi aveva anche implicato le pratiche trasformistiche nelle contrattazioni personali del singolo deputato con il governo in carica, adesso veniva rigidamente controllata dal partito, il quale garantiva l’elezione dei propri deputati nei vari collegi in cambio di una severa disciplina nei gruppi parlamentari. La prevedibile vittoria elettorale dei due partiti di massa, il socialista (156 deputati) e il popolare (100 deputati), che insieme ottennero oltre il 52 per cento dei voti, e l’inesorabile e brusco declino delle personalità liberali (nella precedente legislatura del 1913 l’Unione liberale conta 270, quasi il 50 per cento dei consensi), cambiavano radicalmente la morfologia e le dinamiche parlamentari, nonché l’architettura istituzionale. Da quel momento ogni governo doveva affidare la propria esistenza ad almeno uno di questi due gruppi parlamentari, che di norma sarà il cattolico. Era anche un salto culturale e generazionale nella vita pubblica del Paese, la cui manifestazione più plastica era raffigurata dall’antitesi tra Sturzo e Giolitti.
Il fondatore del PPI era nato a Caltagirone nel 1871 e fu ordinato sacerdote nel 1894, una vocazione religiosa mai disgiunta da un forte impegno sociale e culturale e un’intensa attività politica iniziata nell’amministrazione comunale, divenendo pro-sindaco della propria città nel 1905. Dove, alla vigilia di quel natale pronunciò «un discorso basilare» (Guccione 2010, pp. 49-53), «vera pietra miliare del movimento cattolico italiano» (De Rosa 1985, pp. 17-31), sui problemi della vita nazionale dei cattolici che, sulla scia dei ricordi dello stesso Sturzo (cfr. De Rosa 1982, p. 56), viene considerato il presupposto dell’appello del ’19 (cfr. Felice 2020, p. 11; De Rosa 1977, pp. 100-101). Giolitti era invece il patriarca del liberalismo italiano. Legato alla tradizione sabauda sia pure aperto alle istanze progressiste della società, dopo la fase crispina era divenuto l’interprete politico dell’Italia di inizio secolo. Quando i cattolici esordiscono con il loro partito nella vita pubblica nazionale, lo statista piemontese ha 77 anni ed è stato già svariate volte ministro e in quattro circostanze, fin dal 1892, presidente del consiglio. Lo sarà ancora nel 1920, allorché Vittorio Emanuele III lo chiamerà al Viminale per sostituire Nitti tentando una risposta autorevole ed esperta alle lacerazioni del Paese del “biennio rosso”. Lì avverrà lo scontro con il segretario del PPI, che oltre ad essere un’avversione personale, denota l’incapacità della vecchia classe dirigente a cogliere la originalità della nuova epoca politica. Non si tratta soltanto di non afferrare la novità – che proprio Sturzo avrebbe definito ‘totalitaria’, del fascismo. Chabod cita al riguardo un discorso pronunciato alla Camera il 2 febbraio 1921 nel quale Giolitti concludeva i suoi ragionamenti e la propria strategia con un epilogo che oggi appare inevitabilmente grottesco: «Quindi non vi preoccupate. Durerà pochi giorni...». Seguendo ancora una volta un’acuta osservazione di Chabod, «il senso di tutto questo è che siamo di fronte a una crisi profonda, una crisi che i vecchi uomini di governo non sono capaci di comprendere, di cogliere nei suoi tratti essenziali, e perciò di dominare» (Chabod 1961, p. 68) È un errore tanto emblematico quanto fatale. L’anziano statista riteneva che dirigendo i prefetti e la polizia per un verso, e mediante la consueta abilità demiurgica dei capi parlamentari che consentiva loro di manovrare il parlamento, potesse arginare gli scontri sociali che avvenivano nel Paese, derubricati a un fatto comune e ciclico delle società. Risolta la questione di Fiume con la forza, gli squadristi potevano essere utilizzati in un progetto che mirava a costituzionalizzare il nascente fascismo. Di qui l’indizione delle elezioni del 1921, il cui unico risultato sostanziale fu l’ingresso di Mussolini alla Camera con una pattuglia di deputati fascisti. Ma un simile progetto doveva risultare velleitario nei riguardi del fascismo, e anacronistico nei rapporti parlamentari con le nuove formazioni politiche. Nella lettera di Giolitti a Luigi Ambrosini del 1° gennaio del 1923, vale a dire pochi mesi dopo il discorso del bivacco con cui Mussolini si presentava al parlamento come nuovo presidente del consiglio, vi è consegnata, ad insaputa del mittente, una straordinaria testimonianza del trapasso di una stagione politica. In quelle parole l’anziano liberale ricorda all’amico giornalista che «gli affari politici e soprattutto parlamentari non potevano continuare in questo modo senza portare il paese alla rovina. La maledetta legge elettorale aveva frazionato la Camera in modo da rendere impossibile un governo forte, capace di avere un programma. Si era arrivati a tal punto che un piccolo prete intrigante, senza alcune superiore qualità, dominava la vita politica italiana» (ivi, p. 69).
