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Il sistema universitario cinese fra eredità storica e riforme

Laura De Giorgi

Il sistema universitario cinese attraversa da qualche anno una fase di profonde trasformazioni, che riflettono tanto la transizione verso un’economia di mercato e la crescente internazionalizzazione culturale, quanto l’aspirazione della dirigenza del Paese a fare della Cina un protagonista a livello globale. In ragione del valore strategico attribuito alla conoscenza dal Partito Comunista Cinese nella competizione internazionale e nello sviluppo interno e a seguito delle trasformazioni sociali ed economiche avvenute negli ultimi due decenni, l’organizzazione e le caratteristiche dell’istruzione universitaria cinese sono state, infatti, ridisegnate da una serie di riforme e di programmi specifici. Questi sono stati in gran parte ispirati a modelli accademici ed esperienze straniere, e in particolare a quella statunitense. Tale processo di riforma, che pure non si può dire concluso, ha comportato evidenti successi, quali l’espansione dell’istruzione universitaria, la sempre più accentuata internazionalizzazione e un accresciuto riconoscimento internazionale delle principali università. Tuttavia, il settore universitario sconta ancora rigidità e vincoli a carattere politico-culturale dovute all’eredità precedente, mentre le risorse finanziarie sono tuttora insufficienti a fronte degli obiettivi posti dal governo. Inoltre, esistono perplessità sull’efficacia del modello universitario proposto nell’attuale contesto sociale e culturale cinese, caratterizzato da accentuate ineguaglianze in termini di reddito e opportunità occupazionali.


Premessa: l’eredità del modello sovietico

Fino alla metà degli anni Novanta l’organizzazione dell’università nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) è rimasta sostanzialmente identica a quella istituita sul modello sovietico negli anni Cinquanta.
Elementi distintivi di tale modello erano la statalizzazione, l’accentramento del controllo in senso verticale, l’accentuata segmentazione e specializzazione dei curricula e la separazione fra la didattica e la ricerca.
Gli atenei erano controllati e gestiti esclusivamente dal Ministero dell’Istruzione oppure dai singoli Ministeri produttivi. La loro funzione essenziale è stata quella didattica, dato che l’obiettivo del sistema era preparare forza lavoro specializzata secondo le necessità previste per i singoli settori. Di conseguenza, mentre i percorsi formativi erano decisamente specialistici, le attività di ricerca hanno per lungo tempo rappresentato un elemento secondario e poco significativo all’interno delle università, con l’eccezione parziale di alcuni atenei particolarmente importanti.
Fin dagli anni Cinquanta, inoltre, l’accesso all’istruzione universitaria è stato selettivo e posto sotto controllo statale. Nel 1952 venne istituito l’esame unico nazionale. Nel contesto dell’economia pianificata lo Stato aveva il potere di regolare e decidere l’accesso alle diverse facoltà secondo le esigenze produttive previste e a prescindere dalle preferenze e aspirazioni individuali; in assenza di libero mercato del lavoro, anche l’impiego dei laureati era deciso dallo Stato, che, d’altra parte, si faceva carico dell’intero costo del percorso formativo.
Termometro estremamente sensibile alle svolte nell’ambito della strategia di sviluppo e terreno privilegiato per la manifestazione delle tensioni politico-ideologiche e sociali, nel corso del trentennio maoista il mondo universitario ha conosciuto una prima fase di crisi alla fine degli anni Cinquanta, quando, con la repressione degli intellettuali dopo i Cento Fiori e il lancio del Grande Balzo in Avanti, vi fu una penalizzazione delle discipline sociali e giuridiche e una rapidissima e poco sostenibile espansione nel numero degli studenti e degli istituti. Il momento più difficile, nondimeno, è stato rappresentato dagli anni della Rivoluzione Culturale, quando vennero sospese le attività, e per tre anni nessuno studente venne immatricolato. Ancora negli anni Settanta, l’istruzione universitaria cinese era qualitativamente bassa e fortemente influenzata da fattori politico-ideologici.
