1. Fine del multiculturalismo?
Si può dire che il dibattito sul rapporto tra diritti delle culture e diritti degli individui, almeno prima dell'11 settembre 2001, sia stato caratterizzato da una sottolineatura delle differenze tra i diversi modelli di cittadinanza, in particolare tra modelli multiculturalisti e assimilazionisti. La letteratura più recente ormai restituisce, sotto questo profilo, un quadro significativamente mutato, soprattutto se ci si sofferma sulla realtà europea. Si assiste, infatti, ad una convergenza intorno alle parole d'ordine della «integrazione», della «coesione sociale» e della «sicurezza», convergenza che parte da una messa in discussione del multiculturalismo come modello normativo, anche in quei paesi – come l'Olanda ed il Regno Unito – che fino a un decennio fa ne rappresentavano, in Europa, le esperienze più avanzate[1].
Se quella a cui assistiamo non è, certamente, ancora a tutti gli effetti la "fine del multiculturalismo" come prassi, non è improprio parlare di «multiculturalism backlash»[2]. Le nuove politiche immigratorie di paesi quali il Regno Unito[3], la Francia[4], la Germania[5], l'Olanda[6] e la Danimarca[7] rivelano una presa di distanza dalle politiche multiculturali, e contemporaneamente la volontà di affermare con forza un concetto di cittadinanza incentrato sulla cultura nazionale. La legislazione sulla naturalizzazione e l'immigrazione varata da questi paesi europei negli ultimissimi anni segnala infatti uno spostamento da una visione volontaristica ad una visione forzosa dell'assimilazione culturale. L'assimilazione culturale diviene, ancora prima che requisito per acquisire la cittadinanza, conditio sine qua non per ottenere l'ammissione e il permesso di soggiorno. Si assiste al passaggio da una visione thin ad una concezione thick della cultura, che condensa un insieme di valori e stili di vita ritenuti incontestabili e necessari per il funzionamento di una moderna società democratica. L'assimilazione culturale preventiva dei congiunti, inoltre, condiziona anche la possibilità di richiederne il ricongiungimento, sicché di fatto una delle conseguenze della nuova legislazione è rendere sempre più difficile il ricorso alla riunificazione familiare. Ciò facilita la selezione della popolazione migrante, ed è in linea con l'idea di un'immigrazione choisie più che subie, per dirla con la filosofia di governo professata dal governo di Sarkozy.
L'assimilazione culturale, di fatto, da strumento di inclusione si trasforma in un pretesto per l'esclusione dei migranti sgraditi[8]. In generale, inoltre, l'integrazione da compito dello Stato diviene responsabilità dell'immigrato, al quale è richiesto di dimostrare la volontà di aderire ai valori della nazione mediante veri e propri contratti di integrazione (quali il Contrat d'accueil et d'intégration introdotto in Francia nel 2006 e il successivo Contrat d'accueil et d'intégration pour la famille del 2007 che rende i genitori responsabili della piena integrazione dei figli[9]) e il superamento di test di conoscenza della lingua, della cultura, e in generale della vita del paese di accoglienza, test mediante i quali si tenta talvolta (l'esempio più eclatante è rappresentato dal test introdotto in Germania dal Baden-Württemberg nel settembre del 2005[10]) di sondare persino le "attitudini psicologiche e i giudizi morali piuttosto che la comprensione cognitiva e l'accettazione giuridica" di principi quali la difesa dei diritti degli omosessuali, delle donne, ecc[11].
2."Défaut d'assimilation" e obbligo di "credere"
L'illustrazione di un caso concreto può aiutarci a capire alcune delle implicazioni più inquietanti e illiberali a cui può portare questa nuova politica. Il 27 giugno del 2008, con decreto n. 286798, il Conseil d'État francese, la più alta corte amministrativa, ha rifiutato l'accoglimento della domanda di revisione della decisione con la quale nel 2005 era stata negata la cittadinanza a Faiza Silmi[12]. Nella sentenza la Corte sostiene che Silmi non può divenire cittadina francese «pour défaut d'assimilation», una mancata assimilazione dimostrabile sulla base dell'adozione da parte della stessa di «une pratique radicale de sa religion, incompatible avec les valeurs essentielles de la communauté française, et notamment avec le principe d'égalité des sexes». Da otto anni in Francia, la Silmi è sposata con un cittadino francese, di origini marocchine, ha tre figli nati in Francia, e parla perfettamente francese. Per sua scelta, Silmi indossa il niqab e professa un islam ortodosso, ma pacifista. Per i giudici francesi il solo fatto di indossare un velo integrale è un simbolo della sua accettazione della propria condizione di oppressione e della sua adesione ad un sistema di valori patriarcali, antimoderni e antifrancesi.
