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Stranieri morali[*]

Giacomo Marramao

Il titolo di questa lecture, “stranieri morali” tocca una delle questioni centrali del mio volume più recente, i cui temi ho discusso in un intenso incontro presso la Scuola Normale[1]. Mi corre tuttavia innanzitutto l’obbligo di spiegare l’origine dell’espressione. Essa nasce all’interno del dibattito bioetico e si deve al medico e biologo statunitense (di origine tedesca) Hugo Tristram Engelhardt[2].
Questi affronta il tema dei moral strangers in relazione alle scelte, talvolta tragiche, che le democrazie si trovano oggi a dover compiere. Si tratta di scelte che investono direttamente la nuova gamma di questioni legate al corpo: come la riproduzione assistita, l’intervento sul genoma umano, il superamento delle tradizionali linee di confine tra tecnica e bios, artificio e natura. Engelhardt, più specificamente, nella sua qualità di rappresentante iperlaico della bioetica, sottoscrive una posizione volta a legittimare il diritto degli individui a disporre sovranamente del proprio corpo, trattandone sul libero mercato la vendita degli organi. Prescindendo da queste conclusioni radicali e dalle inevitabili reazioni di rigetto che esse possono suscitare, va riconosciuto ad Engelhardt il merito di aver posto sul tappeto una serie di questioni attuali e urgenti delle nostre democrazie: questioni che, travalicando le frontiere tracciate dalla politica moderna tra le sfere del pubblico e del privato, fanno emergere il drammatico fenomeno di un’irriducibile pluralità conflittuale di assunti di valore che non sono relativisticamente addomesticabili come meri punti-di-vista, ma si pongono al contrario come veri e propri fronti polemici o punti-di-attacco. È in ragione di ciò che le nostre società appaiono irreversibilmente caratterizzate dalla presenza di stranieri morali: di ottiche di principio tragicamente contrapposte su questioni destinate ad assumere una rilevanza sempre più decisiva per le nostre “forme di vita” e per i nostri modi di intendere e organizzare la comunità.
Ma vi è un’ulteriore e ancor più decisiva conseguenza che la contesa sui valori determinata dallo scompaginarsi delle linee di confine tra pubblico e privato reca con sé: quelli che erano fino a poco tempo fa temi e dilemmi dell’im-politico o del pre-politico tendono ad imporsi sempre più come elementi costitutivi di una nuova dimensione super-politica. Sebbene il fenomeno non sia ancora giunto ad una completa attualizzazione, sono tuttavia facilmente riscontrabili i segni di un cambiamento radicale che minaccia di sconvolgere, e in prospettiva forse anche di travolgere, l’agenda setting dei governi. L’intero ventaglio delle questioni connesse al corpo, alle relazioni tra corpi e alla loro “codificazione”, al mondo-ambiente in cui i corpi sessuati si relazionano e all’inestricabile intreccio tra costituzione ‘naturale’ e costruzione ‘tecnoculturale’ della sessualità – in breve, tutto l’insieme di quei fenomeni che da Gehlen a Luhmann, da Sloterdijk ai teorici del post-human, viene compendiato sotto le sigle dell’“antropotecnica” e dell’“antropopoiesi” – sembra ormai destinato ad assumere una centralità politica assoluta. A fronte di questa tendenza, il radicalismo ambientalista, con la sua idea di un mondo ridotto a “spazio interno” o “sfera globale” senza più distinzioni dentro/fuori, rappresenta per un verso l’interfaccia ipertecnologica, bene espressa dal paradigma cyborg, per l’altro il controcanto iperumanistico, che trova la sua espressione emblematica nel modello di comunità conviviale di Ivan Illich, recentemente riattualizzato – sulla scorta della critica della tecnica di Jacques Ellul – dalla teoria della “decrescita” di Serge Latouche[3]. A dispetto di tutte le obiezioni che si possono legittimamente rivolgere nei confronti di tali esiti, è difficile negare che le parole d’ordine che da essi scaturiscono suonano come veri e propri campanelli d’allarme per le società democratiche: basti solo pensare alla drammaticità con cui il tema della sfida ambientale costituita dalla minaccia nucleare e dal global warming è stato reiteratamente sollevato dal Premio Nobel ed ex-Vicepresidente americano Al Gore, ponendo ai governi una serie di scadenze perentorie che non rientrano ancora, se non in minima parte, timidamente e tardivamente, nelle agende politiche.
