Pensare l’umano è, forse, la sfida più affascinante che la filosofia ha oggi di fronte. Lo scenario attuale presenta una costellazione di questioni e dilemmi attorno alla “natura umana” che sollecitano la riflessione razionale a muoversi in avanti, senza dimenticare però il cominciamento dell’interrogazione filosofica nei grandi sistemi classici. Infatti, l’interrogazione sull’essere umano, sui suoi fini e sulle sue modalità d’essere nel mondo pare tornare di grande attualità, alla luce di inusitati orizzonti di trasformazione della comprensione di ciò che davvero l’uomo è nella sua specificità. Si tratta di domande che in un'unica mossa tengono insieme livello pratico e livello teorico, fisica e metafisica, ontologia e politica, antropologia ed etica. Inoltre, le possibilità di cambiamento e potenziamento delle qualità umane attraverso la tecnica e gli scenari aperti dal post-umanesimo sollecitano ulteriori interrogativi circa il limite etico di queste variazioni e se questo limite possa essere agganciato, in qualche modo, a un livello normativo naturale. Tutto ciò trova ampio spazio non solo nei circuiti filosofici in senso stresso, ma in anni recenti anche nel dibattito pubblico e in quello relativo alle questioni specificamente bioetiche. Da questo punto di vista la domanda antropologica “che cos’è l’uomo?” torna in modo icastico, nonostante la conclamata fine dei fondamenti e l’eclissi del tempo delle virtù in ragione di un più “tollerante” tempo della giustizia. In verità la stagione nichilistica in cui ci muoviamo rende tutto non solo meno stabile, ma soprattutto non stimola un pensare radicale capace di interrogare a fondo l’esperienza umana e le sue tensioni profonde. Piuttosto «stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia. Perché nel disincanto non vi è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare» (Volpi 1996, p. 117).
Una voce in qualche modo dissonante è quella di Habermas. Non nel senso di un ritorno a un’antropologia di stampo classico, vincolata a presupposti ontologici. Né attraverso una negazione totale, sul solco moderno, della possibilità stessa del domandare sull’umano. Nel filosofo tedesco, invece, lo sforzo di tornare all’uomo mi pare si concretizzi nel cercare alcuni fondamenti normativi dell’essere-con-altri e nel tentativo, molto originale e organico, di pensare la natura sociale dell’uomo o, se si vuole, la naturale socievolezza dell’individuo. Nel far questo si espone a una tendenziale naturalizzazione dell’umano, che ne fa un ente tra gli enti privandolo di differenza specifica. Habermas è consapevole che negare specificità alla natura umana può condurre, in sede di giudizio morale, alla perdita del vincolo normativo universale; la prospettiva etica verrebbe così legata strutturalmente alla dimensione culturale e alla pluralizzazione delle forme di vita.
Rileggendo le note indicazioni aristoteliche sulla politicità dell’animale razionale, il pensatore tedesco scrive: «Esistono parecchie specie di animali che vivono socialmente. […] Ma ciò che distingue l’uomo non sono soltanto le forme di convivenza sociale. Per riconoscere l’unicità della natura sociale dell’uomo, bisogna tradurre alla lettera la ben nota formulazione aristotelica per la quale l’uomo è un zoon politikòn. L’uomo è un animale politico, vale a dire vivente nello spazio pubblico. O, più precisamente: l’uomo è un animale che solo grazie al suo originario inserimento in una pubblica rete di relazioni sociali sviluppa le competenze che fanno di lui una persona» (Habermas 2007, p. 6). Tale “condizione” pubblica e intersoggettiva fa emergere come l’essere umano sia caratterizzato da una naturale relazionalità, che lo porta a riconoscere legami fondamentali per la costruzione del proprio sé e, nello stesso tempo, lo connette continuamente all’altro in una dialettica