La metafora del radio
«L’opera di Proust ha un valore sociologico?» (Girard 1981, p. 187). La critica proustiana scuote il capo. Rispetto alla Recherche essa riconosce uno spessore sociologico marcatamente maggiore in La Comédie Humaine di Balzac o in Les Rougon-Macquart di Zola, rilevando, ad esempio, l’insignificanza sociologica agli inizi del Novecento del Faubourg St. Germain, il quartiere aristocratico di Parigi che fa da sfondo, nel cuore del romanzo, alla narrazione proustiana. Girard inizialmente sembra concordare con tale giudizio. Anzi lo rafforza.
Dalla fine del XIX secolo il Faubourg non costituisce più un vero e proprio centro di potere politico o finanziario […] non si distingue neppure per una particolare mentalità […] non vi è niente che possa differenziare quello dei Guermantes dagli altri ambienti ricchi e oziosi dell’inizio del XX secolo […] non è né una classe, né un gruppo, né un ambiente; nessuna categoria usata dai sociologi gli è applicabile. Simile a certe particelle atomiche il Faubourg svanisce quando si puntano su di esso gli strumenti dell’uomo di scienza. Non si può isolare questo oggetto (ivi, p. 189).
Anche lo snobismo, tema parimenti rilevante nella scrittura proustiana, sembra condividere, concorda Girard, la stessa «nullità» sociologica del Faubourg. Come il dandismo per Baudelaire, esso parrebbe solo un «residuo dei tempi aristocratici» (ivi, p. 142). Lo stesso stile di scrittura nella Recherche non ha «nulla che meriti il pomposo appellativo di indagine»: in Proust «nessuna esplorazione sistematica» di tale «esiguo» ambito sociale, egli sembra limitarsi a riferire in «modo negligente le chiacchiere intorno ad una tazza di tè» (ivi, p. 188). È per questo che anche Sartre e Paul Valery accusano Proust di «frivolezza d’intenti», di non conoscere la Francia, di confonderla col Faubourg St. Germain (ivi, p. 197).
Eppure, in modo repentino e inaspettato, Girard afferma:
la verità del romanziere è totale. Abbraccia tutti gli aspetti dell’esistenza individuale e collettiva. I sociologi non ritrovano in Proust nulla che richiami il loro modo di vedere perché l’opposizione tra sociologia romanzesca e sociologia dei sociologi è fondamentale. Tale opposizione non interessa soltanto la soluzione e i metodi, ma anche i dati del problema da risolvere (ivi, p. 188).
Per il primo Girard, molto più delle contemporanee scienze umane, è il grande romanzo, l’«unità del genio romanzesco» (ivi, p. 242), che egli coglie entro una linea di sviluppo che va da Cervantes a Flaubert, Stendhal, Proust e Dostoevkij, a svelarci la realtà profonda, individuale e sociale, dell’uomo. Ma ciò, egli precisa, non è un «soccombere» ad una «mistica dell’opera d’arte», e tantomeno «si tratta» di «ricusare la scienza, bensì di cercarla là dove essa si trova, per quanto tale luogo sia totalmente inaspettato»: «esiste» di fatto «in certe opere un sapere», soprattutto circa la realtà del desiderio umano, «superiore a tutto quel che mai ci sia stato proposto» (Girard 1976, p. 25). Ed è proprio per questo, quanto a Proust, che il modo in cui egli ci raffigura il Faubourg St. Germain e lo snobismo può rivestire, in ambito sociologico, una funzione analoga a quella che ebbe lo studio del radio nella storia della fisica moderna.
Il radio occupa in natura un posto altrettanto ridotto di quello del Faubourg St. Germain nella società francese. Ma questo corpo rarissimo possiede proprietà eccezionali che smentiscono alcuni principi della fisica precedente e capovolgono via via tutte le prospettive della scienza. Lo snobismo, parimenti, smentisce alcuni principi della sociologia classica; ci rivela moventi dell’agire umano che la riflessione scientifica non ha mai sospettato (Girard 1981, p. 191).