Con l’avvio delle riforme economiche nel 1978, l’istruzione universitaria venne individuata come un ambito fondamentale per la modernizzazione del settore educativo. Il primo obiettivo della dirigenza cinese è stato, tuttavia, quello di ridare efficienza ripristinando il sistema precedente. Dall’inizio degli anni Ottanta gli atenei cinesi hanno ripreso in pieno le loro attività, avviando curricula a diversi livelli anche nei settori, in particolare nelle scienze sociali, giuridiche ed economiche, precedentemente penalizzati; l’accesso all’università non è stato più vincolato a giudizi a carattere politico-ideologico e basato sull’esame unico nazionale. Di fatto, fino agli anni Novanta, l’organizzazione degli studi universitari è stata improntata ai principi che la caratterizzavano negli anni Cinquanta. Non solo l’università è restata esclusivamente pubblica, ma i percorsi formativi, estremamente specializzati soprattutto in ambito tecnico-scientifico, sono rimasti sotto la gestione dei ministeri produttivi competenti nel contesto di una struttura di controllo verticale. Inoltre, le riforme economiche hanno inizialmente comportato scarsi benefici per il mondo accademico. Le condizioni di vita e di lavoro del personale docente non sono migliorate dal punto di vista materiale e sociale, dato che gli stipendi restavano bassi e fortemente erosi dall’inflazione; gli auspicati effetti positivi per gli atenei, grazie ai programmi di formazione superiore all’estero per i cervelli cinesi, non si sono tradotti in realtà, perché il ritorno in madrepatria, se non coatto, era scarsamente attraente per motivi materiali, ma anche politico-culturali a causa della rigidità del sistema. Neppure le condizioni materiali degli studenti erano soddisfacenti, in ragione delle scarse risorse per le infrastrutture e le dotazioni universitarie. L’istruzione universitaria, rimasta estremamente selettiva, non necessariamente comportava positive opportunità di lavoro e gratificazioni economiche in ragione dell’ancora immaturo mercato del lavoro e delle caratteristiche dell’economia cinese.
È stato dall’inizio degli anni Novanta che la riforma del settore è stata riconosciuta come strategica da parte della dirigenza. A un processo di decentramento amministrativo, si sono accompagnati una serie di provvedimenti orientati a riorganizzare il settore dal punto di vista strutturale, a promuovere l’eccellenza nella ricerca e favorirne una sua ricaduta economica significativa e, infine, ad ampliare l’accesso all’istruzione universitaria.


La riorganizzazione e l’espansione dell’istruzione universitaria alla fine degli anni Novanta: un quadro d’insieme

Il sistema cinese di istruzione universitaria è attualmente uno dei maggiori al mondo. Le istituzioni pubbliche deputate alla formazione universitaria in Cina sono, secondo i dati resi disponibili dal Ministero dell’Istruzione 2634, di cui 767 autorizzate a offrire programmi quadriennali e post-lauream, e 1867 deputate ai programmi biennali e triennali. Inoltre sono attive anche 994 università private, che offrono solo corsi biennali o triennali. Gli atenei pubblici di primo tipo, con programmi post-lauream e di ricerca, sono sotto il controllo del Ministero dell’Istruzione o dei governi provinciali; gli istituti che invece offrono solo curricula più brevi sono, nella grandissima maggioranza dei casi, gestiti dai governi locali.
L’attuale configurazione del sistema universitario cinese è il frutto dei nuovi orientamenti emersi alla fine nella seconda metà degli anni Novanta. In particolare, per ragioni a carattere economico, ma anche politico-culturale, dopo una rapida fase di crescita numerica, fra il 1998 e il 2003 molti istituti di formazione superiore sono stati fusi in organizzazioni di dimensioni più significative. Le accademie specializzate sono state assorbite dalle università, attraverso un processo inverso a quello che, all’inizio degli anni Cinquanta, aveva segmentato l’istruzione universitaria sul modello sovietico. La logica che ha governato questa scelta è stata molteplice. Da un lato, l’applicazione di un’economia di scala all’istruzione universitaria ha permesso di razionalizzare e risparmiare risorse (un simile processo di accentramento e riorganizzazione dei dipartimenti ha avuto luogo all’interno delle singole università). D’altro canto, tale processo ha interrotto la verticalizzazione nella gestione per cui molti Ministeri centrali controllavano direttamente gli istituti specializzati in varie aree del paese e ha favorito piuttosto la capacità dei governi locali e l’autonomia degli istituti di formazione nel rispondere alle esigenze del territorio; infine, tale riorganizzazione ha permesso una modernizzazione dei curricula, eliminando duplicati e l’eccessiva specializzazione.
Altra scelta fondamentale è stata quella di autorizzare e favorire la nascita di istituti di formazione universitaria privati, un’innovazione che ha trovato un inquadramento giuridico complessivo nella Legge sull’istruzione privata promulgata nel 2002. La legge era il punto d’arrivo di un processo iniziato venti anni prima, ma che solo negli anni Novanta aveva comportato la nascita di atenei privati grazie al potere di iniziativa riconosciuto dal governo centrale alle autorità provinciali e locali. Gli istituti di formazione universitaria privati rappresentano un fattore importante per l’ampliamento dell’offerta formativa e per lo sviluppo del mercato relativo, per quanto la loro attività sia limitata all’erogazione di titoli inferiori. L’ambiguità del loro stato giuridico – come organizzazioni no-profit ma al tempo stesso imprese – rimane, tuttavia, irrisolto.