A suscitare perplessità non è evidentemente la valutazione negativa sul velo integrale. Per motivi di ordine pubblico e di sicurezza, pare ragionevole e pacifico chiedere che la persona renda visibile il proprio volto. In questo caso, tuttavia, la ragione addotta dalla Consiglio di Stato per negare la cittadinanza a Silmi è il difetto costituito da una mancata adesione ai valori "francesi" e in particolare al principio dell'uguaglianza tra i sessi. Il pericolo evidente di una simile posizione – come ha sottolineato Jean Bauberot[13] – «consiste nel voler trasformare i valori in credenze obbligatorie», in un'ingiunzione da parte dello Stato a sposare determinate "verità". La nuova "integrazione repubblicana" sembra richiedere, in altri termini, di "credere" nella parità tra uomini e donne, o, meglio, almeno di professare a parole, anche se in modo ipocrita, la credenza nella parità tra i sessi, perché – come insegna il Locke dell'Epistola de tolerantia – la fede sincera non può essere imposta con la forza: con l'imposizione al massimo si può ottenere un conformismo esteriore.
Questa sentenza e le successive mosse del governo francese in direzione dell'emanazione di una legge che vieti in qualsiasi circostanza di indossare il burqa e il niqab (legge che ha ricevuto l'approvazione della Camera dei deputati il 13 luglio e del Senato il 14 settembre 2010, nonostante che in maggio il Consiglio di Stato abbia dichiarato che un'interdizione totale del velo sarebbe da considerarsi incostituzionale14), e persino della proposta di revocare la cittadinanza francese a cittadini musulmani ritenuti colpevoli di costringere le moglie a portare il velo e di poligamia[15], sono l'espressione più appariscente di una situazione, non solo francese, che richiede una riflessione attenta. L'appello alla laicità, che aveva giustificato la battaglia politica contro il velo, iniziata – come si ricorderà – nel 1989, che ha portato nell'aprile del 2004 all'approvazione della legge che vieta «di portare segni che manifestano visibilmente un'appartenenza religiosa»[16] all'interno della scuola pubblica, appare ormai superato[17]. Se quell'appello, per molti osservatori, era da considerarsi estraneo alla tradizione francese e ne rappresentava «anzi una vera e propria rottura», in quanto per la prima volta imponeva «la "neutralità" ai fruitori – e non più solo ai funzionari – del servizio pubblico dell'educazione»[18], di fatto, negli anni successivi, lo scontro ha sempre di più abbandonato la questione della laicità, o, forse, meglio, ne ha stravolto il significato. La nuova "laïcité positive" – per riprendere l'espressione utilizzata da Sarkozy negli ultimissimi anni[19] –, infatti, si presenta come una «laicità sacra»[20], che si pone in concorrenza con le altre religioni, in un rapporto che Tevanait definisce di «rivalità mimetica» con il religioso[21]. Grazie a questa nuova concezione della laicità il terreno dello scontro si è venuto a concentrare sul problema della condivisione dei valori fondamentali della repubblica e, più in particolare, del valore dell'eguaglianza tra uomini e donne, un'uguaglianza che, ad un tratto, trova il suo principale, e sembrerebbe unico, nemico nell'islam.
3. La manipolazione politica delle questioni di genere
Genere e sessualità sono venuti, così, a giocare un ruolo cruciale nei discorsi su immigrazione e convivenza nelle società multietniche. Dopo essere rimaste a lungo "invisibili" nella società europea, le donne immigrate e i loro figli sono divenuti oggetto di un'osservazione costante e di un'attenzione morbosa, che non nasconde l'obiettivo di liberarli da una "famiglia immigrata", pensata come realtà tradizionale, legata a uno spazio pre-moderno, pericolosamente impermeabile al cambiamento[22]. Nell'esprimere il proprio disagio verso la realtà delle famiglie immigrate dei quartieri, per esempio, Loubna Méliane, portavoce dell'associazione "Ni Putes ni soumises", ha parlato della necessità di «aider les femmes des quartier è quitter leur milieu et leur famille»[23].