Naturalmente vi era, come detto, una reciproca insofferenza. Come riporta il massimo biografo del fondatore del PPI, «nessuna opposizione fu più radicale e continua come quella tra Giolitti e Sturzo» (De Rosa 1977, p. 217), e su questa antitesi la storiografia si concentra per individuare tra le cause maggiori del varco apertosi in seno al nascente antifascismo su cui si insinuò Mussolini. Luigi Salvatorelli lo evidenzia sulle vicende della crisi del governo Nitti, quando si profilò la possibilità dell’incarico a Giolitti: «Fin dall’inizio il volitivo leader siciliano apparve dominato da una ostilità irriducibile per il vecchio uomo di governo che doveva apparirgli troppo attaccato alle tradizioni liberali, laiche, centralistiche, parlamentati dello stato italiano» (Salvatorelli-Mira 1956, p. 136). Un’osservazione che riecheggia in passaggio di Renzo De Felice nella monumentale opera su Mussolini, secondo il quale Sturzo «vedeva nel giolittismo il principale ostacolo al rinnovamento della vita politica italiana e in Giolitti il maggior avversario del popolarismo» (De Felice 1966, p. 208).
Ma oltre quella ostilità tra personaggi a loro modo carismatici, l’aspetto essenziale riguardava il nodo politico della differente percezione dei tempi di passaggio nei quali tali personalità vivevano. Giolitti – e il suo ambiente, o perfino generazione come classe dirigente – mostrava l’incapacità di comprendere (o accettare) ciò che Sturzo, come segretario di un nuovo partito di massa, rappresentava in un sistema politico che si stava trasformando. Ovvero, di cogliere il cambiamento epocale che la prima guerra mondiale stava determinando sulle istituzioni unitarie ottocentesche, spazzate via da una nuova società sorta dalla mobilitazione bellica di massa e dalla "relativa" legge elettorale del 1919 che meglio la interpretava. Sull’altro lato, è significativa – e stridente con la posizione dell’anziano statista liberale – la concezione opposta espressa dal “prete intrigante”. In un articolo apparso su “Il Corriere d’Italia” il 24 aprile 1918, a pochi mesi dunque dalla fine della guerra, Sturzo auspicava un lavacro elettorale attraverso la legge proporzionale per rinnovare il parlamento, privato durante la guerra delle sue prerogative, per immettere le forze vive e rappresentative della società:
Il nostro Parlamento attraversa una crisi profonda: tutti notano che durante la guerra è stata sottratta al Parlamento quasi tutta la tumultuaria legislazione, fatta con decreti-legge (non tutti esaminati e concertati) perché la proceduta parlamentare non comporta la rapidità necessaria [...]. Critica vera, critica esagerata, il Parlamento [...] ha avuto una sola funzione notevole durante la guerra: quella di evitare la dittatura politica [...]. Questo Parlamento, che oggi proroga di un anno la sua esistenza, deve essere rifatto da un lavacro elettorale che non può lasciare permanere le torbide acque del personalismo politico [...]. Abbiamo bisogno di elevare il corpo elettorale dalla pressione personale alla concezione delle idee e dei partiti: noi non vogliamo che il deputato si appoggi ai preti e che si finga loro amico in provincia e sia avversario dei loro princìpi alla Camera [...]. Abbiamo bisogno di creare le correnti ideali, centralistiche, attraverso la base di coalizioni locali vive e di programmi. Ecco perché sosteniamo il collegio plurinominale a larga base (e non per provincia) e con rappresentanza delle minoranze (Sturzo 1918, in De Rosa 1985, pp. 215-216).