Per quanto riguarda il numero degli studenti iscritti all’Università l’espansione è stata molto rapida alla fine del decennio scorso. Fino agli inizi degli anni Novanta il tasso di iscrizione all’Università dei giovani fra i 18 e i 23 anni era pari al 2,4%. Nel 2001 questa percentuale era ormai del 10% e attualmente è superiore al 15%, e sfiora il 19% , mettendo in evidenza l’emergere in Cina di un’università di massa. Ai giovani che frequentano l’università vanno aggiunti gli adulti, il cui percorso formativo è però gestito da istituti specifici e non porta al raggiungimento di titoli.
L’espansione degli iscritti, attraverso l’ampliamento dei posti disponibili, è stato giustificato dalla necessità di formare la forza lavoro specializzata necessaria a trainare lo sviluppo cinese e a rispondere a un mercato del lavoro più flessibile, più competitivo ed esigente. In realtà, la scelta è stata determinata soprattutto da considerazioni di carattere economico contingenti. Se tradizionalmente, nella cultura cinese, l’istruzione rappresenta una delle principali forme di investimento familiare, il governo, nella seconda metà degli anni Novanta, ha individuato nell’espansione dell’offerta di formazione universitaria un fattore significativo di promozione della domanda interna, fondamentale per consolidare la crescita economica cinese. Si prevedeva, dunque, che il settore universitario avrebbe potuto mobilitare parte del risparmio familiare, favorendo anche lo sviluppo di un indotto collegato alle attività educative. Inoltre, l’accesso all’Università avrebbe potuto risolvere le pressioni sul mercato del lavoro rappresentato dall’alto numero di giovani diplomati. La risposta della società cinese è stata, come si è visto, positiva e anche superiore alle aspettative del governo.
Secondo i dati resi disponibili dal Ministero dell’Istruzione il numero degli studenti iscritti all’Università è di 17.388.441. Quelli iscritti ai corsi standard di durata quadriennale è 9.433.395, mentre quelli iscritti a corsi biennali e triennali sono 7.955.046. Il 50% sono ragazze. A questi vanno aggiunti 786.789 iscritti ai Master e 191.024 dottorandi di ricerca, oltre ai quasi quattro milioni di studenti iscritti alla formazione superiore per adulti, e i tre milioni che frequentano le università on-line. Per comprendere questi dati, va specificato che i curricula offerti dalle Università cinesi sono di due tipi: ci sono i percorsi formativi standard, della durata quadriennale (anche se alcune discipline prevedono sei o sette anni), il cui titolo da poi accesso ai corsi di master e successivamente al dottorato di ricerca. Inoltre esistono i percorsi formativi biennali e triennali, che offrono una formazione più specializzata e orientata alla professione. Attualmente, con la riorganizzazione della didattica in corso, le specialità offerte dal sistema universitario cinese sono 615, mentre per il dottorato di ricerca sono disponibili 571 specializzazioni. La riforma, in questi ultimi anni, ha teso a diminuire il numero delle specializzazioni, per rimediare alla segmentazione precedente, ritenuta poco adatta a un mercato del lavoro sempre più flessibile e mobile. Va sottolineato, comunque, come la disciplina non determini necessariamente la durata del corso di studio, perché nella maggior parte delle discipline sono inclusi programmi quadriennali e programmi più brevi.
Quasi il 30% degli studenti iscritti all’Università in Cina studiano ingegneria, che d’altra parte ha sempre rappresentato la disciplina più importante nella RPC. Più di tre milioni di studenti studiano management e amministrazione, mentre gli studenti di medicina sono poco più di un milione e duecentomila. Più di due milioni e mezzo di studenti frequentano corsi umanistici, mentre gli iscritti alle scuole normali per l’insegnamento sono 1.700.000.
