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Un racconto fondativo per l’Europa? Intorno a un’utopia sospetta

FLAVIO PIERO CUNIBERTO
Articolo pubblicato nella sezione: Lo spazio dell’altrove: metadiscorso sull’utopia.
«Ogni cosa, per quanto è in essa,
si sforza di perseverare nel suo essere»
Spinoza, Ethica, P.III, prop.6.
«Europa. Figlia di Agenore o, secondo l’Iliade, figia di Fenice. La sua bellezza affascinò Zeus, che per avvicinarla assunse le sembianze di un toro e si mescolò alla mandria che Europa accudiva, mentre essa con alcune compagne riposava sulla riva del mare»
Anna Ferrari, Dizionario di mitologia, UTET, Torino 1999, s.v. «Europa», p.312.

Un’Europa a pezzi e il mistero dell’europeismo militante

1. Si potrebbe partire da alcuni fatti di cronaca. Agosto 2014: la visita a Kiev della cancelliera tedesca Angela Merkel formalizza il ruolo della Germania come mediatrice autorevole nella difficile crisi russo-ucraina. O ancora la recente decisione britannica di sostenere militarmente le milizie curde contro i guerriglieri dell’Isis, o l’intervento francese nel Mali nei primi mesi del 2013. Si direbbe che la politica estera «europea» è fatta ormai di interventi unilaterali dei singoli Stati, ovviamente dei più potenti (la Germania, la Gran Bretagna, la Francia). Solo una deplorevole mancanza di realismo potrebbe però interpretare questi gesti come illegittimi: nel senso che è probabilmente legittimo per la Gran Bretagna e la Francia tutelare i propri interessi di ex-potenze coloniali, così come è legittimo per la Germania coltivare la sua tradizionale Ostpolitik, il suo rapporto privilegiato con i paesi dell’Europa orientale. Comunque si voglia giudicarle, queste iniziative dimostrano non già la debolezza della politica estera «europea», ma la sua pura e semplice inesistenza. Il cosiddetto Alto Commissariato per la politica estera non è che una «foglia di fico» per mascherare quello che non c’è, e che la sua funzione sia soltanto cosmetica è del resto il classico segreto di Pulcinella: nessun funzionario serio della Farnesina o di qualche istituto di politica internazionale, oserebbe sostenere che l’«Europa» ha una politica estera comune. La domanda che si pone è dunque un’altra, ossia per quale ragione la maggior parte delle «forze politiche» e delle istituzioni continua a sostenere la necessità di una maggiore integrazione europea, in presenza, e non da ieri, di una dis-integrazione di fatto, che pare ormai inarrestabile.
2. Una prima risposta a questa domanda va cercata a un livello molto elementare: tra Bruxelles e Strasburgo si è installato un Moloch burocratico di tali dimensioni che anche solo un banale, darwiniano, «struggle for life», potrebbe spiegare la sua volontà di sopravvivenza. Sarebbe poi un atteggiamento da «anima bella» non vedere che la macchina continua la sua corsa perché fa da volano a interessi colossali, spesso a vantaggio di ristrette élites economico-finanziarie. Si delinea così un secondo e più corposo livello di risposta: l’esigenza di un «mercato» esteso e omogeneo che possa garantire ai grandi soggetti economico-finanziari profitti più elevati. È un fatto che il cuore decisionale della «macchina», ossia la Commissione di Bruxelles coadiuvata dai vari «advisory groups», opera come un vero e proprio comitato d’affari, dove i rappresentanti delle società finanziarie e delle grandi aziende sono parte attiva delle consultazioni e orientano a proprio vantaggio le decisioni della Commissione. L’attività di «lobby» a favore delle grandi imprese è, in altre parole, una delle ragioni, se non la principale, a cui la Commissione Europea deve la sua esistenza: è del tutto normale, ad esempio, che una riunione del comitato sulla sicurezza (controlli alle frontiere, utilizzo di impronte digitali, carta d’identità biologica, ecc.) si svolga alla presenza delle aziende interessate alla realizzazione dei vari programmi (Luzi 2014). È vero peraltro che – malgrado i richiami rituali all’unità e la spinta autoconservativa delle burocrazie - anche negli ambienti più «europeisti» serpeggia da tempo un comprensibile nervosismo. Proviamo a leggerne alcuni sintomi.