Erano due mondi che non comunicavano, nonostante i popolari fossero presenti nell’ultimo governo Giolitti, con un appoggio ambiguo, come lo ha definito lo storico Massimo Salvadori. Una incomprensione che rendeva distanti il presidente del Consiglio e il segretario del partito di maggioranza, che si rivelò fatale quando Sturzo per ben due volte non appoggiò la formazione di un nuovo ministero Giolitti e il re chiamò, la prima volta, Luigi Facta, la seconda, Benito Mussolini.
L’antitesi. Popolarismo e totalitarismo.
Dopo il delitto Matteotti, il campo poteva dirsi ormai delineato tra autocrazia e libertà, fascismo e antifascismo. Sul piano formale, furono le leggi fascistissime, e in particolare quella sulle nuove prerogative e attribuzioni del capo di governo del 24 dicembre del 1925, a instaurare “giuridicamente” la dittatura. Ancora una volta Sturzo, come Gaetano Mosca al Senato (l’unico parlamentare che prese la parola per esprimere il proprio dissenso), denunciò in modo inappellabile i termini della questione:
Se lo statuto di Carlo Alberto resta in vigore, la legge sulle attribuzioni del capo di governo e quelle sulla stampa e sulle associazioni modificano la sostanza della costituzione italiana. La dittatura di fatto, sostenuta da una milizia di partito e da una fazione predominante, è divenuta dittatura di diritto. La monarchia rimane costituzionale di nome: ma come può esercitare il suo diritto di libera scelta del governo, se la dittatura impedisce l’esistenza stessa di una opposizione costituzionale e la formazione delle correnti politiche che creano l’equilibrio delle forze nel parlamento e nel paese? (Sturzo 1965, p. 92).
Ma era il concetto stesso di dittatura che non soddisfaceva i primi oppositori, poiché nella loro analisi il movimento di Mussolini preludeva ad esiti che avrebbero fatto del regime il prototipo storico di quello che l’analisi politologica e la riflessione filosofica avrebbero definito proprio con il termine inventato ad hoc nei primi anni Venti dagli antifascisti: totalitarismo. Le riflessioni congiunte di Giovanni Amendola, Luigi Sturzo, Lelio Basso, costituiscono il nocciolo concettuale della critica antitotalitaria al regime nascente. Il 30 marzo del 1923 su «Il Mondo», il giornale fondato da Amendola e che assunse una strenua opposizione al regime, replicando a un articolo di Mussolini apparso su «Gerarchia» dal titolo Forza e consenso, commentava che il fascismo era «inconciliabile non soltanto con la dottrina liberale, ma con qualsiasi filosofia politica, se si eccettui qualche forma autocratica di tipo orientale» (Gentile 2012, p. 275). Alcuni mesi dopo, all’indomani delle sue dimissioni da segretario del partito, Sturzo scriveva un articolo, poi pubblicato nel libro Popolarismo e fascismo apparso nel 1924, nel quale esprimeva l’idea che «il fascismo vuole uomini, fidi, devoti, come singoli, senza riserva; poiché il fascismo non ammette discussioni: vuole essere adorato per sé, vuole arrivare a creare lo stato fascista» (Sturzo 1956, p. 184). Un nuovo dispotismo, dunque, che deificava lo stato, stava per sorgere non più ad Oriente, come un’antica tradizione aveva insegnato, ma nel cuore dell’Europa.
La tendenza prevalente - continuava Sturzo - è quella della trasformazione totalitaria di ogni e qualsiasi forza morale, culturale, politica, religiosa in questa nuova concezione: la “fascista”. E poiché le menti non si piegano né le coscienze si trasformano è fatale che si pieghino le teste e le ginocchia con l'uso della forza esterna (ivi, p. 235).