L’accesso all’università, tradizionalmente legato ai voti ottenuti nell’Esame unico nazionale, è stato oggetto di riforme e discussioni. L’esame unificato è stato istituito nel 1952, per poi essere sospeso durante la Rivoluzione Culturale, successivamente alla quale la possibilità di frequentare l’università venne subordinata a criteri a carattere politico-ideologico. Reintrodotto nel 1977, la sua validità come sistema di selezione degli studenti è stata variamente messa in discussione. Nel 1986 venne affiancato, per una piccola proporzione di studenti, dalla segnalazione da parte della scuola superiore. Gli studenti selezionati per la loro eccellenza dagli istituti superiori possono, infatti, accedere all’Università dopo aver superato una prova predisposta da questa, senza affrontare l’esame unico nazionale. Tuttavia, questo canale di accesso agli studi universitari ha anche facilitato la corruzione e i favoritismi, specialmente ora che un titolo accademico, soprattutto se ottenuto nelle istituzioni più importanti, costituisce un canale privilegiato di mobilità sociale ed economica.
Il nodo problematico di tale sistema di accesso all’università, che inevitabilmente evoca la lunga tradizione cinese degli esami imperiali per la scelta dei funzionari, è rappresentato dalla sua scarsa flessibilità. Gli studenti devono superare tre prove, rispettivamente in lingua cinese, matematica e lingua straniera più una quarta prova in una disciplina relativa all’ambito di loro scelta per gli studi. Dal 2004 il contenuto delle prove è deciso non più dal Ministero dell’Istruzione, ma dalle autorità locali. Tuttavia, negli ultimissimi anni si è anche cercato di aumentare l’autonomia dei singoli atenei nel processo di selezione delle domande di immatricolazione. In precedenza, le università potevano immatricolare gli studenti prendendoli dalle graduatorie degli idonei all’interno di un determinato range di voti, collegato al grado gerarchico dell’istituzione. In pratica, le università più importanti potevano immatricolare, a seconda delle discipline, gli studenti con i voti migliori all’esame, mentre quelle di livello inferiore dovevano accettare per le iscrizioni anche idonei con media più basse. Negli ultimi anni, gli atenei sono invece state autorizzati a includere il curriculum di studi precedente fra i criteri di valutazione dei candidati, e alcune hanno iniziato a tenere conto dei voti ottenuti dagli studenti nelle scuole superiori o delle prove interne in modo esclusivo.
L’espansione del settore universitario ha inevitabilmente comportato anche una crescita del personale docente. Tuttavia, con la riorganizzazione del sistema, il rapporto docente/allievi è stato gradualmente aumentato, ed è attualmente è circa di 1:16.
Secondo i dati ufficiali, i docenti universitari sono 1.179.168, di cui 523.740 donne. Negli atenei pubblici lavorano 1.179.168 professori e ricercatori, mentre il settore privato assorbe 21.776 docenti. I docenti sotto i quaranta anni rappresentano quasi la metà del corpo docente, per quanto la maggioranza degli ordinari e degli associati abbia un’età più elevata. I professori fra i 51 e i 60 anni sono circa il 10%. L’età del pensionamento per i docenti universitari, d’altronde, in Cina è piuttosto bassa, 63 anni per gli ordinari e 60 per gli associati. Per quanto riguarda la piramide gerarchica, dai dati relativi al 2001 gli ordinari rappresentavano il 9,5% del totale, gli associati il 30,3%, mentre gli assistant professors, corrispondenti al livello più basso della docenza, erano pari al 35,2%. Infine, assistenti e istruttori, i gradi più bassi nella struttura universitaria cinese, erano rispettivamente il 19,1% e il 6% del totale. La distribuzione gerarchica, nondimeno, cambia a seconda del livello e del ruolo delle università. In quelle più importanti e deputate alla ricerca, la proporzione di associati e ordinari è molto più elevata rispetto agli istituti che offrono solo curricula brevi.
La carriera universitaria è stata resa più appetibile, negli ultimi anni, in modo da far fronte alla fuga dei cervelli verso le imprese private, o verso l’estero. Gli stipendi sono stati raddoppiati in tre anni per tutti, e, soprattutto nelle università più importanti, le condizioni materiali di lavoro e di vita sono state migliorate in modo sostanziale. I docenti universitari, d’altronde, rappresentano un elemento costitutivo di quella classe media, formata in Cina in gran parte da impiegati del settore pubblico, che gioca un ruolo fondamentale nella stabilità sociale e politica del sistema. Inoltre, alcuni programmi di promozione dell’eccellenza hanno implicato numerosi vantaggi materiali e intellettuali per i ricercatori e docenti di punta.