Sintomi di nervosismo e tentativi di ripartenza (in chiave «mitologica» o «narrativa»). Europa o Occidente?

1. Un indizio istruttivo dello stato dell’Unione sono alcuni interventi recenti sull’ipotesi di un «Impero latino». L’idea - avanzata in altri tempi dal filosofo franco-russo Alexandre Kojève - è che una forte coalizione tra i paesi latino-mediterranei potrebbe riuscire nell’impresa di arginare la Germania e le sue pretese egemoniche (Kojève 1990). L’ipotesi merita di essere ricordata in primo luogo per l’autorevolezza dei suoi fautori: Romano Prodi sul piano propriamente politico, e il filosofo Giorgio Agamben (Agamben 2013a e Agamben 2013b). Se però Agamben, da filosofo, ha il pieno diritto di richiamarsi alle tesi di Kojève (formulate in un contesto storico molto lontano da quello attuale), il caso-Prodi è perlomeno singolare: che un ex-Presidente della Commissione Europea possa raccomandare un progetto politico destinato a spaccare l’Unione, e a spaccarla, ancora e sempre, sulla linea del Reno, non può non lasciare stupefatti. Un sintomo di «nervosismo» da cui trapela il vero punto debole della costruzione europea nella sua fase attuale, ossia l’allarme dei paesi atlantici per la tendenza «centrifuga» della nuova Germania, sempre più attratta dai mercati orientali e dall’idea di un rapporto privilegiato con la Russia non più comunista.
2. Un sintomo di natura diversa, anzi opposta, è l’idea di fornire al processo di integrazione europea una base più solida su cui ripartire. All’Europa, si dice, manca un «racconto» condiviso, capace di fondare una vera e propria «identità comune». E poiché il problema dell’identità collettiva è un concetto squisitamente sociologico, non sorprende che siano anzitutto i sociologi a elaborare la teoria, almeno per grandi linee: tra gli altri, il berlinese Klaus Eder, che attingendo a suggestioni provenienti dalla pragmatica della comunicazione concepisce l’identità europea come «una rete narrativa a narrative network» emergente dalle relazioni intereuropee (e dai molteplici «racconti» sedimentati a vari livelli nella collettività europea; Eder 2014). Nel suo austero contributo il sociologo berlinese si guarda bene dall’usare la parola «mito» (e la teoria rimane molto astratta). Racconto o mito ? «Mythos» in greco significa racconto: usiamo per ora i due termini come sinonimi.
È vero che ai contributi teorici come quello citato non sembra possibile affiancare, per ora, iniziative concrete di qualche peso. Non si vede, all’orizzonte, un Virgilio «europeo» in grado elaborare in XII canti un’«Europeide» fondativa («Tu regere imperio populos, Europa, memento» ecc.). Ed è anche perfettamente inutile invocarlo o teorizzarlo: non solo perché una teoria del mito non basta a produrre un vero mito, ma per la semplice ragione che non esiste una lingua europea, e dove non c’è lingua non c’è mito, tantomeno fondativo. Prima di ritornare, almeno di sfuggita, alla questione della lingua, diamo ancora uno sguardo alla cronaca per trovare – se non il Virgilio che non c’è – qualche timida iniziativa ispirata all’esigenza del Grande Racconto.