Un discorso analogo vale per le questioni bioetiche o biopolitiche, di cui è importante non perdere di vista l’intima interconnessione con il più generale problema della biosfera. Al tempo stesso, occorre tuttavia considerare che la carica ultimativa di quelle parole d’ordine nasce – come si conviene a ogni paradigma dell’ultimatum – da un intento deliberatamente provocatorio. Lo stesso Latouche afferma, a proposito della decrescita, che si tratta non tanto di una categoria ma di uno slogan inteso come sirena d’allarme rispetto alle linee di tendenza ancora prevalenti nelle politiche economiche. Lo ‘stato dell’arte’ dell’economia e delle politiche economiche è caratterizzato, a suo avviso, da un perdurante “fondamentalismo della crescita” che, mentre rischia di essere problematizzato fuori tempo massimo nel mondo occidentale, si è ormai esteso in forme assolutamente aproblematiche nelle ‘modernità altre’: come dimostrerebbe l’assunto classicamente industrialista che sorregge le attuali dinamiche di modernizzazione delle economie asiatiche, e dell’economia cinese in particolare. A questo proposito, appare difficilmente oppugnabile la tesi di quanti sostengono che, se la modernizzazione in Cina procederà secondo i criteri invalsi fino ad oggi, gli equilibri del sistema-ambiente saranno destinati ad andare incontro in tempi rapidi ad un’alterazione irreversibile. Ma altrettanto inoppugnabile è la replica di quanti osservano che l’Occidente non ha alcun titolo di legittimità ad elevare moniti, essendo quei criteri interamente desunti dal modello di sviluppo e dagli standard di sfruttamento intensivo e illimitato delle materie prime propri dell’industrialismo occidentale: come potrebbe ergersi a maestra di saggezza e corifea di un’etica del limite una civiltà che ha inventato e trasmesso al mondo intero il meccanismo della crescita illimitata? Si tratta di un meccanismo – o, come oggi si dice sulla scorta di Foucault, di un dispositivo concettuale – di matrice teologica, che è alla base del modo in cui la modernità ha inteso la dimensione economica: un meccanismo fondato sulla saldatura tra temporalità ‘infuturante’ e Oikonomia provvidenziale divina. Ma non ho bisogno di insistere oltre su questo motivo, oggi opportunamente rimbalzato al centro di significative ricerche e riflessioni: per la semplice ragione che è stato da me focalizzato sin dagli inizi degli anni Ottanta nei miei lavori sulla secolarizzazione.
Vediamo allora di ritornare sulle tematiche del corpo come indicatori di un passaggio dall’impolitico (categoria rivisitata a suo tempo con grande finezza da Roberto Esposito) all’iperpolitico. La crucialità che quelle tematiche vengono oggi ad assumere segnala la caduta di uno dei princìpi cardinali della politica moderna: il confine tra verità ultime e verità ‘penultime’. Conformemente a un assioma sostanzialmente invariato nelle diverse versioni del contrattualismo moderno, queste rappresenterebbero la soglia invalicabile della politica, mentre quelle resterebbero invece appannaggio esclusivo della metafisica e della religione. Si tratta ora di comprendere che proprio la violazione del confine tra verità penultime e verità ultime è alla base del mutamento radicale di scenario nel quale ci troviamo ad operare. Il Leviatano moderno, di cui il Leviatano democratico non è che la forma secolarizzata e ‘civilizzata’, è fondato su un paradigma di razionalità (e di “scelta razionale”) secondo il quale tutti i conflitti etici che affiorano all’interno del corpo sociale sono destinati, nel medio periodo, ad essere riconvertiti funzionalmente in conflitti di preferenze. In altri termini: i conflitti qualitativi sulle opzioni di valore, se opportunamente orientati secondo criteri di razionalità, saranno ‘prima o poi’, i.e. in tempi ragionevoli (questo il senso dell’espressione “medio periodo”: nel lungo periodo, diceva Keynes, “saremo tutti morti”…), traducibili in conflitti quantificabili, di ordine redistributivo. Risiede qui, in ultima analisi, la scommessa di uno dei paradigmi più influenti della politica moderna, così come si è venuto delineando da Hobbes a John Rawls fino alle filosofie politiche normative attuali: che nel medio periodo i conflitti simbolici, identitari, verranno ‘razionalmente’ convertiti in obiettivi quantificabili, di interesse. Mi rendo conto di avere usato un eufemismo: più che di una scommessa, si tratta a ben guardare di un wishful thinking. Sebbene la piattaforma dell’ultimo Rawls[4], quella dell’overlapping consensus, riveda il modello della prima formulazione della teoria della giustizia del 1971[5], rinunciando a un piano unitariamente comprensivo, universalistico, di soluzione del problema della società giusta e spostando il focus della normatività dal regime del razionale all’ambito del ragionevole, essa continua tuttavia a mantenere l’idea della traducibilità del conflitto di valori in obiettivi procedurali, declinabili in regole di funzionamento della società politicamente e tecnicamente circoscrivibili. Il contrattualismo moderno, in altri termini, amputa uno dei corni del dilemma che ha assillato la politica moderna sin dalle origini, nella fase ‘pre-westfaliana’ inaugurata dalla rottura dell’unità teologico-politica della res publica christiana operata, in ambito teorico, da Machiavelli e, in ambito etico-pratico, dalla Riforma protestante: le guerre civili di religione. Il