Il reclutamento dei docenti, nondimeno, è stato individuato come un elemento fondamentale per la modernizzazione del sistema accademico. Vi è, infatti, la preoccupazione che l’espansione di questi anni non danneggi il programma di elevamento della qualità dell’offerta formativa e la ricerca, soprattutto in considerazione della competizione internazionale. Tradizionalmente i docenti vengono scelti dall’ateneo fra i dottori di ricerca da questo formati. La carriera poi avanza soprattutto per anzianità. Recentemente, le università più competitive hanno iniziato, però, a modificare il sistema di reclutamento. I nuovi regolamenti sono modellati sul sistema americano, con l’istituzione della tenure-track per i giovani docenti e con l’esclusione, nelle assunzioni, dei dottori di ricerca della stessa università in modo da favorire la mobilità fra atenei. La selezione e la valutazione dovrebbero essere gestite da un comitato incaricato. Le critiche alle nuove regole sottolineano, tuttavia, come i docenti più anziani siano preservati da questa selezione, mentre la pressione sui giovani diventi molto più intensa, tanto più in un contesto dove la libertà accademica non è ancora garantita.


Ricerca e didattica

Se la funzione primaria dell’Università in Cina era in precedenza preminentemente didattica, il ruolo delle istituzioni universitarie cinesi nella ricerca scientifica è in continua ascesa. Negli ultimi venti anni il 10% delle attività di ricerca e sviluppo svolte in Cina sono state portate avanti da istituzioni universitarie. Dei più di due miliardi di euro investiti nella ricerca universitaria in Cina nel 2004, il 54% è stato allocato dal governo, il 37% dall’industria e il 9% da altre fonti, fra cui enti stranieri.
La strategia perseguita dal governo cinese mira a fare della Cina uno dei paesi di punta nei settori tecnico-scientifici più avanzati. Sempre più le attività di ricerca, misurate in brevetti – e quindi in ricadute applicative – ma anche nel numero e nella qualità delle pubblicazioni scientifiche internazionali, sono divenute fondamentali per la valutazione della docenza e il ranking degli atenei.
Date le limitate risorse a disposizione, la strategia governativa è stata quella di favorire in modo consistente alcune università, in modo da trasformarle nei motori dello sviluppo scientifico cinese con l’auspicio che possano fungere da traino per il settore nel suo insieme. Se il governo cinese ha promulgato diversi programmi di finanziamento della ricerca scientifica di cui hanno beneficiato anche le Università, il Ministero dell’Istruzione ha promosso due progetti specificatamente mirati all’elevamento qualitativo della ricerca e della didattica in un numero selezionato di atenei. Il primo progetto, noto come Progetto 211, è stato lanciato nel 1995 e ha implicato la selezione di cento istituti universitari e cento discipline a cui sono stati garantiti mezzi finanziari specifici per lo sviluppo di attività di eccellenza. Gli atenei selezionati sono le cosiddette key-universities, nelle quali la riforma strutturale, il rinnovamento della didattica e l’internazionalizzazione sono stati portati avanti con rapidità. Il Progetto 211 ha anche finanziato alcune strutture nazionali fondamentali per il coordinamento delle attività di ricerca e didattica, come lo sviluppo della rete accademica CERNET, del sistema nazionale per le risorse bibliotecarie (LDSS) e di quello per la condivisione delle strumentazioni per la ricerca (MEFSS).
Il secondo progetto di finanziamento della ricerca universitaria è stato il Progetto 985, avviato nel 1998, di cui hanno beneficiato un numero ancora più ristretto di istituti, addirittura inizialmente dieci soltanto, deputati a diventare world-class universities. Questi atenei sono quelli più importanti in Cina, fra cui ad esempio l’Università Qinghua e la Beijing University nella capitale, l’Università Fudan e l’Università Jiaotong a Shanghai, quella di Nanchino. Gli istituti beneficiari dei fondi del Progetto 985 sono stati ampliati nel 2004 fino a comprendere trentasei università. L’obiettivo del progetto era quello di sviluppare una serie di atenei competitivi a livello globale. I fondi, che nel caso di Qinghua e della Beijing University sono stati pari a 225 milioni di dollari, sono stati indirizzati allo sviluppo di attività scientifiche d’avanguardia e a promuovere l’internazionalizzazione.
La logica che sottende a questi progetti è stata, come si detto, quella di sfruttare al meglio le limitate risorse a disposizione concentrandole nelle università in grado di assicurare le migliori performance nell’ambito della ricerca, soprattutto in settori scientifici e tecnici ritenuti strategici. È una scelta comprensibile, ma che ha conseguenze importanti e non è stata esente da critiche. Uno dei timori, ad esempio, è che accentui in modo irreversibile il divario fra gli atenei delle aree più sviluppate, dove sono localizzati i beneficiari del progetto, e gli altri, con gravi conseguenze sociali ed economiche. Se gli atenei prescelti potranno essere in grado di competere a livello internazionale, le ricadute positive sull’insieme dell’organizzazione di istruzione universitaria cinese sono tutte da dimostrare. Per rimediare ai sempre più evidenti squilibri, va annotato come il governo abbia promosso il gemellaggio fra alcune di queste università e altre nelle province interne, più povere e arretrate.