3. Nel tentativo di dare corpo a quella «rete narrativa» di cui parla il sociologo Klaus Eder, il «Corriere della Sera» inaugurava, nella primavera del 2014, una serie di supplementi dedicati al grande romanzo europeo. Va da sé che una collana di romanzi non è ancora un racconto fondativo, e tuttavia gli obiettivi dichiarati dell’iniziativa sono espliciti e ambiziosi: riflettere su quel patrimonio collettivo che è il romanzo europeo permetterà di comprendere - afferma il «Corriere» - «che cosa significa essere europei». In altre parole, il romanzo europeo come una base possibile per la ricerca di una identità comune. A parte la sorpresa di scoprire che Javier Cercas è più europeo di Franz Kafka, e che Claudio Magris è più rappresentativo di Marcel Proust, bisogna ammettere che l’«Europa» è abbastanza rappresentata, almeno nel suo assetto attuale (niente Svizzera, niente Norvegia, niente Serbia). Ma l’aspetto più clamoroso dell’iniziativa è l’assenza totale del romanzo russo. Che ne sarebbe del romanzo europeo senza Dostoevskij e Tolstoj, senza Gogol e Bulgakov, per non parlare dei grandissimi Grossmann e Platonov? La lacuna è tale da mettere a nudo il paralogismo che sorregge l’iniziativa: non è infatti il romanzo europeo (i cui confini sono, come si vede, molto arbitrari) a fondare l’identità europea, ma è al contrario la mappa della UE nel suo assetto attuale a «fondare» l’iniziativa del quotidiano. Appare chiaro che questo elenco «politicamente corretto» di autori europei nasce da una conventio ed excludendum: qualunque cosa essa sia, l’Europa deve escludere la Russia, perché (come nelle vecchie carte geografiche) «hic sunt leones». Sarebbe facile obiettare che anche il grande romanzo americano, per esempio, è escluso dalla lista. Ed è un’obiezione preziosa perché permette di chiarire gli equivoci di fondo che governano l’idea europeista, almeno nell’attuale fase di «nervosismo».
4. Se il genere romanzo nasce «europeo» (nel senso del romanzo greco e greco-latino: Apuleio), il suo raggio geografico si estende però via via, fino ad abbracciare, con un dinamismo accelerato, aree sempre più vaste del pianeta: Tolstoj e Melville, e poi Faulkner e Thomas Pynchon, Garcia Marquez e Guimaraes Rosa, come pure Mishima e via globalizzando. Il dilatarsi geografico del genere romanzo fa tutt’uno col dilatarsi di quello che chiamiamo Occidente, o Occidente moderno (che è la stessa cosa). Non sarà allora che il romanzo è europeo nel senso che i suoi confini sono i confini stessi dell’Occidente? E che il genere-romanzo si innesta nelle culture tradizionali - non-europee - nella misura esatta in cui si «occidentalizzano»? Ma se i confini del romanzo europeo sono i confini dell’Occidente, dovremo concludere che Europa e Occidente sono la stessa cosa. Se parliamo di «identità europea» (ossia di cultura e non di confini geopolitici), la conclusione ci sembra inevitabile: Europa e Occidente sono la stessa cosa, o in altri termini l’Europa non è una categoria geografica ma una categoria culturale o di «civiltà» [da angolazioni molto diverse e con esiti molto diversi, l’equazione Europa eguale Occidente accomuna autori come Alberto Savinio ed Edmund Husserl (Savinio 1977; Husserl 1977)]). E questa «cosa» che è l’Europa in quanto cultura o civiltà è naturalmente centrifuga ed espansiva: sia il vecchio colonialismo che l’attuale «globalizzazione» non fanno altro che trapiantare semi europei in aree geograficamente non-europee (e da questi semi potranno germogliare anche romanzi «europei» fascinosamente contaminati di elementi esotici come in Melville o in Garcia Marquez, in Salman Rushdie o Mishima).
L’esclusione del romanzo russo è dunque solo l’aspetto più clamoroso di un’operazione chirurgica che, tagliando fuori le varie «propaggini» del nucleo europeo originario – della vecchia Europa – cerca di isolare quel nucleo e di individuarne la presunta identità comune. Ma questa identità comune non può esistere, perché è l’identità dinamica di qualcosa – l’Europa – che si definisce espandendosi o globalizzandosi. L’ espansione del mondo slavo verso Oriente – l’Impero Russo – o l’espansione del mondo tedesco verso il mondo slavo, non sono altro che il pendant orientale, eurasiatico, di quell’espansione occidentale ed euratlantica che genera la Nuova Inghilterra e poi, negli stessi anni della grande Caterina, la Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776). E poi: la cultura slavo-russa non ha forse radici greco-bizantine? e Bisanzio non è forse Europa?