infinita che segna la sua identità e il suo carattere. «Se confrontiamo – continua Habermas – il corredo biologico di mammiferi neonati con quello dell’uomo, vediamo che nessun’ altra specie viene al mondo così imperfetta e impotente, così totalmente dipendente da un lungo periodo di allevamento in seno alla famiglia e da una cultura intersoggettivamente condivisa con i suoi simili. Noi apprendiamo l’uno dall’altro» (Habermas 2007, p. 6). Si crea così una sorta di antropologia della dipendenza dalla relazione che valorizza, da un lato, l’originario essere-con-altri e, dall’altro, la disposizione comunicativa propria dell’uomo. In questo modo, sul piano teorico e antropologico, la stessa costituzione della soggettività personale è interpretata come connessa alla rete dei rapporti intersoggettivi che caratterizzano la dimensione sociale. Per Habermas, infatti, «la coscienza apparentemente privata si nutre degli impulsi di corrente che riceve dalla rete culturale dei pensieri pubblici, espressi simbolicamente e intersoggettivamente condivisi» (Habermas 2007, p. 8). Lo stesso fenomeno dell’autocoscienza (avanzando oltre il solipsismo moderno e il mentalismo di stampo cartesiano) viene, in questo quadro, posposto al livello di fenomeno derivato dal riconoscimento intersoggettivo proprio del rapporto Io-Tu, mediato dal linguaggio: «negli sguardi del Tu, di una seconda persona che parla con me in veste di prima persona, io divengo cosciente di me stesso non solo come soggetto che esperisce in genere, bensì contemporaneamente come io individuale. Gli sguardi soggettivanti dell’Altro hanno una virtù individuante» (Habermas 2007, p. 8). La dimensione intersoggettiva e pubblica certamente precede e condiziona la fioritura dell’io, pur non determinandola totalmente. Influisce però nello sviluppo di disposizioni e caratteri naturali presenti nel soggetto. Siamo propriamente e letteralmente «per nostra natura legati agli altri» (Habermas 2007, p. 9).
La soggettività comunicativa, come intesa dal francofortese, invita a pensare che ogni rapporto interpersonale sia mediato dal linguaggio. L’accordarsi sulla realtà è sempre un tendere l’uno verso l’altro, avendo però come sfondo un mondo intersoggettivamente condiviso e la sua oggettività. «Con la socializzazione in una lingua naturale e l’acquisizione performativa dello status di membri di una comunità linguistica, le persone fanno il loro ingresso nel pubblico spazio delle ragioni. Solo con la capacità di partecipare alla prassi dello scambio di ragioni esse acquistano la caratteristica, essenziale per le persone in genere, di un autore responsabile di azioni» (Habermas 2005, p. 108).
Su questo terreno Habermas, da qualche anno, ha anche avanzato alcune provocatorie idee circa il destino della natura umana, a proposito del dibattito sulla cosiddetta genetica liberale e intorno al tema della manipolazione dell’inizio vita. L’avanzamento delle bioscienze, e il connesso aumento potere tecnico di disposizione dell’uomo sulla natura, ha iniziato a far percepire la stessa base organico-naturale del nostro essere come oggetto intenzionale di intervento e programmazione. Viene attenuata progressivamente, per Habermas, la stessa distinzione tra Leib sein e Körper haben, e cancellata la distinzione intuitiva e il «confine tra la natura che noi “siamo” e la dotazione organica che “noi ci diamo”» (Habermas 2002, p.15). Questa drammatica condizione influirebbe pesantemente sulla nostra futura comprensione di autori responsabilmente indivisi delle nostre azioni e delle nostre scelte. Ovvero sull’auto-comprensione etica del soggetto morale. Torna così il vecchio dibattito kantiano su libertà e determinismo, che l’autore rilegge attraverso le considerazioni di Adorno circa il cuore stesso della dialettica dell’illuminismo (cf. Habermas 2002, cap. 4).