Un ulteriore aspetto critico di questa scelta è stato identificato nell’enfasi eccessiva sulle discipline scientifiche e tecniche a scapito delle scienze sociali e umanistiche, che hanno beneficiato in grado minore dei finanziamenti. La parte del leone continuano a svolgerla le ricerche nel settore ingegneristico e tecnologico. Inoltre, la ricerca applicata ha sicuramente attirato maggiore attenzione e investimenti rispetto alla ricerca di base. Questo dato desta alcuni dubbi sulla capacità delle istituzioni di ricerca cinesi di proiettarsi in maniera solida ad un ruolo di leadership globale. Questa tendenza sembra rafforzata da recenti misure che sottolineano il potere dei Ministeri produttivi di gestire e indirizzare le attività di ricerca, con evidenti rischi non solo di spreco di risorse per la duplicazione dei progetti, ma anche di eccessiva enfasi alle ricadute economiche immediate rispetto ad attività di ricerca di più ampia portata.
D’altronde, l’importanza attribuita alla ricerca a livello internazionale nei settori ritenuti chiave per il futuro del Paese è dimostrata dalla rilevanza che le pubblicazioni sull’editoria scientifica in queste discipline da parte dei ricercatori e dei docenti cinesi assume per il ranking delle Università cinesi. La graduatoria mondiale sugli atenei elaborata in Cina dall’Università Jiaotong di Shanghai elenca nove università cinesi nelle prime cinquecento. Il criterio di selezione è stato, in maniera preponderante, il numero e l’impact factor delle pubblicazioni del corpo docente degli atenei.
Nella prospettiva della riforma universitaria cinese, lo sviluppo di ricerca avanzata e l’elevamento della qualità della didattica impartita negli atenei sono nondimeno strettamente collegati. Il rinnovamento auspicato per la didattica è particolarmente interessante, perché sotto vari aspetti implica una vera e propria rivoluzione culturale e, se diffuso, avrebbe implicazioni profonde. L’obiettivo dell’insegnamento universitario, infatti, è ora identificato non nel impartire le nozioni, quanto piuttosto nella formazione intellettuale e culturale e nello sviluppo dell’indipendenza di pensiero, originalità e spirito critico degli studenti, destinati a rappresentare la classe dirigente del futuro. A ben vedere, si tratta di un’aspirazione che affiora in varie fasi nella storia dell’università cinese nel XX secolo, fin dai primi decenni del Novecento, ma che si è raramente poi tradotta nella realtà della pratica didattica tanto per ragioni culturali profonde quanto per il contesto politico-ideologico. In questi ultimi anni, vi è certo la consapevolezza che se l’accademia cinese vuole rivestire un ruolo di primo piano nella ricerca scientifica questo può realizzarsi solo con una valorizzazione delle risorse umane individuali. Se negli atenei più importanti si registra sicuramente una trasformazione in questo senso, va ricordato che in Cina sono ancora presenti molteplici vincoli politici alla libertà accademica, specialmente nelle scienze sociali e umane, e molte rigidità burocratiche e amministrative, ma anche culturali. Per ora, le innovazioni nella didattica sono in gran parte limitate alla promozione di curricula interdisciplinari, che ambiscono a dare un maggiore spessore culturale alla formazione degli studenti.
L’inserimento nel corpo docente di nuovi ricercatori e studiosi formati all’estero, grazie a un’attiva politica mirata a favorirne il rientro attraverso fondi speciali e garanzie di autonomia sul piano professionale, è probabilmente un fattore destinato a influenzare, a medio e lungo termine, anche le modalità e le finalità della didattica universitaria. Va ricordato, a questo proposito, che negli ultimi venti anni, sono stati più di 450.000 gli studenti cinesi che, in gran parte per programmi post-lauream, hanno ricevuto un’alta formazione all’estero, soprattutto negli Stati Uniti. Dalla fine degli anni Novanta, anche grazie a nuovi regolamenti relativi al reclutamento applicati dagli atenei più importanti, la tendenza alla fuga dei cervelli si è rallentata e sta conoscendo un’inversione di tendenza.