Rappresentate spesso nell'immaginario collettivo come vittime e al tempo stesso percepite come una minaccia, le donne immigrate, provenienti dai paesi asiatici, arabi o africani, si trovano al centro di dinamiche complesse di inclusione/esclusione, che intrecciano xenofobia, islamofobia, razzismo e anti-sessismo all'interno del quadro economico disegnato dalla globalizzazione. Le difficoltà poste dall'analisi di questi fenomeni e, ancor più, quelle relative ad un possibile disegno d'intervento hanno messo in crisi e diviso il movimento femminista – come è particolarmente evidente, di nuovo, nella situazione francese.
In Francia, in effetti, i nomi di Elisabeth Badinter e di Christine Delphy, direttrice della rivista "Nouvelles Questions féministes", possono essere evocati a testimonianza della spaccatura che separa due tra le anime più rappresentative del femminismo d'oltralpe e le vede schierate su due fronti opposti e irriducibili: da un lato, il fronte dell'anti-sessismo e, dall'altro, quello dell'anti-razzismo. I toni accesi del dibattito e le contrapposizioni forti che lo caratterizzano rischiano, talvolta – come si sottolinea soprattutto da parte di quanti tentano di fare ricerca sociologica sul campo –, di rendere complicato un discorso "scientifico" su argomenti quali, per esempio, quello dei matrimoni combinati e forzati, su cui crescente è stato l'interesse della politica negli ultimi anni[24]. Tuttavia, i conflitti interni al femminismo in relazione alle questioni poste dal multiculturalismo sono stati, a parere di chi scrive, estremamente positivi sia sul piano dell'affinamento di strumenti adeguati per la comprensione della realtà sia sul piano della chiarificazione dei sentieri pericolosi su cui possono condurre alcune delle direzioni teoriche percorse fin qui.
Le tensioni esistenti tra multiculturalismo e femminismo derivano principalmente dal fatto che le culture si differenziano tra loro in larga misura in relazione alle aspettative sociali legati a ruoli maschili e femminili e, più specificamente, al modo in cui governano la vita riproduttiva, sessuale e familiare. Tali tensioni segnalate già nel 1998 da Susan Moller Okin in un saggio tanto dibattuto quanto, a dire della stessa autrice, incompreso[25], sono risolte dall'approccio anti-sessista di autrici come Elisabeth Badinter e di associazioni come "Ni putes ni soumises"[26]con una mossa semplice e troppo netta: le culture tradizionali, e, in particolare, l'islam, sono culture patriarcali che opprimono le donne. Il multiculturalismo è sinonimo di "comunitarismo", particolarismo e tribalismo: esso richiama lo spettro di una "balcanizzazione" e frammentazione della società. Ogni concessione al multiculturalismo è colpevole di complicità con l'oppressione nei confronti del genere femminile e deve essere condannata. In quest'ottica, – come scrive la Badinter, sostenendo la battaglia contro il velo –, «la défense de la laïcité, c'est la défense de l'égalité des sexes». Esplicito è nel discorso della scrittrice francese il presupposto che la violenza nei confronti delle donne da parte degli islamici rappresenti un residuo di una realtà premoderna, estranea all'Occidente.
«Ce combat s'adresse aux jeunes femmes de la première génération de nouveaux arrivants, ou encore aux jeunes filles d'origine maghrébine. C'est pour elles qu'il faut le conduire. Franchement, depuis longtemps, dans la société française de souche, que ce soit le judaïsme ou le catholicisme, on ne peut pas dire qu'il y ait une oppression des femmes»[27].
Posizioni come queste, che hanno ottenuto ascolto anche attraverso testimonianze quali quella di Hirsi Ali Ayaan, la somala che ha girato il film Submission insieme a Theo Van Gogh, e che in Italia hanno trovato eco negli scritti di Oriana Fallaci e nelle battaglie di personaggi politici come Daniela Santanché, nascondono alcuni evidenti pericoli. Da un lato, esse conducono ad una vittimizzazione della donna immigrata, la cui voce rimane spesso inascoltata, e ad una stigmatizzazione del maschio islamico che non può non essere violento e oppressivo verso l'universo femminile. Dall'altro – come è evidente dalle parole della Badinter –, simili posizioni possono facilitare la rimozione della consapevolezza della violenza nei confronti delle donne diffusa nelle nostre stesse società, anche al di fuori dei quartieri e dei gruppi etnici[28], dove, per altro, spesso non sono solo le questioni culturali, ma anche quelle sociali ed economiche a far salire la tensione e la conflittualità.