Campeggia un interrogativo: «Noi non ci sentiremmo limitati nella nostra libertà di costruzione etica, se un bel giorno la riuscita manipolazione delle disposizioni ereditarie dell’organismo umano diventasse una consuetudine socialmente accettata?» (Habermas 2002, p 103). Si tratterebbe del potere individuale che espande la propria volontà fino al punto di oggettivare anche ciò che dovrebbe rimanere moralmente indisponibile. Questa reificazione del soggettivo indisponibile produrrebbe una frattura lacerante nella dotazione simbolica fondamentale che gli uomini posseggono in quanto esseri relazionali. Per il tedesco, programmare la vita prenatale è un atto che scalfisce l’identità futura dell’individuo e la sua autonomia di sviluppo e di libertà. Si presentano così, nel liberalismo, almeno due fallacie: a) l’assottigliarsi della distinzione tra soggettivo e oggettivo (tra vita umana e cosalità); b) lo svanire della differenza tra il naturale e l’artificiale (tra ciò che nasce e si sviluppa seguendo una sua legge costitutiva e ciò che, invece, è esito di azione tecnico-strumentale). Questi rischi potrebbero condurre a rapporti interpersonali profondamente mutati proprio perché terzi decidono in modo non più modificabile della dotazione naturale di un soggetto, ferendo così la nostra sensibilità di esseri morali e istituendo un regime di perturbazione nei rapporti di riconoscimento tra le generazioni. Verrebbe forse intaccata la struttura esistenziale del poter-essere e dell’autonomia personale.
Non si può allargare senza limite l’ambito del lecito senza porre la domanda sul destino e sul compito a cui la natura umana richiama. Non sarebbe auspicabile che generazione e nascita perdessero quell’intuitivo elemento di novità irriducibile e di indisponibilità (Unverfügbarkeit) naturale a cui per secoli le forme di vita umane hanno fatto riferimento nei propri processi di auto-comprensione. Una strisciante neutralizzazione della tensione morale non facilita tali processi di rischiaramento ermeneutico: concretamente potrebbe rompersi l’argine che impedisce a un uomo di decidere circa ciò che è degno o meno di vivere, circa i tratti di naturalità accettabili e quelli non più funzionali. Siamo davvero convinti, osserva Habermas, che sia meglio vivere in un mondo in cui il rispetto quasi «narcisistico delle preferenze individuali venga affermato al prezzo di una insensibilità verso i fondamenti normativi e naturali della vita»? (Habermas 2002, p. 23). L’umanità è disposta a sopportare il rischio della reificazione e della disposizione dell’inizio vita? A partire dai fondamenti biologici, questa nostra epoca potrebbe incamminarsi verso il pericoloso percorso dell’autotrasformazione ottimizzante della natura umana.
Da questo punto di vista, spetta alla responsabilità politica non banalizzare le questioni e promuovere un dibattito pubblico che porti a ragionare su un doppio versante che fa riferimento all’inviolabilità della persona e all’indisponibilità delle modalità naturali con cui questa si incarna in un corpo. La specie umana, per il francofortese, s’impossessa gradualmente della propria evoluzione biologica. Cogestire l’evoluzione o recitare la parte di Dio sono emblematiche metafore inquietanti riprese da Habermas in tanta letteratura bioetica di questi anni. Si ripresenta lo spettro prometeico-baconiano di una razionalità scientifica che fa a meno della domanda sulla destinazione dell’uomo, frutto di una miscela esplosiva di darwinismo esasperato e neoliberalismo morale. Coordinate che senza dubbio espongono a un allentamento di quei freni socio-morali che stabilizzano le comunità e mantengono aperto lo sguardo sul mistero simbolico dell’umano. La lunga linea della modernità potrebbe perfino attuare il passaggio dalla manipolazione della natura esterna alla natura dell’uomo (la naturalità interna alla specie). Ovviamente le società aperte non tengono conto di tabù, né di inopportune ri-sacralizzazioni della vita. Non serve un nuovo incantamento dall’interno. Si tratta di guardare ai fondamenti biologici della vita umana come dati fondamentali e non manipolabili, su cui si costruisce una specifica auto-comprensione di genere e una normatività sul piano del riconoscimento della pari dignità dell’altro. Il possibile spostamento del limite dell’indisponibilità delle basi biologiche del nascere, dallo spazio dell’etica al regno dell’assoluta preferenza, potrebbe seriamente incidere sulla «“struttura complessiva della nostra esperienza morale”» (Habermas 2002, p. 30).