In tal modo lo snobismo in Proust può anche assimilarsi al «granello di polvere che si introduce negli ingranaggi della scienza e guasta la macchina» (ibidem).
A prima vista il termine “snob”, al pari di “dandy”, sembra non evocare alcunché di inquietante (quale la violenza, l’odio, o anche quel «risentimento» indagato da Nietzsche e Max Scheler) e neppure alcunché di complesso. Esso parrebbe semplicemente designare una raffinatezza stravagante, eccentrica nel proprio stile di vita, improntata da una indifferenza, pienamente appagata di sé, nei confronti di abituali stereotipi comportamentali: dunque, un vissuto spontaneo e unitario, esente da celate e misconosciute zone d’ombra segnate da «sdoppiamento» e «scissione» interiore (Girard 1987, p. 96, p. 111) . Ma se si considera l’origine del termine, da cui il verbo derivato “snobbare”, esso già assume un senso ben diverso. Quale abbreviazione di sine nobilitate nei registri dei colleges inglesi esso designava gli studenti di estrazione non aristocratica. Ed in questi la stravaganza, l’eccentricità ostentata equivaleva ad un rivendicare in sé, nonostante l’inferiorità di status sociale, ma nutrita proprio da un celato risentimento a causa di essa, una effettiva superiorità espressa dal proprio stile di vita, intesa ad espellere ogni altro da quella.
In Girard il termine «espulsione» viene certo privilegiato per designare il «meccanismo vittimario» che, a partire da una iniziale «reciprocità violenta», conduce a quella «unanimità violenta» che fa fuoriuscire un gruppo sociale da una crisi destabilizzante, col polarizzarsi della violenza su di un unico «capro espiatorio». Ma si può rilevare che è già la «reciprocità violenta», in ogni sua forma, ad essere espulsiva, perché in essa ciascuno dei contendenti è proteso ad espellere l’altro da una propria sovrastante «pienezza d’essere» (plénitude d’être [Girard 1978, p. 193]): un termine, questo, di cui è stata giustamente sottolineata la rilevanza che riveste in Girard, nonostante il suo limitato uso lessicale (Livingston 1992, p. 5). Un’espulsione che si concretizza quando, nelle fasi alterne del conflitto, uno dei due rivali riesce ad ergersi sull’altro assestandogli un colpo vincente, incarnando così in sé quella «violenza trionfante» (Girard 1978, p. 200) che, in quanto tale, espelle l’altro da essa.
Certo lo snobismo è ben altro da una violenza cruenta. Eppure, nonostante l’enorme divario che immediatamente saremmo inclini a cogliere tra essi, al fondo di quello si cela la stessa logica di questa. Anzi, per il primo Girard, è proprio concentrando lo sguardo, come fa Proust, su di esso che ci si trova in un punto d’osservazione privilegiato per cogliere tale logica, anche nelle sue dimensioni più macroscopiche e devastanti. Ciò, forse, anche perché il fragore e l’orrore della violenza, nelle sue manifestazioni più eclatanti, ci distoglie dalla sua intima essenza: ci rinchiude, si potrebbe dire, entro una doxa che ci preclude l’accesso ad una autentica episteme di essa, quale condizione indispensabile a disinnescarne la distruttività. Infatti quasi sempre l’urto emotivo che la violenza provoca suscita immediatamente in noi soltanto o un indignato giudizio morale (spesso inconsapevolmente succube delle «caricature del Bene e del Male che ci vengono proposte dalle fazioni» [Girard 1981, p. 168]) o una reattività istintiva protesa ad annientarla. Come fa Penteo nelle Baccanti di Euripide. Ma è proprio il suo esempio a mostrarci che la violenza «domina l’uomo tanto più implacabilmente quanto più l’uomo si crede in grado di dominarla» (Girard 1978, p. 181). È in tal senso che Girard parla anche di una «violenza dei non violenti che noi tutti crediamo di essere» (Girard 2004, p. 40)
Se «il Faubourg St.Germain, ai tempi di Marcel Proust, è l’apice di una evoluzione che provoca una metamorfosi, più o meno rapida, in tutti gli strati della società» di cui è indice il fascino che il suo «nulla » esercita sullo snob, «il romanziere si volge agli snob perché il loro desiderio contiene “più nulla” dei desideri normali», tanto più nichilistici quanto più segnati da un mimetismo conflittuale, che ormai dilagano nel sociale (Girard 1981, p. 191). In tal modo
lo snobismo è la caricatura di questi desideri, e come tutte le caricature, forza le tinte e ci obbliga a vedere ciò che non vedremmo mai nell’originale (ibidem).
