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«Per vincere il dolore…»

Stefano Rulli
Intervista a cura di Andrea Fioravanti

Stefano Rulli è certamente uno dei migliori sceneggiatori del cinema italiano ed inoltre sappiamo che nella sua vita privata, insieme alla moglie Clara Sereni, da tempo vive il dramma di un figlio, Matteo, di 26 anni, affetto da problemi psichici.
Proprio sulla relazione tra padre e figlio, sulla diversità di due persone, Stefano Rulli ha realizzato un lavoro che, in forma diaristica, racconta il rapporto tra Matteo e la sua famiglia, tra Matteo e gli altri: Un silenzio particolare, documentario prodotto dalla Sacher di Nanni Moretti.
Gli strani casi della vita hanno fatto sì che egli vivesse sulla sua pelle esperienze raccontate prima nei film che ha scritto e in cui ha collaborato. Ed allora si deve ripartire da quel lontano 1975, quando, insieme con Bellocchio, Agosti e Petraglia, realizza un film documentario, Matti da slegare, girato in 16 mm nel manicomio di Colorno e nella provincia di Parma. Si tratta di un’inchiesta, che è insieme testimonianza e denuncia. La tesi è racchiusa nel titolo: i malati mentali sono persone “legate” in molti modi e per diverse cause. Se si vuole curarli (non guarirli, ma almeno impedire che vengano “guastati” dai metodi tradizionali) bisogna liberarli, reinserirli nella comunità. Il film dice che spesso la malattia mentale ha origini sociali e che l’assistenza psichiatrica non è soltanto uno strumento di segregazione e di repressione, ma anche di potere economico.
Successivamente però la vita ha portato Rulli a conoscere la parte interna del disagio di quel mistero che vive dentro la follia. Ed è proprio partendo da sé, dalla sua esperienza quotidiana, che Rulli ha continuato poi ad inserire nei suoi film storie, legate alla malattia mentale giovanile, che dalle pellicole degli anni Novanta arrivano poi agli ultimi personaggi inseriti nei film La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana e Le chiavi di casa di Gianni Amelio, storie che raccontano le difficoltà di questi giovani, ma anche e soprattutto la loro ricchezza e la loro forza. Fino ad arrivare ad Un silenzio particolare in cui Rulli ha avuto il coraggio di filmare pezzi della sua esistenza e del suo dolore, di mettere in gioco la sua famiglia, di rendere pubbliche le dinamiche che si creano nel rapporto d’amore con Matteo.
In tutto questo rientra anche la concretizzazione di un’utopia: la realizzazione de La Città del sole in cima al Monte Peglia, il progetto utopico sognato da Tommaso Campanella nell’Italia del 1600 e che ora è un casale dove tutte le diversità e tutte le vite hanno diritto di essere ospitate, rispettate e soprattutto di stare insieme ad altre, «per vincere il dolore» come ribadisce lo stesso Rulli all’inizio del film.
La forma diaristica punteggia il racconto che è introdotto nei titoli di testa da un filmino superotto, dove un bambino se ne sta in braccio alla madre: una di quelle scene di cui sono piene le case degli italiani. Poi la sua voce.
«Caro Matteo, ti ricordi quando non riuscivi a dormire e tutto ti faceva paura?...» ci spiazza perché sottolinea qualcosa di strano che fa virare il senso amatoriale di quel filmino pur mantenendone la struttura. Il giorno dell’inaugurazione de La Città del Sole è una gran festa per centinaia di persone. Ma non per Matteo, che si aggira ai margini dei casali e non scambia una parola con nessuno. In un semplicissimo campo-controcampo Stefano Rulli e sua moglie si scambiano battute cariche di malesseri, sottointesi, paure ed aspettative. Eppure Rulli riesce a tenersi miracolosamente lontano dal ricatto della rappresentazione del dolore e dalla facile riconciliazione; la telecamera esplora con frequenti primi piani che sanno alternare tensioni e tenerezze. Un film davvero sulla felicità a partire dall’infelicità.
Incontriamo Stefano, come sempre molto disponibile e bendisposto a parlare di queste problematiche.