Naturalità e artificio sono gli antipodi su cui si gioca la partita antropologica oggi. L’ecologia umana è un sistema di autostabilizzazione che concretamente rischia di perturbarsi se la distinzione tra il tecnicamente prodotto e il naturalmente divenuto, che esperiamo già intuitivamente (intuitive Selbstbeschreibungen), viene meno. Il grado anche più piccolo in cui la vita umana si può esprimere, proprio per il suo carattere di vulnerabilità, va sempre sottoposto ad una cura morale e ad un’attenzione normativa speciale. Potremmo trovarci di fronte ad una nuova dialettica della razionalità e ad un nuovo ribaltamento: capovolgendo «il padroneggiamento della natura in un atto di “auto-imprigionamento”» si potrebbero «intaccare i prerequisiti necessari a un’autonoma condotta di vita e a una concezione universalistica della morale» (Habermas 2002, p. 49). Va, dunque, salvaguardato eticamente e politicamente lo spazio di questa indisponibilità naturale o primaria, proprio a garanzia di una soggettività che si autointerpreta come segnata al principio da una contingenza liberante. La persona non può pensarsi come disposta e programmata asimmetricamente da terzi, perché il sé di quel fine in sé che ogni uomo rappresenta risponde ad una specifica auto-finalità fondata sull’iniziale libertà originaria naturale. Anche per questo la dimensione normativa deve sempre esser giocata bilanciando un doppio livello: il rispetto delle libertà e delle preferenze di tutti (principio di individualizzazione) e quello della comunanza intersoggettiva che ci fa esseri in relazione (principio di solidarietà e riconoscimento). In molte nostre convinzioni sulla vita, per Habermas, sembra esser venuta meno «l’impermeabilità di quell’involucro deontologico di salvaguardia dei confini che serve a tutelare l’inviolabilità della persona, l’inconfondibilità dell’individuo, la non delegabilità della sfera intima soggettiva» (Habermas 2002, p. 83).
Con il filosofo dell’agire comunicativo si può condividere anche un certo richiamo alla prudenza su tali questioni, segnato per di più dalla difficoltà di trovare un unico argomento razionale stringente su siffatti controversi nodi. Certamente l’idea che la vita prenatale non possa esser considerata un bene tra gli altri mi pare debba essere in buona misura accettata da molti. Erodere questo fondamento etico ci esporrebbe, come comunità di fini in sé, a perturbazioni antropologiche significative. Potrebbe persino mutare la grammatica profonda del gioco linguistico attraverso cui si costituisce la nostra esperienza di esseri morali e «la struttura normativa delle nostre forme di vita» (Habermas 2002, p. 68). La vita prenatale possiede, per la sedimentazione simbolica delle nostre comunità, una rilevanza sui generis e non bilanciabile con la libertà di preferenza. Su questo cominciamento si radica il nostro modo di intenderci come esseri autonomi e uguali, e dunque l’idea che l’esistenza situata dell’uomo si esprima come uno spontaneo poter-esser-se-stessi calato nel reticolo riconoscitivo dell’intersoggettività.