fatto che il richiamo ai tragici conflitti confessionali che hanno insanguinato il suolo d’Europa tra XVI e XVII secolo ritorni in Liberalismo politico di Rawls – con una tonalità che ricorda sorprendentemente Carl Schmitt – come termine di confronto analogico con gli odierni conflitti etico-culturali, va inteso in questo senso come un sintomo delle difficoltà del contrattualismo di operare tanto una messa a fuoco diagnostica quanto una messa a punto terapeutica del profilo ancipite del conflitto che attraversa l’intera epoca moderna: dalla fase della modernità-nazione, segnata dalla disgregazione dell’unità religiosa dell’Europa e dalla nascita del sistema degli Stati sovrani, all’attuale fase della modernità-mondo, segnata dal ritorno dei conflitti fondamentali che la sovranità intramondana dello Stato sembrava avere definitivamente neutralizzato tramite i propri dispositivi ‘secolari’ di legittimazione procedurale. Nella modernità il conflitto politico assume una duplice valenza, descrivibile lato sensu con il ricorso alla coppia concettuale materiale/simbolico. A differenza di quanto comunemente si crede, i due termini non costituiscono un’antitesi, una coppia oppositiva, ma piuttosto un’endiadi. All’interno della dinamica di trasformazione accelerata della modernità i conflitti sono – simultaneamente e circolarmente – di due tipi: conflitti materiali e conflitti simbolici, conflitti di redistribuzione e conflitti di conversione.
Ho introdotto un’essenziale variante nella coppia che è oggi al centro del dibattito filosofico-politico: la coppia redistribution/recognition. Sono infatti convinto che la nostra elaborazione debba proiettarsi oltre il riconoscimento. La drammaticità (non solo latente) degli odierni conflitti consiste in una dimensione simbolica non riducibile alla richiesta di riconoscimento, proprio in quanto mirante alla ‘conversione’ di altri soggetti o attori sociali ai propri princìpi. Si tratta allora di comprendere due aspetti essenziali. Primo: la matrice religiosa della conversione non è un residuo del passato, ma un motivo intimamente connaturato al moderno. Secondo: nel modo di atteggiarsi dei partiti politici, dei gruppi sociali, dei movimenti culturali o religiosi, i confini tra le due dimensioni dell’interesse, ossia degli obiettivi materiali quantificabili, e dell’affermazione su scala sempre più larga dei valori, ossia della visione ideologica o religiosa del mondo, non sono quasi mai nettamente demarcati e spesso tendono a sfumarsi fino al punto di scomparire. Uno dei limiti del contrattualismo, con la sua visione procedurale, è stato quello di aver oscurato il côté-conversione, relegandolo in uno spazio teologico o metafisico a priori sottratto a qualsivoglia tematizzazione politica. Ma un nodo non tematizzato è destinato inevitabilmente a trasformarsi in insormontabile aporia e in variabile indipendente: è stato così che la potenza simbolica incapsulata nella sfera della conversione ha finito per autonomizzarsi, divenendo una polarità irriducibile del conflitto moderno. Passando in rassegna gli sviluppi e le metamorfosi del conflitto nel corso della modernità, dal Cinquecento fino ai giorni nostri, ci si rende conto dei limiti di ogni visione riduzionistica (ivi compresa quella di un malinteso ‘materialismo’) tesa ad espungere o derubricare il ruolo giocato dai processi di identificazione e disidentificazione, di affiliazione e disaffiliazione, e di come la logica della conversione, base religiosa di ogni forma di agire indirizzata al proselitismo, si trasmetta – in forme certo secolarizzate, ma con rituali sorprendentemente analoghi – ai partiti e ai movimenti politici moderni.
Il motivo genealogico della persistenza della matrice religiosa anche nelle pratiche più secolarizzate dei partiti non era certo sfuggito a Max Weber. Partendo dall’analisi della natura dilemmatica del conflitto moderno, Weber aveva delineato una sua cartella diagnostica del tema degli stranieri morali nella forma autoctona, ma per ciò stesso ancor più drammatica, del “politeismo dei valori”. Il weberiano Wertpolytheismus non è dunque riducibile, come taluni hanno ipotizzato, a puro e semplice pluralismo: per la decisiva ragione che esso segnala la persistente irriducibilità della dimensione della fede in qualsivoglia assunzione etica di principio. In quanto punti-di-attacco, e non meri punti-di-vista, gli assunti valoriali recano in sé due lati fra loro inseparabili: per un verso la logica del conflitto, dell’antitesi e della lotta mortale rispetto ad altri valori; per l’altro la logica della conversione, dell’acquisizione di un numero sempre più ampio di proseliti alla propria gerarchia di principi e visione del mondo. Ma vi è di più, vi è un ulteriore fattore che rende drammatica la diagnosi-prognosi weberiana: l’inerenza del conflitto di valori agli stessi individui. Nell’epoca del compiuto “disincantamento del mondo”, ogni soggetto, fin nelle più intime pieghe del suo foro interiore, è inevitabilmente attraversato da imperativi di valore contrastanti. Tale situazione si presenta come una conseguenza indotta dall’elevato coefficiente di razionalizzazione tecnico-scientifica della società: trovandosi al cospetto di un’esclusività incommensurabile tra opzioni di principio fra loro incompatibili ma al tempo stesso intrinsecamente plausibili, gli individui sono posti di fronte a scelte tragiche.