Nel tuo cinema, nel tuo modo di raccontare e di scrivere storie, hai affrontato e messo bene in evidenza il tema ed il problema dell’infelicità a partire dal diverso.

Mah… il problema della felicità…. è una domanda difficile, visto che si tratta di un problema molto grande.
Partiamo da un punto di vista tecnico. Nelle varie storie che ho raccontato c’è sempre un momento drammatico e di difficoltà nei personaggi che li costringe ad una svolta, che li costringe a fare i conti con se stessi e di conseguenza a cambiare. Quindi il problema che si manifesta attraverso un contatto con la propria infelicità, o anche attraverso l’infelicità degli altri, è drammaturgicamente molto importante nella scrittura di un personaggio, a meno che non si voglia costruire un personaggio piatto. Ed inoltre è un passaggio di scrittura cinematografica molto rilevante, perché è un momento di formazione, un momento di conoscenza di sé, di tutto ciò che gli succede o succede alle persone che gli sono vicine. Pensiamo al professore di Mary per sempre che lavora nel carcere minorile e scopre che il mondo in quel posto è molto diverso. All’inizio, non cerca nemmeno di porre rimedio a ciò che vede, tutto gli dà solo un profondo senso di prostrazione. Poi però la scelta finale, dopo aver conosciuto e affrontato la situazione, sarà quella di rimanere. Da questo punto di vista, il tema della crescita e della formazione di uno o più personaggi è ricorrente nelle mie storie e nel mio cinema. Il giornalista ne Il muro di Gomma, il carabiniere ne Il ladro di bambini, i deportati nel film tratto dal romanzo di Levi La tregua o lo psichiatra ne La meglio gioventù.
Poi c’è tutto il problema dell’infelicità non come modalità di scrittura ma come problema in sé, che è molto più grande…

Come mai ti affascina questo problema della narrazione cinematografica a partire dalla felicità nell’infelicità?

Sostanzialmente mi affascina per la sua universalità. È un problema che tutti gli uomini, malati o meno, hanno. Io credo che l’infelicità sia amara, molto dolorosa e piena di angoscia, ma proprio per questo al suo interno si nasconde qualcosa di importante, ricco, stimolante. Proprio a causa della drammaticità dell’infelicità c’è una spinta ad uscire dal proprio guscio, di uscire allo scoperto. Portare alla luce e misurarsi con questo dolore per cambiare. Quindi in questo senso è una condizione molto stimolante dal punto di vista artistico e dal punto di vista umano.
Quando penso ai miei personaggi non penso che loro guardano alla felicità come ad un punto d’arrivo, ma alla felicità come un percorso. Come un percorso dentro di sé che li permette di cambiare.

Per ciò che riguarda invece il tema dell’infelicità a partire da quello che apparentemente è il colmo dell’infelicità, una felicità che nasce dalla accettazione della condizione di diversità e dalla sua valorizzazione in senso umano, tu ti sei occupato fin dal 1975 con Matti da slegare, di problemi psichici. E negli ultimi anni, cioè nel 2004, hai diretto Un silenzio particolare, ancora sul disagio psichico, e sceneggiato il film Le chiavi di casa di Gianni Amelio che racconta le difficoltà di un padre…

Matti da slegare mi ha introdotto al linguaggio del cinema e alla realtà sociale dei malati di mente: due scoperte che avrebbero segnato la mia vita. La prima, infatti, mi ha avviato al mestiere di sceneggiatore, l’altra l’avrei di lì a poco reincontrata con la nascita di mio figlio Matteo, disabile psichico. Ma mentre Matti da slegare è una denuncia politico-sociale, l’esperienza con Matteo ha fatto crollare le mie ideologie e perciò Un silenzio particolare ha un tono diverso.
Quando con mia moglie Clara Sereni subiamo emarginazioni legate a Matteo, scegliamo di non giudicare la società come insensibile, ma di capire che la malattia mentale fa paura: più che denunciare l’insensibilità degli altri è utile aiutarli a capire. Un silenzio particolare è un diario privato che invita i “normali” a guardare con meno apprensione la vita di una famiglia “diversa”.