La condizione della donna immigrata, costantemente associata alla poligamia, ai matrimoni forzati, alle mutilazioni genitali femminili, alle violenze coniugali, ai delitti d'onore, è evocata in un modo che si presta alle più facili strumentalizzazioni da parte di governi che in questo momento stanno puntando sulla carta della xenofobia e del razzismo per rafforzare il senso dell'identità nazionale e far fronte alle insicurezze e ai rapidi cambiamenti cui la globalizzazione sottopone le nostre società.
Nel contesto post-coloniale francese, inoltre, essa è servita a distogliere l'attenzione del discorso pubblico dalle condizioni di vita difficili di una popolazione proveniente dalle ex colonie e residente in Francia da diverse generazioni, spesso costituita da cittadini francesi a tutti gli effetti, eppure ridotta in povertà e costretta in condizioni di marginalità economica e sociale, all'interno di un mercato del lavoro caratterizzato da chiare gerarchie etniche[29].
4. Due esempi: le politiche contro la poligamia e i matrimoni forzati
Che la questione dei diritti delle donne sia spesso utilizzata in termini strumentali, al fine di dare un volto di "rispettabilità" all'attuale islamofobia europea[30], si può facilmente verificare mediante un'analisi delle politiche varate per rispondere, per esempio, a fenomeni quali la poligamia e i matrimoni forzati.
Per quanto riguarda la poligamia, rimanendo sempre alla situazione francese, dopo la legge Pasqua del 1993, le donne che si trovavano in condizioni di convivenza poligamica, e che erano arrivate regolarmente in Francia fino a quel momento attraverso il ricorso al ricongiungimento familiare, si sono ritrovate all'improvviso in una situazione a dire poco drammatica: dovere divorziare dal marito e tentare di vivere autonomamente, oppure rischiare di non ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, e quindi, di fatto, dovere vivere in condizioni di irregolarità sul territorio francese. Se madri di figli nati in Francia, infatti, queste donne non possono essere deportate, ma questo non dà loro diritto ad alcuna forma di regolarizzazione e quindi le priva della possibilità di trovarsi un lavoro, se non al di fuori del mercato regolare, e di ricevere i benefici dell'assistenza sociale. Molte donne immigrate sono finite così in una situazione che Danièle Lochak ha definito di «infra-droit», un diritto incerto, di seconda qualità, che le rende estremamente vulnerabili ad ogni forma di discriminazione e violenza sia all'interno della famiglia che nella società[31].
Per quanto concerne, invece, la questione dei matrimoni forzati (un fenomeno complessivamente raro, che riguarda non solo i musulmani, ma anche i Sikh e gli Indù), e il loro complesso rapporto con la realtà dei matrimoni tradizionali o combinati, si può guardare alle politiche introdotte dal governo britannico. Nel 2000 un gruppo di lavoro sul fenomeno dei matrimoni forzati costituito dal ministero dell'interno ha prodotto una relazione dal titolo A Choice by Right, nella quale ha avanzato una serie di principi guida per l'intervento sociale in materia, tra i quali: il coinvolgimento delle comunità, il monitoraggio delle dimensioni e dell'estensione del fenomeno, la promozione della conoscenza in termini di diritti e servizi, ecc. Nonostante la relazione del gruppo di lavoro non avesse dato una particolare enfasi alla dimensione transcontinentale della questione, due mesi dopo la sua pubblicazione il governo inglese ha annunciato di voler rafforzare le sue iniziative in quella direzione attraverso un più severo controllo dell'immigrazione e un'intensificazione delle relazioni con la polizia oltremare[32]. Sempre puntando ad una soluzione del problema mediante il controllo dell'immigrazione – come la Danimarca che ha innalzato a 24 anni l'età del coniuge per il quale si può richiedere la riunificazione familiare e ha vietato i matrimoni tra cugini[33] –, il Regno Unito ha portato prima a 18 anni e poi a 21 l'età necessaria per poter sponsorizzare l'ingresso nel paese del proprio sposo o della propria sposa proveniente da oltremare. Tali misure, percepite come discriminatorie da alcuni gruppi etnici minoritari, non facilitano il dialogo con le comunità più interessate dal fenomeno[34]. Non tengono conto, d'altra parte, del fatto che i matrimoni forzati possono verificarsi, e si verificano, anche all'interno del territorio dello Stato. La strada scelta, in effetti, sembra essere quella di risolvere il problema eliminando la possibilità stessa di matrimoni transnazionali[35].