5. Incomincia così a delinearsi una duplice contraddizione di fondo che «abita» l’ldea del racconto fondativo e la stessa costruzione europeista in quanto costruzione utopica o ideale: se da una parte l’identità europea è minata dall’assenza di una lingua comune, dall’altra non vi è alcuna coincidenza fra questa «identità» europea (diffusiva, espansiva, non circoscrivibile sulla carta geografica) e un’entità territoriale dai confini limitati. L’Europa, l’Occidente è come Ulisse o «è» Ulisse: è l’avanzata inarrestabile della Storia e dei Lumi – della razionalità tecnica e del soggetto moderno - sulla (presunta) immobilità delle culture tradizionali. In questo senso, il mito americano della «frontiera» è squisitamente europeo: non c’è frontiera che non venga posta se non per essere raggiunta e superata. E questa è già l’Europa di Bacone e di Cartesio e di Galileo. Se poi l’America ne raccoglie la quintessenza, tagliando ogni cordone ombelicale col passato, allora diremo che l’America è Europa allo stato puro, è Occidente allo stato puro, e se la «vecchia» Europa fatica a seguire l’America nel suo volo, è perché la vecchia Europa non è abbastanza «europea». Perché c’è molto, in essa, che non si lascia ricondurre all’«Occidente».
6. All’iniziativa, peraltro assai debole, del «Corriere» si potrebbero affiancare iniziative analoghe che puntano invece sulla poesia, vista non a caso come il luogo per eccellenza dell’utopia e del «sogno». Come l’antologia poetica «alla ricerca dell’Europa» pubblicata da un piccolo editore milanese nel segno di un europeismo militante, poetico-battagliero (Angiuli e Cesareo 2014). Contrapposta alla durezza dei «mercati» e del potere, la poesia sarebbe capace di «affratellare all’insegna di un sogno comune» (Angiuli e Cesareo 2014, p. 12), e di restituire all’Europa quella freschezza originaria che la prepotenza del Potere economico-finanziario le ha sottratto. Il mito classico di Europa rapita da Zeus finisce così per generare un nuovo, piccolo, mito: la fanciulla-Europa, «rapita» dal Potere, viene liberata dalla Poesia. Il concerto polifonico a 40 voci che costituisce il volumetto (dalle grandi lingue nazionali alle lingue regionali – come il sardo e il catalano – fino al sami, al ruteno, al lituano) dovrebbe funzionare come un incantesimo liberatorio. Si ritorna dunque alla questione cruciale della lingua e delle lingue, su cui dobbiamo limitarci a qualche rapida osservazione: la varietà di queste lingue è fascinosa, ma tanto è fascinosa sul piano estetico, quanto è ingenuo attribuirle un qualsivoglia significato politico-istituzionale. E qui gli aspetti rilevanti sono due.
a) Se nello spazio estetico dell’antologia multilingue possono convivere il francese e il tedesco, il danese e l’ungherese (come nello spazio artificiale del museo convivono Botticelli e Van der Weyden, Caravaggio e Rembrandt), altra cosa è far comunicare un francese e un tedesco, un danese e un ungherese utilizzando le rispettive lingue. Un danese che non conosca l’ungherese e un ungherese che non conosca il danese (ossia la quasi totalità dei danesi e degli ungheresi) saranno costretti a esprimersi a gesti (che non è un rimedio di alto livello), oppure ricorreranno al solito campo neutro: «do you speak english?». Il problema viene risolto aggirando l’aspetto babelico della varietà linguistica attraverso un tertium datur, un terreno comune. Sul piano strumentale e comunicativo la varietà linguistica è un ostacolo da superare e non una ricchezza da celebrare. Si ritorna insomma all’assioma già evocato in precedenza: l’Europa come progetto unitario è destinata a fallire per l’impossibilità di una lingua comune.
b) Ma vi è un secondo aspetto: anche qui è clamorosa l’assenza della lingua russa. Sulla lingua di Pushkin e di Pasternak, un silenzio tombale. Se sono europei il finlandese e l’ungherese (lingue di ceppo uralo-altaico), non lo sarà a maggior ragione anche il russo, regina delle lingue slave?