In Habermas, com’è stato autorevolmente sostenuto, entrano in gioco due mosse concettuali: «a) salvare l’altropologia kierkegaardiana, vista come l’unica in grado di evitare un quadro metafisico normativo di riferimento per l’etica; b) salvare il principio dell’astensione giustificata in materia metafisica. Dunque si tratta, in sintesi, di salvare Kierkegaard e Kant: lasciare a ogni uomo il poter essere se stessi, e a ogni filosofo il poter esaminare le condizioni, senza compromettersi con i contenuti» (D’Agostini 2002). Tale “astensione giustificata”, dal richiamo weberiano, però, non significa che nel tempo del politeismo valoriale e del pluralismo conseguente sia impossibile ragionare su questioni sostanziali, come se si dovesse tornare necessariamente a quella filosofia che «credette di poter conoscere la totalità della natura e della storia, e s’illuse anche di possedere un quadro generale in cui collocare la vita degli individui e delle comunità». Quell’impostazione epocale si fondava sulla ferrea convinzione che «la struttura del cosmo, la natura dell’uomo, gli stadi della storia terrena e celeste offrivano “dati di fatto” normativamente impregnati, in grado di illuminare ciò che si riteneva una vita giusta» (Habermas 2002, p. 5). Ma trovandosi nella paradossale situazione in cui i fondamenti naturali della nostra auto-comprensione etica vengono messi in discussione, il limite dell’astensione si sposta in avanti, perché «la filosofia non può più esimersi dal prendere posizione su questioni di contenuto» (Habermas 2002, p. 14). Finora abbiamo pensato che le disposizioni organiche dei soggetti fossero sottratte, per definizione, ad ogni intenzionalità potenziante da parte di terzi. In un mondo in cui questo dato comune viene messo in crisi, saltano agli occhi i rischi sul piano antropologico, ma anche su quello politico concernente l’uguaglianza democratica tra gli individui. La dotazione naturale dell’uomo è consegna al noi della responsabilità: custodia di una fatticità elementare e insostituibile, che pone come originaria la simmetricità relazionale e il dato eugualitario del nostro con-essere.
Il rischio, interno, della genetica liberale è quello di condurci a una antropologia la cui idea di uomo sia quella di un essere totalmente capace di chimeriche auto-creazioni. L’uomo non può essere certamente considerato come totalmente indeterminato: la forte plasticità con cui l’umano si realizza ci dice che c’è una forma aperta a infinite potenzialità; e ci segnala in questo un proprium non riducibile né a meccanismo fisico, né a determinazione culturale. Vi è un salto antropologico che pone una differenza qualitativa e un’eccedenza rispetto agli enti. L’uomo fa esperienza di sé come soggetto capace di comprensione, trascendimento e senso morale. Ma lo stesso dispositivo del riconoscimento, che è alla base di tutto ciò, potrebbe perturbarsi dal momento in cui il nostro inizio venisse volutamente modificato da intenzioni altre. Honneth lucidamente ha invitato a pensare che «i diversi modelli di riconoscimento possono essere concepiti come le condizioni intersoggettive della possibilità, per i soggetti umani, di pervenire a nuove forme di una relazione positiva con se stessi. La connessione esistente fra esperienza del riconoscimento e relazione con se stessi emerge dalla struttura intersoggettiva dell’identità personale: gli individui si costituiscono come persone solo apprendendo, dalla prospettiva di un Alter che incoraggia e approva, a rapportarsi a se stessi come esseri con determinate proprietà e capacità» (Honneth 1993, p. 34). Ma c’è da chiedersi: nel caso che queste proprietà a cui fa riferimento Honneth abbiano subito delle perturbazioni fondamentali nel loro dato naturale, è a rischio il circuito morale del riconoscimento e, dunque, l’identità propria del soggetto? Lasciamo aperto questo provocatorio interrogativo. Del resto, la domanda sull’umano e sul tipo di natura che noi siamo rimane, per questa via, inaggirabile e conduce, se svolta in modo radicale, a un qualche cominciamento indisponibile di cui bisogna prender misura valorizzandone la forza morale.
Riferimenti bibliografici
D’Agostini F. (2002), Da Habermas, equivoci sulla vita, in “Il Manifesto”, 9 dicembre.
Fukuyama F. (2002), L' uomo oltre l'uomo: le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, tr. it. di G. Dalla Fontana, Mondadori, Milano.
Habermas J. (1966), Antropologia, in G. Preti (ed.), Filosofia, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Milano.
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Habermas J. (2002), Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, tr. it. di L. Ceppa, Einaudi, Torino.
Habermas J. (2005), Tra scienza e fede, tr. it. parz. di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari.
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Honneth A. (1993), Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, tr. it. di A. Ferrara, Rubbettino, Soveria-Manelli.
Palumbo G. (2004), Prendere misura dell’indisponibile. Habermas e il futuro della natura umana, in “Annali Dipartimento FIERI”, 1.
Volpi F., Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1996.