Un analogo dilemma ci si pone oggi quando affrontiamo decisioni legate ai temi dell’ambiente, del corpo, alla drammatica cogenza delle questioni bioetiche e biopolitiche. Ma in una forma resa ancora più grave ed intensa da due nuovi fattori: 1) la dislocazione (all’epoca di Weber ancora in larga misura imprevedibile o appena larvatamente intuibile) delle frontiere della scienza e della tecnica dal dominio della natura ‘esterna’ a quello della natura ‘interna’, della cosiddetta ‘natura umana’; 2) l’estensione della temperie politeistica dalla sfera endogena del “razionalismo occidentale” a una nuova spazialità conflittuale esogena, che include sempre più nella sua orbita altre culture e “forme di vita”. Siamo, dunque, dinanzi a scelte tragiche tra opzioni etiche contrapposte e dialetticamente incomponibili. È un tema che, come è noto, ha occupato per intero la riflessione di Bernard Williams. Rispetto a Weber, Williams radicalizza l’idea della infondabilità filosofica dell’etica: infondabilità legata al fatto che le decisioni morali alternative, o addirittura antitetiche, benché appaiano reciprocamente esclusive, non si configurano con l’evidenza del bene e del male, essendo tutte – come osservavo prima – intrinsecamente plausibili. Basti pensare ai temi della riproduzione assistita o dell’interruzione di gravidanza, alla capacità di prevedere, tramite la rilevazione dei caratteri genetici, le malattie di un individuo già a partire dalla sua condizione fetale, e dei dilemmi etici connessi alla possibilità di intervenire al fine di modificare la traiettoria biografico-destinale dei soggetti. Alcuni teorici laici si sono espressi problematicamente in merito alla questione. È il caso di Jürgen Habermas, secondo il quale l’idea che una serie di decisioni ci mettano nella condizione di sottrarre il corpo e la vita alla lotteria naturale, viola una serie di principi etici ritenuti intangibili dallo stesso pensiero illuminista della modernità. Si tratta di una tesi sostenuta da Habermas non solo nel celebre confronto con Joseph Ratzinger, ma anche in successivi lavori[6]. Alla posizione secondo la quale la sottrazione dell’embrione alla lotteria naturale pregiudicherebbe i codici valoriali universalistici su cui è imperniata la nostra civiltà moderna, nonché la nostra idea di diritti umani, si affianca la posizione di chi, come Bernard Williams, ritiene che, di fronte a scelte estreme di tale natura, prende avvio una situazione tragica di incommensurabile esclusività tra opzioni di valore tra loro incompatibili, ma ognuna in sé coerente e intrinsecamente plausibile.
Come si traduce quanto esposto sopra nello scenario attuale, in quella che io definisco, in opposizione al postmoderno filosofico, modernità-mondo? Ci troviamo a vivere in un contesto che porta al diapason una serie di problematiche che, sebbene presenti all’origine della modernità, non sono più quelle della fase segnata dal dominio e dalle logiche statocentriche della modernità-nazione. La condizione del nostro presente, la “situazione spirituale del nostro tempo” (per dirla con Karl Jaspers), caratterizzata sul terreno dell’etica dalla rottura della frontiera tra verità ultime e verità penultime, risulta segnata sul terreno della politica da una svolta non meno drastica: il passaggio dalla dimensione nazionale a quella mondiale. In entrambi i casi, ci troviamo dinanzi a una revoca delle tradizionali linee di demarcazione tracciate dal razionalismo moderno. La porosità dei confini ha innescato vorticosi processi di modernizzazione in aree che un tempo erano qualitativamente e quantitativamente distanti dall’occidente; ha coinvolto altre culture, altre tradizioni, altre forme di vita negli stessi dilemmi delle società occidentali, complicandone le logiche e i paradigmi dominanti. Ne risulta profondamente alterata la stessa struttura delle nostre società, la cui composizione è segnata non solo dal multiculturalismo, ma anche da un livello di politeismo di valori la cui drammaticità è infinitamente superiore a quella che Weber poteva prevedere. I dilemmi del politeismo dei valori weberiano, infatti, erano dilemmi non solo genealogicamente riconducibili alla vicenda del razionalismo occidentale, ma sostanzialmente interni alla parabola della sua traiettoria destinale. Oggi il processo di razionalizzazione si è esteso al mondo intero, determinando