Dal 1975 ad oggi come è cambiato il rapporto in te, come persona e come autore cinematografico, nei confronti di quelle problematiche che riduttivamente ed in modo semplicistico vengono ricondotte al tema della “follia”?

Prima pensavo ad una lettura più ideologica del problema. Lottavo contro quelle che definivo gabbie del potere. Oggi, dopo che ho vissuto sulla mia pelle il problema delle difficoltà del confronto con la malattia mentale, credo che si debba rispettarne in un certo senso l’inconoscibilità. È davvero difficile parlare della felicità o infelicità di certe situazioni gravi. Però c’è sicuramente qualcosa in quelle situazioni che ci riguarda molto da vicino, vale a dire il problema della comunicazione. Una delle cose più drammatiche per chi vive la diversità, la “follia”, è sentire la difficoltà di comunicare le proprie emozioni, di usare il linguaggio che comunemente viene usato. I “normodotati” spesso fanno violenza anche attraverso il linguaggio. Quasi sempre, quando parliamo, noi diamo per scontato che ciò che diciamo sia comprensibile da tutti; nella follia invece, ciò che di frequente ci sembra insensato, ci sembra incomprensibile, è un linguaggio pieno di senso ma diverso dal nostro. Ecco, io credo che lo sguardo soggettivo di queste persone che si accorgono che il proprio linguaggio non è comprensibile dagli altri sia proprio una delle fonti maggiori dell’infelicità. E quindi, in qualche modo, misurarsi con questa difficoltà vuol dire cominciare ad accettarla, perché certamente la difficoltà di comunicazione è loro, ma in qualche modo è anche nostra, è legata alla nostra difficoltà, alla nostra distrazione e, in ultima analisi, alla nostra difficoltà di metterci in gioco. Una poca disponibilità che è la fonte maggiore della infelicità delle persone malate.
Oggi Matti da slegare non avrebbe senso perché alcuni princìpi per i quali si combatteva allora sono acquisiti, ma ci sono segregazioni più sottili: il disabile mentale può inserirsi, ma solo tramite un accompagnatore che, delegato a gestire il rapporto con lui, diventa a sua volta emarginato.

Quanto ti è costato metterti in gioco da un punto di vista umano nella realizzazione di Un silenzio particolare?

Non lo dico per retorica, ma non è stata una cosa molto faticosa quella di creare un film; è stato faticoso o problematico capire se Matteo fosse, come sembrava a me, interessato a fare questo percorso insieme, se era interessato a fare questo film. Alla fine mi sono preso una responsabilità molto grossa quando ho accettato di dire «si! Matteo è interessato a fare questo viaggio», però volevo anche verificare che quella scelta non creasse problemi a Matteo. Poi una volta deciso questo non è stato difficile mettersi in gioco nel cinema, quando già ci si è messi parecchio, anzi, totalmente in gioco nella vita. Io trovo che la cosa più difficile per chi vive quest’esperienza di contatto quotidiana con la disabilità psichica, non sia quella di decidere di farci o non farci un film, quanto piuttosto quella di accettare di condividerla con gli altri. Quel momento lì è il più difficile. Vivere quell’esperienza aprendosi e accettando di parteciparla con gli altri oppure chiudersi dentro le proprie mura e sostituirsi al mondo per chi si vuole crescere e proteggere.
Poi in realtà Un silenzio particolare è nato per cosi dire casualmente, nel senso che non c’era nulla di programmato. Insieme a mia moglie, faccio parte dell’associazione La Città del Sole, che ha dato vita ad un agriturismo destinato ad ospitare tutte le diversità ed insieme all’operatore Ugo Adilardi stavo girando dei materiali promozionali per far conoscere questa esperienza. L’attenzione era rivolta soprattutto ai gruppi e alle persone che frequentano La Città del Sole quando, con un atteggiamento un po’ provocatorio, Matteo è entrato in campo, mostrandosi interessato a quanto stavamo realizzando, ma proprio perché tutto avveniva in maniera molto naturale, con una semplicissima cinepresa, senza una luce artificiale, lontani dalla dimensione del set cinematografico e della recita, tutte cose da cui lui sarebbe immediatamente fuggito. Così, un poco alla volta, questa dimensione personale e privata ha finito per coinvolgermi maggiormente e ha preso il sopravvento sul progetto iniziale, anche se decidere di metterci in scena non è stato semplice; la scelta è frutto di un lungo cammino comune ed è stata favorita dalla presenza di Ugo Adilardi che, oltre ad essere un ottimo operatore, è anche un amico personale di Matteo.