Mentre si rafforzano le misure penali (nel 2007, il Regno Unito ha introdotto il Forced Marriage (Civil Protection) Act) e i controlli sull'immigrazione, poco si fa, in tutta Europa, sia al fine di favorire il dialogo con le comunità, sia al fine di rendere praticabile l'opzione di exit per le ragazze che si trovano in una condizione di pericolo. Rimangono deboli le misure di sostegno alle giovani che fuggono dalle pressioni familiari e devono essere in grado di ricostruirsi una vita autonoma. Le giovani che vengono portate con l'inganno nel Regno Unito per essere destinate ad un matrimonio tradizionale forzato non possono lasciare la relazione matrimoniale prima di aver ottenuto un regolare permesso di soggiorno, senza il quale è per loro impossibile accedere al sostegno dell'assistenza sociale. Per arrivare ad avere un permesso di residenza autonomo dal marito, tuttavia, devono aver avuto la residenza nel paese per almeno due anni (fino al 2003 era sufficiente un solo anno)[36]. Avendo riconosciuto il pericolo che una donna potesse rimanere all'interno di un matrimonio forzato per non incorrere nel rischio della deportazione, il governo inglese ha recentemente introdotto una nuova legislazione in merito, la quale concede un permesso di residenza permanente alla donna che sia in grado di dimostrare che la rottura del matrimonio è avvenuta per violenza domestica. Le prove da produrre, tuttavia, sono tali da rendere questa strada difficilmente percorribile; ed è una strada che comunque non dà diritto ad alcun sostegno economico e finanziario, né a un posto dove la donna possa rifugiarsi fino a quando non venga risolta la questione relativa al suo status di immigrata[37].
5. Teorie di genere e multiculturalismo: oltre le facili risposte del femminismo anti-sessista
La strumentalizzazione politica cui si sono prestate le posizioni del femminismo anti-sessista à la Badinter, evidente nel caso francese dove sono state utilizzate dal potere politico al fine di controllare la popolazione immigrata, hanno suscitato imbarazzo in una parte del movimento femminista e prodotto, al contempo, anche tentativi interessanti volti a percorrere strade alternative. Se l'antisessismo propone una contrapposizione netta tra femminismo e multiculturalismo, altre posizioni teoriche all'interno degli studi di genere riconoscono – accanto alle tensioni – anche alcuni elementi di possibile dialogo tra la prospettiva femminista e quella multiculturalista. Femminismo e multiculturalismo, in effetti, sono accomunati dalla denuncia del "falso universalismo" sostenuto dal pensiero mainstream, che ha a lungo spacciato come universale il punto di vista del maschio bianco, indipendente, proprietario, normodotato ed eterosessuale. Entrambi combattono quelle forme di oppressione e di diseguaglianza che si annidano nelle strutture sociali e possono difficilmente essere superate mediante il ricorso ad un'idea astratta di eguaglianza che di fatto chiede alle minoranze sessuali e culturali di omologarsi al modello dominante[38]. Dalla volontà di superare la contrapposizione, pur riconoscendo le tensioni che possono sussistere tra multiculturalismo e femminismo, sono nate diverse soluzioni teoriche. Oltre a soluzioni ingegnose, ma poco praticabili come l'idea di una "giurisdizione condivisa" o di una «joint governance» tra lo Stato e i gruppi culturali, proposta da Ayalet Shachar in Multicultural Jurisdictions (2001)[39], mi pare che tre siano i principali approcci teorici nati dalla volontà di condurre una battaglia per i diritti delle donne che non si presti a facili strumentalizzazioni[40]. Si tratta, per altro, di tre strade teoriche che non necessariamente si presentano come alternative e che paiono suscettibili di reciproca integrazione.
Il primo approccio teorico nato dal dibattito su multiculturalismo e femminismo si richiama alle potenzialità di mediazione della democrazia deliberativa e del dialogo democratico interculturale – una strada teorica percorsa da autrici quali Seyla Benhabib[41], Monique Devaux[42] e Sarah Song[43]. Nella battaglia contro il foulard che ha portato all'emanazione della legge del 2004 in Francia, una delle cose che più ha colpito gli osservatori è stata la volontà del legislatore di ignorare la voce delle ragazze che indossavano il velo. È così sfuggito totalmente all'analisi il fenomeno delle cosiddette "identità di resistenza" e del "ribaltamento dello stigma", ovvero della riappropriazione in termini positivi di un marchio identitario cui la società ha attribuito un significato negativo e discriminatorio, fenomeno che sarebbe emerso alla luce qualora le donne islamiche fossero state ascoltate prima di arrivare all'emanazione della legge. Questo approccio condivide il sospetto espresso da Anne Phillips verso ogni forma di reificazione delle culture, che arrivi a «sottostimare la diversità e la contestazione all'interno del gruppo , e ad esagerare le differenze tra le culture»[44]. È evidente infatti, come abbiamo visto dalla prima parte di questo lavoro, che esiste una tentazione forte da parte della cultura dominante di offrire delle culture minoritarie quella che Uma Narayan ha definito una «package picture»[45]: un'immagine impacchettata, sigillata e chiusa verso l'esterno, tale per cui pratiche culturali – oggetto nella realtà di continue reinterpretazioni e contaminazioni – debbano per forza essere descritte come immutabili.