Ciò che rende originale la riflessione di Sturzo è che una tale analisi sia l’esito di una considerazione più vasta e articolata sull’evoluzione dello stato moderno, in virtù della quale riuscì a “prevedere” l’evoluzione stessa del movimento mussoliniano e le sue potenzialità totalitarie ben prima che occupasse lo stato e si consolidasse il regime. Ed è quindi dal concetto sturziano di «panteismo di stato» che doveva scaturire il neologismo destinato a costituire una nozione cardine delle scienze sociali del Novecento (Gentile 1995, pp. 148-152). In svariate occasioni Sturzo lega la statolatria, iniziata in età moderna e i cui emblemi diventano Machiavelli e Lutero, all’approdo totalitario novecentesco, il cui apice è la guerra mondiale. «Lo stato moderno può considerarsi come il più forte e il più prolungato tentativo di unificazione sociale che sia mai avvenuto nei paesi di civiltà occidentale» (Sturzo 1960, p. 247), scrive nel 1935 in La società: sua natura e leggi. E riprende in Chiesa e Stato: «esaminando il carattere dello stato moderno e del suo sviluppo logico verso lo stato laico, ne abbiamo intravisto come sbocco naturale, lo stato totalitario» (Sturzo 1959, p. 168). Una tale peculiarità è ulteriormente descritta in modo inequivoco nel 1938 in Politica e Morale: «Gli stati totalitari sopprimono la libertà politica e diminuiscono la libertà personale con l’ingerenza statale nell’atteggiamento del pensiero (Sturzo 1972, p. 36).
Tuttavia è estremamente interessante notare, non solo per l’esegesi del pensiero sturziano ma nel complesso per la storia del pensiero politico e per le origini della riflessione teorica sul nascente totalitarismo, che simili riflessioni si trovano già perfettamente delineate fin dal 1922, pochi mesi dopo la marcia su Roma, quando nella Introduzione a Riforma statale e indirizzi politici, una raccolta di discorsi tenuti tra l’ottobre del 1920 e il 9 gennaio del ’22, dove, analizzando la situazione politica dell’Italia, Sturzo si riferisce alla "concezione totalitaria dello stato", un’espressione che forse per la prima volta appare in un documento scritto dell’epoca:
La concezione dello stato etico (nel senso di assoluto morale o primo etico della società) ha un naturale rapporto con la concezione dello stato panteista; cioè con due facce della medesima concezione dello stato panteista; cioè son due facce della medesima concezione teorica. Tutto il processo del secolo XIX, fino allo scoppio della guerra, è in funzione di una iper-valorizzazione statale, come sintesi assoluta di tutte le energie, anche economiche, e come un ferreo dominio di ogni attività umana, assorbita e costretta nella cerchia dell’organismo statale; le forme di libertà, conquistate contro l’organizzazione economica e politica dei governi assoluti ricostituiti dopo l’impero napoleonico, sono oggi divenute forme esterne, quasi prive di contenuto morale, a tutela dei monopoli di fatto, politici ed economici. Il clima politico ha ora accentuato ora limitato una simile concezione totalitaria dello stato; nel fatto, l’accentramento statale ha pervaso tutte le energie etiche, culturali ed economiche, dandovi un aspetto quasi religioso verso una nuova deità (Sturzo 2003a, p. 109; cfr. D’Addio 2009, pp. 197-238; Scichilone 2013).
Poco tempo dopo Giovanni Amendola, in alcuni apparsi su «Il Mondo» (il 5 aprile e il 12 maggio del 1923), indica il fascismo come "sistema totalitario", ovvero come «promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa».