una serie di effetti perversi anche in altre culture: ne ha sconvolto le gerarchie di valore e ha generato, come effetto reattivo, una riscoperta, spesso inventata e in alcuni casi anche strategicamente orientata, delle identità. Il mondo globalizzato, la modernità-mondo, comprimendo spazialmente le diverse forme di vita e culture, ha sprigionato una spinta energetica uguale e contraria, che ha dato luogo a una vera e propria proliferazione diasporica di “comunità immaginate”. Ha prodotto una reinvenzione delle tradizioni, quale schermo di autodifesa identitaria, per consentire ai diversi gruppi umani di far fronte al processo di sradicamento. “Compressione spazio-temporale” è il concetto che è stato adoperato per evidenziare il profilo bifronte del processo di globalizzazione. L’espressione è quanto mai suggestiva, ma rischia di risultare fuorviante se non si opera al suo interno una scomposizione delle dimensioni dello spazio e del tempo. Nel mondo del glo-cal, infatti, al fenomeno della compressione spaziale fa riscontro una diaspora temporale delle forme-di-vita, che dà luogo a una differenziazione (non solo etica ma soprattutto estetica) delle narrative della storia mondiale. Il conflitto di valori odierno risulta così molto meno governabile che in passato, dal momento che ai dilemmi della razionalizzazione occidentale si aggiunge la circostanza che “il disagio della modernità”, come Charles Taylor[7] lo ha definito, è ormai divenuto caratteristica comune delle varie culture.
Lo scenario delle nostre società si presenta pertanto complicato e drammatizzato alla seconda potenza rispetto al modo in cui era stato visualizzato dallo stesso Weber. Due sono i modi in cui è possibile affrontare questo tema, come ho provato ad argomentare in La passione del presente: con un registro filosofico-sociale e con un registro filosofico-teoretico, o filosofico tout-court. Il primo propone di congedare definitivamente il contrattualismo. I vari ‘rivisitatori’ e ‘riformatori’ del modello contrattualista, con i loro continui emendamenti del paradigma originario, non hanno fatto che dimostrare negli ultimi anni una chiara difficoltà a congedarsi dal proprio congedo. Nel disperato tentativo di salvare il salvabile, erigendo muri e cordoni sanitari tra il ‘politico’ e il ‘metafisico’, hanno finito per occultare le nuove dimensioni del conflitto, ripristinando, in forme melanconicamente velate, il wishful thinking della modernità occidentale. Rimuovere la rimozione di questa “ragionevole ideologia” significa prendere atto che le due soluzioni che fino ad ora l’Occidente ha escogitato si sono dimostrate inadeguate: tanto la soluzione fornita dal modello assimilazionista repubblicano, tanto quella offerta dal modello multiculturalista “forte” o, come lo definisce Seyla Benhabib, “a mosaico”.
Quale alternativa, dunque? Per sgomberare il terreno da possibili equivoci, dichiarerò subito la mia distanza dalla soluzione comunemente rubricata sotto le etichette della “riabilitazione della filosofia pratica” o del ritorno alla “filosofia della polis”. Diversamente da teorici, pur rilevanti, come Hannah Arendt, Leo Strauss, Eric Voegelin, non ritengo né possibile né auspicabile un ritorno allo scenario classico della polis greca. E questo per due ordini di ragioni. Non solo perché, nella civiltà della polis, la politica era appannaggio esclusivo di un demos composto di maschi adulti e liberi, la cui partecipazione ‘deliberativa’ alla vita della comunità era garantita dalla presenza degli schiavi e delle donne, che li ‘esoneravano’ da qualsivoglia attività lavorativa e riproduttiva (sebbene fossero le regine dell’oikos, e talora anche le amministratrici della oikonomia, le donne, come si sa, non rivestivano alcun ruolo all’interno della polis ed era loro preclusa qualsiasi funzione pubblica: la donna, in breve, non era un soggetto politico). Ma per un’altra ragione, non meno rilevante e non meno fatale per il destino della polis: dovendo il demos essere per definizione etnicamente omogeneo e garantito nella sua autoctonia dal principio della syngéneia, nessuna delle poleis greche aveva contemplato la possibilità di un allargamento della sfera della cittadinanza agli stranieri. Questa chiusura viene oggi considerata dagli storici antichi come il principale fattore di declino politico della pur grande civiltà greca.