Un secondo approccio teorico, elaborato da autrici quali Marilyn Friedman (2003)[46] e Monica Mookerjee (2008)[47], ha lavorato sul concetto di autonomia, alla ricerca di una concezione della stessa che possa rendere accettabili pratiche culturali che violano i diritti delle donne, quando sia possibile verificare che queste pratiche, come per esempio i matrimoni combinati (da distinguere dai matrimoni forzati), sono state oggetto di una scelta consapevole da parte delle donne stesse. In questa prospettiva, l'opzione di liberare, in ogni modo, in nome della superiorità del valore dell'uguaglianza tra i sessi, le donne immigrate dalle loro famiglie e dalle loro comunità etniche, è considerata paternalistica e, spesso, irrealistica e controproducente.
Un terzo importante filone femminista utilizza gli strumenti e le categorie prodotte in particolare dal femminismo nero, strumenti riconducibili al concetto di «intersezionalità» coniato da Kimberlé Crenshaw, che ha avuto una notevole influenza su una parte del femminismo francese – basti pensare alle opere recenti di Elsa Dorlin[48] e Cristine Delphy, ad alcuni dei numeri pubblicati dalla rivista "Nouvelle questions féministes"[49] e al movimento delle cosiddette fémministes indigènes. Nella prospettiva dell'intersezionalità, è necessario prestare attenzione alle molteplici barriere che possono intralciare il percorso verso l'eguaglianza, barriere che possono essere costituite dal sovrapporsi e dall'incrociarsi (la metafora dell'incrocio stradale è spesso privilegiata per illustrare questo approccio) di fattori quali razza, etnia, classe, genere, età e disabilità. Questo consente di comprendere le problematiche che riguardano le donne appartenenti alle etnie minoritarie, a partire dalla loro peculiare collocazione sociale all'incrocio tra due o più assi di subordinazione, tra cui: la razza e il genere, la collocazione di classe e lo status, l'essere cittadina o straniera, l'essere immigrata regolare o irregolare. È questa prospettiva che consente a Cristine Delphy (2008) di affermare che quella tra anti-sessismo e anti-razzismo è in realtà una contrapposizione: per le donne delle etnie minoritarie la lotta femminista non può essere separata da quella anti-razzista, perché razzismo e sessismo convergono nel disegnare la loro condizione di oppressione non solo all'interno del gruppo al quale appartengono, ma anche all'interno della società, rendendo fortemente diseguali le loro reali possibilità di accesso a posizioni sociali, risorse e servizi, rispetto alle opportunità concesse alle donne bianche. Se l'essere donna è una condizione di vulnerabilità e sfruttamento, l'essere donna, l'appartenere ad un gruppo etnico minoritario e il non avere un permesso di soggiorno regolare amplia lo spazio della vulnerabilità e dello sfruttamento, ovvero l'ambito delle esperienze nelle quali si possono sperimentare quelle condizioni negative.
L'approccio democratico-deliberativo, i tentativi di rielaborazione della nozione di autonomia e la prospettiva dell'intersezionalità delineano strategie contestuali, sensibili alle circostanze, all'ambiente sociale e alle dinamiche di potere all'interno del gruppo, e tra gruppo minoritario e gruppo maggioritario, dinamiche che, a seconda del loro carattere, possono ostacolare o viceversa facilitare l'azione e l'espressione di una voce autonoma da parte dei soggetti più vulnerabili. Questi approcci rifiutano soluzioni calate dall'alto e sottolineano i limiti di ricette che prevedano il ricorso al solo strumento della legge. Privilegiano le strade lente della mediazione e dell'ascolto, strade cui oggi è disinteressato un potere politico orientato al brevissimo periodo e ad assecondare in modo populistico le paure della maggioranza.