Il finanziamento del sistema universitario

Il sistema universitario cinese è rimasto essenzialmente pubblico. Le università inserite nei programmi di promozione dell’eccellenza, ad esempio, sono tutte statali, controllate dal Ministero dell’Istruzione o dai governi provinciali. Nondimeno, seppure aumentato in anni recenti in proporzione maggiore alla crescita delle entrate fiscali dello Stato, il budget destinato all’istruzione è, nella RPC, ancora piuttosto basso, attestandosi a poco più del 3% del PIL.
La limitata disponibilità di risorse da destinare alla modernizzazione del sistema universitario hanno progressivamente ampliato il ruolo attribuito al mercato come fonte di finanziamento. Ad esempio, come si è detto, è stata autorizzata e regolata dal punto di vista legislativo la nascita di atenei privati. Questi, fondati in gran parte sotto l’egida dei governi locali, offrono soprattutto titoli brevi professionalizzanti, ma hanno indubbiamente risposto alla domanda formativa diffusa e portato profitti considerevoli.
L’espansione del sistema universitario, nondimeno, è stata sostenuta economicamente attraverso una rimodulazione delle fonti di finanziamento degli atenei. I trasferimenti statali, infatti, rappresentano attualmente in media il 47% del totale, mentre hanno assunto crescente importanza le rette pagate dagli studenti e le risorse guadagnate autonomamente dagli atenei attraverso attività di ricerca, brevetti, cooperazione con il mondo dell’impresa, attività di formazione a pagamento e persino donazioni sul modello americano.
Negli anni Novanta si è reintrodotto il pagamento delle tasse d’iscrizione e delle rette da parte delle famiglie, sulla base dell’idea che il costo della formazione debba essere parzialmente sostenuto anche dai diretti beneficiari. Per facilitare la frequenza agli studenti provenienti dalle classi più disagiate, è stato parallelamente introdotto un sistema di borse di studio per i più meritevoli. Le rette rappresentano attualmente una fonte importante per il finanziamento degli atenei e ormai sono pari, secondo i dati del 2004, a circa il 30% dei costi di gestione. L’importanza assunta dalle rette pagate dagli studenti per il mantenimento del sistema ha avuto, tuttavia, anche effetti negativi, dato che l’offerta formativa da parte di alcuni istituti è stata influenzata da considerazioni a carattere economico e quindi dal fine di attirare un numero consistente di studenti a prescindere dalla sua qualità.
L’altra fonte di finanziamento importante per gli atenei è rappresentato dalle risorse provenienti da attività di ricerca per le industrie, dalle imprese spin-off nate dalle università, dai fondi reperiti attraverso fondazioni la cui funzione specifica è proprio il fund-raising, da attività formative a carattere commerciale. In media, ormai più del 20% dei finanziamenti universitari sono di questo tipo, ma va considerato che molti atenei importanti reperiscono autonomamente anche il 50% del proprio fondo di gestione.
Uno dei casi più emblematici è rappresentato dalla Beijing University Founder Corporation Group, fondato ancora nel 1986, che opera con profitto nel settore dell’Information Technology. Ma anche atenei provinciali cooperano con successo con il mondo dell’impresa, attraverso commesse per attività di ricerca e sperimentazione.
Un altro ambito di sviluppo per la generazione di risorse è costituito dalla fondazione di colleges privati da parte degli atenei pubblici, destinati a offrire corsi a pagamento. Ad esempio, un business significativo è quello dei corsi di lingua cinese per stranieri, ormai diffusi in ogni università, anche in quelli senza una specifica tradizione di insegnamento linguistico.


Conclusioni: università e società nella Cina di oggi

Le riforme del settore universitario cinese, acceleratisi dalla fine degli anni Novanta, sono state ispirate, in linea generale, al modello dell’università statunitense. Non è solo lo sviluppo degli atenei privati e l’introduzione delle tasse e delle rette a mettere in evidenza questo orientamento, ma anche la sempre più accentuata stratificazione gerarchica fra atenei all’interno del sistema, in cui si distinguono chiaramente poche grandi università deputate alla ricerca e all’alta formazione e una miriade di atenei minori, il cui obiettivo è soprattutto quello di rispondere alla domanda di formazione e alle necessità economiche locali. Tale strategia, come si è detto, è l’effetto della volontà della dirigenza cinese di trasformare la Cina in un global-player nell’ambito della ricerca scientifica e tecnologica; tuttavia essa risponde in maniera discutibile ad alcuni altri obiettivi oltremodo fondamentali per lo sviluppo del Paese, e in particolare alla necessità di limitare e porre rimedio alle crescenti disparità sociali ed economiche. I principi che hanno ispirato la riforma dell’università, infatti, rispecchiano quelli che sono stati applicati nella strategia economica degli anni Ottanta e Novanta, tesa a favorire le regioni costiere e le metropoli come fattori di traino per uno sviluppo più generalizzato. Tuttavia, vi sono molti segnali negativi che sottolineano come, nel nuovo sistema, le opportunità di formazione superiore penalizzino coloro che vengono dalle aree e dai ceti sociali più svantaggiati. Ad esempio gli studenti provenienti dalle scuole superiori situate nelle province più povere del paese rappresentano una percentuale minore fra gli iscritti all’università. Inoltre il costo delle rette è spesso eccessivo per la famiglie non abbienti, come indicato dal numero di studenti, spesso originari di aree povere, che pur ammessi all’università rinunciano all’immatricolazione per gli eccessivi costi da sostenere personalmente. Le soluzioni proposte dal governo – gemellaggi fra università, borse di studio, quote regionali – non sembrano sufficienti a determinare un’inversione di tendenza.