Acclarata l’improponibilità del modello classico per il suo duplice esclusivismo (interno, verso donne e schiavi, ed esterno, verso gli stranieri), veniamo dunque ai due grandi modelli di inclusione nella cittadinanza elaborati dalla modernità occidentale: repubblicanesimo e multiculturalismo, o – se preferite – giacobinismo e pluralismo. La soluzione repubblicana è tipica dello Stato-nazione ed ha la sua espressione emblematica nel caso francese: potremmo dunque definirlo modello-République. La soluzione multiculturalista, invece, è quella propria dei paesi di matrice imperiale. È il caso, ad esempio, dell’impero asburgico che ha vissuto, sotto il profilo non solo letterario ed artistico, momenti straordinari. La lunga esperienza di coabitazione tra una pluralità di culture, lingue, religioni ha indotto Michael Walzer ad affermare che, rispetto agli Stati-nazione, gli imperi si sono dimostrati nettamente superiori sotto il profilo delle politiche e delle pratiche della tolleranza. Ciò non toglie, tuttavia, che – avulso da una koiné orchestrata da un potere imperiale e proiettato sulla scena di un sistema politico democratico – il multiculturalismo rechi con sé un groviglio di controfinalità e di effetti perversi. Non mi riferisco tanto alla versione canadese o a quella statunitense, ma a quello che ho prima definito modello multiculturalista ‘forte’: la versione britannica del multiculturalismo che propongo di chiamare, in antitesi al modello-République, modello-Londonistan. Il modello di inclusione nella cittadinanza che si è venuto a delineare nel Regno Unito presenta, infatti, problemi simmetrici e opposti al modello repubblicano di stampo francese. Il “territorio giacobino” contempla una sfera di inclusione nella cittadinanza astrattamente e individualisticamente egualitaria, e pertanto indifferente alle diverse tradizioni culturali: i segni di identità-appartenenza religiosa o etnica non sono ammessi sulla scena pubblica, come dimostra la querelle sul velo. Il modello britannico, al contrario, prevede una sfera pubblica in cui le cosiddette “differenze culturali” sono non solo ammesse ma anche libere di autorappresentarsi con i propri simboli di riconoscimento identitario e autogovernarsi con metodi propri (come dimostra il recente dibattito suscitato dall’istituzione in Inghilterra di Corti islamiche deputate ad amministrare il potere giurisdizionale sui cittadini di religione musulmana). Se, dunque, l’aporia del modello francese consiste nel determinare un effetto di occultamento dei conflitti di riconoscimento, la patologia del modello britannico va invece rintracciata nella tendenza a codificare le appartenenze nella forma di identità sostanziali, di isole culturali che si situano l’una accanto all’altra senza comunicare e interagire. Il gioco degli opposti speculari imbastito dai due modelli si manifesta in modo eclatante nelle conseguenze. Il modello-République scatena la reazione di gruppi che non si sentono rappresentati nello spazio repubblicano, come è avvenuto con la rivolta delle banlieues. Mentre nel modello-Londonistan la logica dei ghetti contigui tende a ribaltare lo spazio della tolleranza multiculturale nel terreno di coltura più propizio per l’insorgere dei fondamentalismi. Nessuna di queste due forme del patto democratico funziona. Entrambe si sono rivelate fallimentari. Impotenti a fronteggiare le nuove sfide dell’integrazione e della convivenza che l’èra globale pone alle società democratiche.
Per uscire dall’impasse ho avanzato la proposta di una nuova piattaforma teorico-pratica, compendiata nella formula dell’universalismo della differenza. Ancora una volta, per sottrarre il senso della proposta a eventuali fraintendimenti è necessario precisare che essa scaturisce da un doppio fronte polemico e da una duplice linea di demarcazione: per un verso, rispetto all’universalismo dell’identità di matrice illuminista (sia nella versione giacobina sia nella versione kantiana); per l’altro, rispetto all’antiuniversalismo delle differenze culturali (riscontrabile nelle versioni sia di destra sia di sinistra del comunitarismo). La critica a questi due paradigmi che, sotto mutevoli sembianze, continuano a tenere il campo del dibattito internazionale, va condotta su due terreni al contempo distinti e intimamente interconnessi: sul terreno filosofico-politico e sul terreno teoretico-epistemologico. Sul primo terreno, l’universalismo della differenza chiama in causa una diversa concezione della spazialità, consistente in una ripresa e ridefinizione della nozione di civica: intesa come una sfera giuridico-politica inclusiva – a differenza della polis e dello Stato-nazione – di una pluralità di nationes, gentes, confessioni religiose, esperienze e narrative culturali diverse, non assunte però nella loro presunta autenticità e autonomia – come nel modello multiculturalista “a mosaico” – ma poste piuttosto in condizione di relazionarsi e interagire reciprocamente. Si tratta, per farla breve, di rilanciare sulla scena globale, quale alternativa al paradigma ‘sovranista’ del Leviatano moderno, il modello romano, esaltato da Machiavelli come sintesi dinamica e vitale di ordine e conflitto: quello stesso modello che ha consentito a San Paolo di affermare, con la bellissima formula “civis romanus sum”, la piena compatibilità tra l’appartenenza di fede cristiana e l’universalismo politico espresso dalla legge di Roma.