7. Cerchiamo allora di riepilogare. L’idea di «Europa» che sorregge queste volenterose ma vacue iniziative europeiste è, in realtà, l’idea di uno spazio geografico predefinito (da cui la Russia è esclusa a priori), e definito in base a criteri che nulla hanno a che fare con l’«identità europea» in senso alto. Le ragioni della politica e della geopolitica (oltre che dell’economia) sono costitutive del discorso europeo, e l’idea stessa di fondare uno spazio geopolitico su un’identità che per definizione trascende i confini di quello spazio è autocontraddittoria. E d’altra parte, se anche fosse sensata e praticabile, l’idea del racconto (o mito) fondativo arriva semplicemente troppo tardi. È un po’ come se l’Eneide – il grande mito genealogico dell’Impero augusteo - avesse visto la luce all’epoca di Ausonio, per infondere nuova linfa nelle stanche membra dell’Impero alla fine. O come se la letteratura sulla Resistenza avesse preso corpo negli anni ’90, alla ricerca affannosa di una «base ideale» per la Prima Repubblica (la letteratura sulla Resistenza è in effetti un buon esempio di grande «racconto» destinato a fissare un’immagine collettiva del passato recente e del «nuovo ordine» nato dalle macerie della guerra; che poi si possa anche parlare di un «mito» della Resistenza nel senso fabulatorio del termine «mito», è questione delicata, che lasceremo agli storici). E non è solo macroscopico il ritardo, è che il fatto stesso di teorizzarne la necessità ne dichiara apertamente il carattere ideologico-strumentale.


La «nuova mitologia» di Manfred Frank e il fallimento del «sogno» franco-tedesco. L’Europa non nasce come utopia ma lo diventa

1. In un volume di grande erudizione e impegno teorico, il filosofo tedesco Manfred Frank rileggeva, nei primi anni ’80, il programma romantico di una «nuova mitologia»: l’idea di una mitologia «nuova» (o anche «moderna»), da costruire in qualche modo sulle rovine o con i materiali delle mitologie antiche, cristianesimo compreso (Frank 1994). La novità del libro di Frank – molto discutibile su vari punti specifici – stava nell’attribuire all’idea «neomitologica» una precisa funzionalità politica: la «nuova mitologia» auspicata dai primi romantici tedeschi avrebbe la funzione si supplire al «deficit di legittimazione» proprio dello Stato moderno, lo Stato-Leviatano. È vero che il lavoro di Frank si guarda bene dall’attualizzare la propria analisi con riferimenti espliciti alla realtà contemporanea (all’Europa del 1980). Ma è altrettanto vero che, a distanza di circa trent’anni, queste pagine assumono un significato quasi profetico: non già in rapporto ai singoli stati nazionali o allo stato-macchina in generale, ma in rapporto al vuoto di legittimità che affligge appunto la «costruzione» europea. Che la proposta neo-mitologica di Frank avesse fin dall’inizio una latente intenzione europeista? Questa è solo un’ipotesi. Non è invece un’ipotesi l’ambito geografico in cui si muove la sua ricerca: tra i manifesti primoromantici e quel romanticismo filosofico di scuola francese (Saint-Simon) che ne rappresenta in certo modo uno sviluppo. Insomma: se Frank non pensa esplicitamente all’Europa, al centro dei suoi pensieri c’è però il rapporto franco-tedesco. Che è come dire il nervo scoperto della storia europea del XX secolo, nonché il pilastro principale della stessa costruzione europea. Richiamandosi alle idee del socialista-utopista Pierre Leroux, Frank conclude il volume con un auspicio che mette davvero le carte in tavola: «verrà un tempo in cui non vi sarà più una filosofia francese e una filosofia tedesca, ma vi sarà un’unica filosofia, che sarà insieme una religione» (Frank 1994, p. 310). Pensa a una sorta di «fusione» franco-tedesca, almeno sul piano filosofico-teorico, come piattaforma di partenza per una strategia europea allargata.