Un secondo genere di problemi, legato alla rapida espansione dell’istruzione universitaria nel contesto della commercializzazione della formazione ma anche delle forti disparità economiche e sociali, riguarda la capacità del mercato del lavoro cinese di assorbire il gran numero di laureati. Si ricorda che la decisione di ampliare la quota dei posti disponibili per la frequenza di corsi universitari, alla fine degli anni Novanta, aveva fra le sue motivazioni anche quella di allentare le pressioni sul mondo del lavoro causate dai diplomati. Tuttavia, il problema non è stato risolto; attualmente, secondo i dati ufficiali, fra i neolaureati la percentuale di giovani che trovano un impiego è pari al 61% per i laureati dei programmi triennali professionalizzanti, mentre è pari all’83% per i laureati con curriculum quadriennali e al 93% di coloro che hanno titoli post-lauream. Davanti alla difficoltà di molti laureati di trovare una collocazione lavorativa all’altezza delle aspirazioni sociali ed economiche individuali e familiari, accresciute dall’investimento diretto effettuato dalle famiglie, c’è la percezione diffusa che solo una laurea e titoli post-lauream ottenuti nelle università chiave delle grandi metropoli costiere possano rappresentare un fattore significativo di mobilità verso l’alto. Da un lato, dunque, si registra una fortissima competizione per l’accesso a questi atenei, e dall’altro è presente una crescente delusione nei confronti dei titoli maturati negli atenei minori. Le aspettative deluse possono essere una significativa fonte di destabilizzazione sociale e anche politica, per quanto la responsabilità delle difficoltà a trovare un impiego è spesso attribuita agli stessi laureati, ritenuti poco disponibili, ad esempio, a lasciare le aree urbane più sviluppate o ad accettare professioni alternative. In realtà, il nucleo del problema risiede in parte nella scarsa flessibilità del sistema accademico cinese, e in parte nella commercializzazione della formazione che ha accompagnato la sua rapida espansione e che spinge gli atenei a offrire curricula spesso non rispondenti alle reali possibilità occupazionali.
Infine, nel giudicare l’efficacia della riforma dell’università in Cina, va considerato come restino ancora importanti i vincoli determinati dal controllo burocratico e dal sistema politico nelle attività di ricerca e di didattica. La libertà goduta dal mondo accademico cinese è, senza dubbio, incommensurabile rispetto a venti anni fa. Ma il ruolo a cui è chiamata la nuova élite intellettuale e scientifica non implica che il potere di controllo e intervento politico esercitato dal partito comunista sia sparito. Da un lato, in alcuni settori, in particolare relativi alla storia e alle scienze sociali, la ricerca e la didattica rimangono vincolate alla visione ufficiale. Dall’altro l’eccessiva esposizione pubblica, soprattutto su questioni controverse o delicate – come la corruzione o la critica al sistema politico – da parte del corpo docente possono comportare problemi di vario genere, che arrivano all’esclusione dalla professione. In generale, va ricordato che il potere politico in Cina ha gli strumenti per controllare l’avanzamento di carriera, l’accesso ai fondi, a volte anche la pubblicazione dei risultati della ricerca dei docenti, e quindi per indebolire o reprimere il dissenso nell’accademia, senza tuttavia che questo sia palese. Per altro, dato il ruolo emblematico attribuito per la stabilità politica e lo sviluppo agli intellettuali dalla dirigenza riformista nella fase attuale, la strategia fondamentale per il controllo del mondo accademico è ormai piuttosto quella di blandirlo e costruirne il consenso, rendendolo partecipe e protagonista della visione nazionalista ed élitaria del futuro del Paese.


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