Sarà bene, per afferrare il senso della formula paolina, non perdere di vista il double bind che la sottende: la relazione biunivoca tra allargamento degli orizzonti della predicazione cristiana al di fuori dell’ambito ebraico e vocazione universalistica della Civitas augescens. Il carattere inclusivo e transculturale della “cittadinanza” non si è nutrito unilateralmente dell’universalismo cristiano, ma è stato in larga misura proprio il cristianesimo a compiere un salto di qualità attraverso la grande cornice della spazialità romana. Il cristianesimo, in altre parole, si è universalizzato grazie a Roma, arrivando a predicare ai Gentili e non solo al popolo eletto, gli Ebrei. Per converso, il diffondersi della spiritualità cristiana è stato il fattore decisivo e profondo del declino dell’impero romano. Storici antichi come Luciano Canfora sostengono che quel declino non sarebbe comprensibile senza la capillare, sistematica erosione dei fondamenti culturali e motivazionali dell’ordine imperiale operata dal cristianesimo. Oggi, nel mondo occidentale, sta avvenendo qualcosa di molto simile: l’Occidente vede erosi i fondamenti dei propri assetti di potere da fattori che ne minano alla radice le stesse motivazioni culturali e socialpsicologiche. Questa situazione può essere fronteggiata non tanto da una visione che punti a replicare l’esistente, le differenze, quanto piuttosto da una visione che, muovendo dal fenomeno delle comunità diasporiche, proponga una nuova forma di cosmopolitismo. Un cosmopolitismo della differenza e non dell’identità. Come caratterizzare questa nuova forma di cosmopolitismo?
Occorre innanzitutto comprendere che ciò che sta avvenendo sulla scena globale è una saturazione della fase ‘dispersiva’ e una crescente domanda di un nuovo spazio universale. Perché tale fenomeno si traduca in una svolta è necessario, da una prospettiva filosofica, ripensare la coppia identità-differenza, superandone la polarità. Occorre pensare l’identità, sia collettiva che personale, come un fenomeno intrinsecamente multiplo, dinamico, processuale. Ogni identità, infatti, è determinata da una pluralità di fattori, è intrinsecamente contaminata. È necessario superare il gergo dell’autenticità che è alla base del multiculturalismo. Non esiste identità che sia autentica. Ogni identità è inautentica. Solo a partire da qui è possibile un incontro tra soggetti (sia individuali sia collettivi) intrinsecamente meticciati, la cui irriducibile singolarità non dipende da alcuna essenza, ma dalla trama biografica delle loro relazioni e trasformazioni. Si apre, a partire da qui, la possibilità di un ripensamento radicale della comunità politica a partire dalla differenza e dal multiplo: dove, però, la differenza non è più la categoria della metafisica che si oppone all’identità, ma è al contrario un criterio, il criterio ricostruttivo dell’universale. Finita la fase della decostruzione, la filosofia occidentale deve dar mano a un lavoro di ricostruzione e ricomposizione. La posta in gioco è interamente legata a una ridefinizione della categoria di differenza, come vertice ottico che attraversa tutte le identità, individuali e collettive, rendendole dinamiche, sottraendole alla staticità del sostanzialismo, alla reificazione cui sono condannate dalla visione dominante del multiculturalismo. Questa barratura di tutte le identità deve tradursi in una prospettiva nuova, nella ridefinizione di un altro termine: quello di “simbolico”. Nel mio libro c’è un corpo a corpo con un filosofo italiano scomparso prematuramente, Enzo Melandri[8], che non tollerava il simbolico proprio perché poneva sì il problema appena posto, ma nei termini dell’analogia come nozione antitetica al simbolico. Sebbene Melandri avesse ragione rispetto alla visione dominante del simbolico, sostanzialmente culturalista, aveva però torto a fermarsi alla rilevazione di questa vulgata. La grande etnologia del XX secolo, erede del relativismo culturale che da Montaigne in poi è all’origine della modernità, ha determinato due effetti perversi.
Il primo è stato quello di spingere a confondere il relativismo culturale con il relativismo etico. Il relativismo culturale, infatti, non è un paradigma normativo, bensì uno strumento di conoscenza. Confondere un mezzo di conoscenza con un paradigma normativo significa compiere un misfatto filosofico e politico. Il relativismo culturale serve unicamente a comprendere come i diversi contesti di civiltà stiano insieme e secondo quale logica specifica ciascuno di essi sia governato; serve a impedire di sottomettere le civiltà a un parametro unico di giudizio e ad una prestabilita gerarchia di valori. Ma tutto ciò nulla ha a che fare con il piano prescrittivo del relativismo etico, per il quale ogni cosa si equivale, anything goes. Questa distinzione assume particolare valore alla luce del fatto che in ogni civiltà, in ogni contesto culturale, non solo occidentale, è presente un politeismo di valori. Amartya Sen[9] lo ha dimostrato decostruendo lo stereotipo secondo il quale l’India sarebbe il luogo della spiritualità. La civiltà indiana, infatti, presenta la più massiccia espressione di pensiero materialistico e ateo che si sia mai data, molto più della stessa Europa. Sebbene in ogni civiltà, relativamente alle diverse fasi storiche, si possa parlare di valori dominanti, è sempre presente e operante uno scontro tra valori. Il relativismo culturale, dunque, serve a comprendere questa pluralità di valori e di diversi modelli di ordine di volta in volta adottati. Indebito, però, è il passo da questo piano a quello del relativismo etico.