2. È probabile che, limitatamente al «dialogo» franco-tedesco, il libro di Frank contenga una buona dose di utopia nel senso migliore del termine, ossia nella sua accezione «visionaria». Ma l’utopia franco-tedesca, condannata comunque al fallimento per la mancanza di una lingua comune, è andata di fatto in frantumi dopo gli eventi dell’89. Non sarà dunque inutile dare uno sguardo panoramico e complessivo alla vicenda europea, risalendo anzitutto alle origini dell’Unione e ai suoi criteri ispiratori. Il dato di fondo che emerge da questo sguardo «panoramico» è che l’embrione europeo-comunitario nato alla metà degli anni ’50 ha una matrice decisamente antiutopica: è l’idea di vincolare Francia e Germania in una sorta di patto di ferro, aggregando via via gli altri paesi al nucleo franco-tedesco, o meglio italo-franco-tedesco, in modo da evitare una nuova e devastante guerra europea. Ben lontani dal registro retorico che si imporrà più avanti, i veri padri fondatori non volano alto, non vanno alla ricerca di una utopica identità comune: sanno che se Francia e Germania riusciranno a non sbranarsi più come in passato, la futura Confederazione avrà raggiunto il suo scopo. È il grado zero dell’utopia. [Quanto al celebre «Manifesto di Ventotene» (1941), non di utopia si tratta, ma di un articolato progetto politico-rivoluzionario che troverebbe nello spazio europeo il suo campo d’azione; l’idea di «Europa» che emerge dal Manifesto è vaga e perfettamente astratta: si riduce appunto allo spazio operativo dell’esperimento liberalsocialista].
3. Se questo embrione – tutt’altro che utopico – ha potuto nascere, lo si deve a due elementi di contesto, tra loro interconnessi: a) la divisione della Germania, provocata dalla spartizione dell’Europa fra i due «blocchi»; b) la circostanza provvidenziale e irripetibile per cui Francia e Germania Ovest (il lacerto occidentale della vecchia Germania), ma anche l’Italia e poi la Gran Bretagna (che si aggiungerà), e la stessa Spagna, sono Stati dalle dimensioni comparabili, anzi grosso modo equivalenti. È facile ipotizzare che, senza questa circostanza – ossia, conviene ripeterlo, la sostanziale equipollenza di fatto degli Stati fondatori - l’Unione Europea non avrebbe mai visto la luce. È però noto a tutti che questa situazione ideale è «saltata» di colpo nell’89. La caduta del Muro di Berlino e la successiva, immediata riunificazione tedesca, hanno assestato un colpo micidiale al delicato equilibrio su cui si reggeva la vecchia Unione. La «pace separata» tra Kohl e Gorbacev e la graduale ristrutturazione economico-sociale della nuova Germania hanno finito per creare una vasta area «mitteleuropea» di lingua tedesca, o comunque di influenza tedesca, che non è più compatibile con i presupposti della vecchia Unione (Schlögel 2012).