Quanto è durata la lavorazione del film?

Anche da un punto di vista produttivo Un silenzio particolare non può essere paragonato ad un film tradizionale. Le riprese sono iniziate nel 2001 e si sono svolte con intervalli irregolari per circa due anni. Alla fine c’erano 50 ore di girato, che sono state drasticamente ridotte e montate per un film della durata di 75 minuti. Non c’era nulla di scritto: non esisteva né una sceneggiatura, né un canovaccio, né una traccia, come pure avviene normalmente nel cinema di documentazione. Anzi, le reazioni di Matteo erano sempre inaspettate, andavano nella direzione opposta a quella prevista, con una completa autonomia anche rispetto ai “trucchi” del documentario.

Qual è stata la tua reazione e quella di tua moglie e di tuo figlio, quando, per la prima volta, vi siete visti sullo schermo, ovvero avete visionato il film nella sua edizione definitiva?

Quando ho ultimato il montaggio, ho voluto vedere il film insieme a Clara e Matteo in una dimensione privata sul televisore di casa. Di solito mio figlio non guarda i film insieme a me, perché dopo cinque minuti si stufa e se ne va. Invece, nel caso di Un silenzio particolare è rimasto seduto, ha visto tutto il film e la sua prima reazione, alla fine, è stato un sorriso. Poi mi ha chiesto di rivedere alcune scene ed in particolare una sequenza dove lui piange, chiedendomi che cosa fosse accaduto. Certo con questo non voglio attribuire al film alcun valore terapeutico, ma sicuramente Matteo è rimasto molto colpito, forse ha imparato a vedersi ed accettarsi. Nel rapporto con persone segnate dal disagio psichico, anche per i “normali” diventa difficile distinguere le proprie emozioni da quelle della persona che si ha di fronte; in questo senso Un silenzio particolare è stato utile anche a me e a mia moglie.

Visto che l’abbiamo citata più volte, cos’è La Città del Sole?

Come ho detto in precedenza si tratta di un agriturismo in cima al Monte Peglia destinato ad ospitare tutte le diversità. Da anni mi occupo di progetti di vita per le problematiche mentali. Con mia moglie, Clara Sereni, abbiamo creato un agriturismo, La Città del Sole, un luogo aperto a tutti e che ospita anche persone affette da un disagio mentale. Ovviamente La Città del Sole parte da un’esperienza personale mia e di mia moglie, e dal nostro rapporto con Matteo. Da lì abbiamo creato una fondazione per fare esperienze di integrazione sia per il tempo libero che per il lavoro. Ci sono vari progetti fra cui uno che riguarda la residenzialità, di cui fa parte Matteo, non in case famiglia ma all’interno di un gruppo di persone che hanno altri tipi di difficoltà, sociali, economiche. È un modo per far sì che i “normali” ti diano delle idee, e non solo solidarietà.

Intervista rilasciata il 28 agosto 2006


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