Il secondo effetto perverso determinato dalla etnologia occidentale, da Montaigne fino al Novecento, è l’avere confinato il simbolico alle differenze culturali. Il simbolico divide l’umanità, i valori razionali la unificano. Nonostante riconosca con Sen il carattere identitario come elemento dominante del conflitto nella modernità-mondo, divergo dallo stesso in virtù della sua visione della ragione come fattore connettivo e del simbolico come agente di separazione. Non è il simbolico a separarci, se per simbolico si intende lo spazio di esperienza dell’umanità di fronte a eventi primari quali la nascita, la morte, l’amore, la sessualità. È, piuttosto, l’immaginario delle civiltà a dividerle. Le radici simboliche delle civiltà sono comuni e possono essere rintracciate solo tramite una rottura dello schermo dell’immaginario: infrangendo lo stadio dello specchio che ne è alla base. Rompere lo specchio dell’immaginario significa gettare le basi di un’effettiva ricostruzione dell’universale. Se affidassimo tale ricostruzione unicamente ai dettami della ragione, come sostiene Amartya Sen, non faremmo molti progressi né riusciremmo a venire a capo del mortale conflitto di valori che attraversa il nostro mondo globalizzato. E altrettanto accadrebbe se facessimo affidamento sul modello habermasiano dell’intesa. Intendersi non ci pone affatto al riparo dai conflitti: Bin Laden non muove guerra all’Occidente perché non lo ‘intende’, ma perché – dal suo punto di-vista, o meglio di-attacco – lo comprende benissimo. Se l’universale non torna a parlare all’esperienza vissuta delle donne e degli uomini concreti, se non si sintonizza con le loro lunghezze d’onda biografiche, se non si dimostra capace di prestare ascolto alle differenti narrative, sarà destinato a rarefarsi in flatus vocis, una pia illusione degli intellettuali, o a cristallizzarsi in uno schema di legittimazione volto a mascherare logiche suprematistiche di interesse e di potere. Per evitare tale rischio occorre strappare il simbolico ai suoi ghetti culturalistici e idiosincratici, per restituirlo alla dimensione dell’universalità vivente: a quella dimensione in cui gruppi umani e civiltà fanno, in forme e ritualità diverse, esperienza delle medesime cose. Il detto di Amleto risulta a tal proposito illuminante anche nell’ottica di un ritorno della filosofia – e della politica – alle imprevedibili varietà dell’esperienza concreta: vi sono più cose tra cielo e terra di quanto la nostra povera filosofia ci abbia finora insegnato; vi sono più vie all’universale di quante il pensiero occidentale, anche il più illuministicamente lungimirante, sia finora riuscito a immaginare.

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[*] Il contributo è stato presentato nel corso di un Seminario svoltosi presso la Scuola Superiore “Sant’Anna” (Pisa, 15 maggio 2008).
[1] G. MARRAMAO, La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Il volume in questione riprende e sviluppa temi da me affrontati in Passaggio a Occidente (2003), nuova ed. accresciuta, Bollati Boringhieri, Torino 2009 e nelle mie ricerche sulla secolarizzazione (Potere e secolarizzazione, nuova ed. accresciuta, Bollati Boringhieri, Torino 2005).
[2] H. T. ENGELHARDT, Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano 1999; ID., Bioethics and Secular Humanism: the Search for a Common Morality, SCM Press-Trinity Press, London-Philadelphia 1991.
[3] S. LATOUCHE, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, Milano 2007; ID., Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
[4] J. RAWLS, Political Liberalism. The John Dewey Essays in Philosophy, 4, Columbia University Press, New York 1993.
[5] ID., A Theory of Justice, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1971.
[6] J. HABERMAS, J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia 2005; J. HABERMAS, Il futuro della natura umana, Einaudi, Torino 2002.
[7] Ch. TAYLOR., Il disagio della modernità, Laterza, Roma 2006.
[8] E. MELANDRI, Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia, Quodlibet, Macerata 2007. Dello stesso autore si veda anche La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Quodlibet, Macerata 2004.
[9] A. SEN, Laicismo indiano, Feltrinelli, Milano 1998. Si veda anche ID., L'altra India, Mondadori, Milano 2005.
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