Se allora il processo di integrazione europea sembra proseguire anche dopo l’89 nel segno di una apparente continuità, le regole del gioco sono cambiate completamente: quella che prima era un nucleo forte franco-tedesco intorno al quale allargare via via il raggio del compasso, diventa ora, di colpo, una complicata rete istituzionale volta anzitutto ad arginare il peso crescente della nuova Germania. Si potrebbe obiettare che la Germania ha accettato la situazione con un certo slancio, traendone vantaggi economici notevoli. Non c’è dubbio. Ma resta il fatto che da un’intesa franco-tedesca «tra pari» si è passati a un gioco arrischiato di spinte e controspinte, di interessi contrapposti: l’interesse francese ad arginare la Germania, l’interesse tedesco a sfruttare le istituzioni comunitarie a vantaggio della propria economia (e della propria natura di baricentro geografico-culturale dell’intera Europa). E il passaggio alla moneta comune non ha fatto altro che esasperare la contraddizione: quel «sacrificio del marco tedesco» che per la Francia di Mitterrand rappresentava un motivo di sollievo è stato accolto dalla controparte tedesca come un’occasione per rafforzare (sotto mentite spoglie) il vecchio deutsche Mark, trasformando così una sconfitta tattica in una vittoria strategica. Quanto può durare un equilibrio così precario?
4. Col passare degli anni lo squilibrio aumenta. Grazie a una serie di drastiche riforme e alla brillante ristrutturazione dei Länder ex-comunisti, la Germania diventa, nel primo decennio del nuovo secolo, il primo paese esportatore a livello mondiale, con enormi prospettive di espansione economico-commerciale verso i paesi dell’Europa Orientale, dell’Asia Centrale e la stessa Cina (De Cecco e Maronta 2011; Kundnani 2011). E siamo, con questo, alla situazione odierna: alla cosiddetta crisi russo-ucraina, di cui la Osterweiterung (l’«espansione a est») della Germania è assai probabilmente la chiave. Se i media dipingono uno scenario da «guerra fredda», dove la minaccia è l’Orso Russo e la sua avanzata verso occidente, conviene ricordare che l’Orso Russo – a parte le sue importanti risorse energetiche - è un orso dagli artigli spuntati. Il fantasma dell’espansionismo russo nasconde un altro fantasma, assai più concreto: quello di una saldatura fra lo spazio tedesco e lo spazio russo che costituirebbe una minaccia grave non per l’Europa (che potrebbe trarne vantaggio), ma per la strategia geopolitica degli Stati Uniti d’America e del loro unico vero alleato europeo: la Gran Bretagna. In questa situazione, la carta del «racconto fondativo» si spiega appunto con la crisi irreversibile in cui versa l’edificio europeista. Come una sorta di arma estrema (e consapevole della propria debole natura retorica). Ritorniamo così alla domanda iniziale: che cosa tiene uniti attori così diversi – a cominciare dalla Germania – nella volontà di puntellare l’edificio?


Il ruolo dell’America come ‘deus ex machina’ dell’Europa che non c’è

1. Le ragioni economico-finanziarie a favore del Grande Mercato Unitario – già ricordate – non sono tuttavia sufficienti per spiegare l’enfasi che viene posta tuttora sulla necessità dell’integrazione europea. Proviamo allora a sovrapporre due mappe geografiche: la mappa dell’Unione e del suo progressivo allargamento verso est e la mappa della NATO (nella sua parte europea) e del suo progressivo allargamento verso est. Le due mappe tendono a coincidere (anche se Europa e NATO sono concettualmente due realtà non omogenee e non sovrapponibili). Questa semplice constatazione impone di chiamare in causa, come voce «fuori scena», gli Stati Uniti d’America. La necessità, da parte americana, di allargare verso est la propria area di influenza politico-militare, è diventata – con l’impetuosa avanzata della Cina – una necessità imprescindibile. Con le nuove basi nel Baltico, in Polonia, la potenza militare americana non si era mai spinta, in Europa, così a est. Ma se questa espansione geostrategica nei territori dei vecchi regimi comunisti risponde alla logica di un confronto (per ora a distanza) con la Cina, il carattere per ora non minaccioso della potenza cinese impone di individuare una «testa di turco» che mantenga alto il livello di allarme e giustifichi le manovre militari verso oriente. Questa testa di turco è il vecchio Orso Russo, dagli artigli spuntati ma sempre utile come spauracchio temporaneo.