Erano i mesi in cui si discuteva in Parlamento la nuova legge elettorale voluta da Mussolini, che introducendo un premio spropositato di maggioranza alla lista che avesse superato il 25 per cento dei consensi avrebbe finito con il fascistizzare la Camera. Votata a grande maggioranza, quell’atto è stato definito dallo storico Sabatucci il “suicidio della classe liberale”. Tra le vittime di quel percorso vi fu proprio Sturzo, la cui opposizione alla proposta di legge Acerbo lo pose in contrasto con tanti deputati popolari favorevoli alla legge costringendolo a lasciare il 10 luglio del 1923 la segreteria del partito. Il 21 luglio il disegno di legge sulla riforma elettorale poteva essere approvato dalla Camera. Ma c’era di più: «La voce allora corrente, che attribuiva le dimissioni a pressioni del Vaticano, era fondata» (Gentile 2010, p. 146). Ormai sulla via che conduceva il duce verso il potere assoluto vi era il prete siciliano, che la Chiesa era disposta a sacrificare sull’altare di quei riconoscimenti e garanzie che lo stato liberale ottocentesco era stato restio a concedere. Il momento apicale della irriducibile avversione del fascismo nei confronti del prete siciliano fu segnata dalla memorabile e drammatica "condanna" del Gran Consiglio del Fascismo del 1° agosto 1923 in cui veniva scritto che occorreva «considerare questo torbido e imbelle prete siciliano e il suo partito nemici del governo e del fascismo» (De Rosa 1966, p. 407). Le elezioni del 6 aprile del 1924 avrebbero sancito il progetto mussoliniano. Commentando l’inevitabile successo del partito fascista, Sturzo rievocava con scoramento il congresso del PPI tenutosi a Torino esattamente l’anno precedente: «fu quello il primo e l’unico vero congresso politico italiano dopo la marcia su Roma; e il primo risveglio di una coscienza politica autonoma dopo la mortificazione totalitaria e livellatrice del fascismo stato-nazione contro ogni altra corrente di idee politiche, che si concretizzi in partito e aspiri alla vita». E la conclusione non poteva essere meno sfiduciata: «Quale sarà il nuovo ordine di cose non sappiamo: non abbiamo fiducia che cambi il ritmo totalitario, che svanisca il sogno dittatoriale, che ritorni il nostro regime costituzionale e la nostra base democratica» (Sturzo 2003b, pp. 26-27).
Era il preludio dell’esilio, da dove Sturzo tenacemente continuava la sua battaglia antifascista. Nel 1926 veniva pubblicato a Londra Italy and fascism, dove Sturzo proponeva per la prima volta in lingua inglese le parole totalitarian e totalitarism. Il neologismo diventava internazionale. Parlando di «totalitarismo fascista» e - a proposito della legge Acerbo - del «sistema “totalitario” fascista», il fondatore del Partito Popolare Italiano dava rinomanza planetaria al termine, consolidando per sempre quel significato che alcuni intellettuali avevano inteso conferire al fascismo di Mussolini. Esattamente nel senso con cui il vocabolo sarebbe stato acquisito dal lessico politologico e dunque utilizzato nel titolo del più celebre libro sull’argomento, che sarebbe apparso in America alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Tutto questo era nato con l’Appello ai liberi e forti.
Quando nel 1939 rievocherà quei giorni, lontano dalla patria, scriverà: «il popolarismo era l’antitesi dello stato totalitario; nacque nell’immediato dopo guerra, perché si presentiva che la crisi più grave era la crisi dello stato, il quale andava verso le concezioni totalitarie» (Sturzo 1959, p. 168).
Sarebbe tornato in Italia dopo un esilio ventennale, nel 1946, quando il Paese aveva già sancito l’opzione repubblicana con il referendum istituzionale e la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi si apprestava ad incarnare il ruolo di partito-stato. Sturzo, che aveva ostinatamente evitato di usare l’aggettivo “cattolico” per il partito nel 1919, non vi aderì, e sostanzialmente sarebbe rimasto estraneo ai percorsi politici di quel dopoguerra, in cui avanzava una nuova generazione di politici. Sarebbe scomparso nel 1959 all’età di ottantotto anni. Con lui se ne andava una figura eminente del cattolicesimo politico europeo e tra le figure più alte dell’antifascismo, la cui eredità è stata poi contesa, più o meno legittimamente, da quanti hanno ritenuto di ispirarsi al suo pensiero, ignorandone probabilmente il rigore morale e la coerenza teorica che lo avevano portato a un’intransigente lotta a favore della libertà.
Riferimenti bibliografici
Chabod F. (1961), L’Italia contemporanea 1918-1948, Einaudi, Torino.
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