E l’Europa? Siamo al punto. L’allargamento della NATO verso est nella prospettiva di un futuro confronto con la Cina impone che l’Europa rimanga compatta, «come un sol uomo», dentro i ranghi dell’Alleanza Atlantica. Il racconto – sarebbe meglio dire la «favola» - dell’identità comune è (direbbe Manfred Frank) un artificio funzionale al mantenimento di una coesione europea sempre più a rischio e nondimeno sempre più necessaria per gli interessi geostrategici americani. Il rischio estremo – quello che gli Stati Uniti devono scongiurare a qualunque costo – è che la Germania, coltivando il suo rapporto speciale con la Russia, possa essere tentata di sganciarsi dalla strategia nordatlantica, col risultato di farla fallire.
3. Per venire a una provvisoria conclusione. Se l’America appare lontana dal problema dell’integrazione europea, nessuno è più interessato dell’America ad alimentare il racconto europeo. Così interessata da apparire, oggi, come l’unica, reale, «istanza» europeista ancora effettivamente in gioco. Un corollario di questa affermazione è che tutte le altre «istanze» europeiste – dai partiti politici ai media – agiscono, intenzionalmente o meno, nell’interesse dell’istanza principale, come longa manus di quella istanza.
4. Quanto al racconto-mito fondativo non varrebbe più la pena di parlarne se non si affacciasse, qui, una considerazione molto seria. Ed è che i veri miti fondativi non sono mai miti pacifici (il mito di Europa rapita da Zeus è più un mito genealogico che un mito fondativo). I miti e i riti di fondazione richiedono perlopiù uno spargimento di sangue: a cominciare dal mito di Roma che nasce dal sangue di Remo, da un sacrificio umano. Un mito fondativo senza martiri non è un vero mito fondativo. La conclusione è che di un mito fondativo per l’Europa faremmo volentieri a meno. E non vorremmo che nei piani geostrategici della Superpotenza prendesse forma la tentazione luciferina di una grande guerra antirussa. In questa guerra l’Europa sarebbe coinvolta tutta quanta, e perfino la Germania sarebbe costretta a fare la sua parte. Questa volta (e sarebbe la prima volta) dalla stessa parte della Francia e delle potenze atlantiche. Sarebbe un evento traumatico, ma come mito fondativo potrebbe anche funzionare: l’Europa ne emergerebbe cementata e coesa come mai prima, e la Superpotenza sarebbe in grado di pensare, irrobustita, al suo vero nemico. È uno scenario fantapolitico, ovviamente. Ma se da un lato ha il valore di un «esperimento mentale», dall’altro ha il carattere di un esorcismo. Dio non voglia.


Riferimenti bibliografici

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Angiuli L. e Cesareo M.R. (a cura di, 2014), AAA. Europa cercasi, prefazione di D. Marcheschi, La Vita Felice, Milano.
De Cecco M. e Maronta F. (2011), Le ragioni tedesche e i conti della serva, in «Limes», N.4, pp.47-66.
Eder K. (2014), A theory of collective identity, di prossima pubblicazione in «European Journal of Social Theory» (già disponibile online).
Frank M. (1994), Der kommende Gott. Vorlesungen über die Neue Mythologie, Suhrkamp, Frankfurt a.M. (trad.it. Il dio a venire, Einaudi, Torino 1994).
Husserl E. (1977), La crise de l'humanité européenne et la philosophie (1935), Aubier-Montaigne, Paris (ed. bilingue).
Kojève A. (1990), L'Empire latin. Esquisse d'une doctrine de la politique française (1945), in «La règle du jeu», 1 (1990).
Kundnani H. (2011), La Germania come potenza geoeconomica, in «Limes», N.4., pp.67-84.
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Savinio A. (1977) Sorte dell'Europa (1943-1944), Adelphi, Milano.
Schlögel, K. (2012), Arcipelago Europa. Viaggio nello spirito delle città, Bruno Mondadori, Milano.



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