Dal desiderio mimetico al conflitto come «imitazione negativa» indifferenziante.
Una tesi centrale in Girard è che il “contro” della violenza cela una fascinazione mimetica nei confronti dell’antagonista. È l’odio, egli scrive, che permette di «tenere lo sguardo fisso» sul proprio modello (Girard 1981, p. 165) e assai spesso «la rivolta è doppia ed equivoca» perché «rispetta ciò che attacca ed attacca ciò che rispetta» (Girard 1987, pp. 103-104). Ma tale carattere mimetico che è riscontrabile al fondo di ogni conflittualità dipende dal fatto che questa è l’esito inesorabile di un tipo di desiderio, prevalente nell’uomo, che Girard chiama «desiderio triangolare», in cui l’imitazione è essenziale. Quasi sempre l’individuo considera, in modo misconoscente, il proprio desiderio come «rettilineo», cioè autonomo e spontaneo, motivato unicamente o dai caratteri intrinseci dell’oggetto desiderato o dalla propria peculiare soggettività. In realtà, quasi sempre si desidera qualcosa solo in quanto si imita ciò che un altro desidera, o possiede . Nel triangolo così delineato da questo tipo di desiderio i tre vertici sono il soggetto desiderante (o «discepolo»), il «modello» o «mediatore» del desiderio, e l’«oggetto» (o la persona, soprattutto nei rapporti erotici) desiderato. Ma Girard precisa che
lo slancio (èlan) verso l’oggetto è, in realtà, uno slancio verso il mediatore […] è all’essere del mediatore che mira il desiderio (Girard 1981, p. 14, p. 49).
In altri termini: quel che veramente desidera il discepolo, desiderando l’oggetto, è una «superiorità d’essere» ([ivi, p. 81] superiorité d’essence: il Girard successivo, negli anni settanta, come si è visto, parlera di plénitude d’être) che viene da lui colta nel modello, di cui egli si sente privo e che vuole «assorbire» in sé, rispetto alla quale l’oggetto figura come una semplice «reliquia» (relique): «l’oggetto sta al mediatore» del desiderio «come la reliquia al santo» (ivi, p. 73). Oggi le tecniche pubblicitarie più efficaci consistono proprio nel manipolare abilmente tale riflesso mimetico-idolatrico per motivare all’acquisto di un prodotto, raffigurandolo come desiderato, o posseduto da un modello particolarmente prestigioso per l’immaginario collettivo.
Nello sviluppo del desiderio triangolare Girard distingue tra «mediazione esterna» e «mediazione interna». Nella prima il soggetto «venera apertamente il modello e se ne dichiara discepolo» (ivi, p. 13), ovvero egli è consapevole della proprio mimesis, una consapevolezza che equivale altresì a riconoscere tra sé e il modello una marcata «distanza spirituale» (ibidem), cioè una sua inattingibile pienezza d’essere Qui, il discepolo si limita a vivere nella luce che il modello proietta sul proprio mondo esistenziale, apprendendo da lui ciò che in questo è autenticamente significativo e desiderabile. È il caso di Don Chisciotte, in Cervantes, nei confronti di Amadigi di Gaule; il «principe dei cavalieri erranti», di Sancio nei confronti di Don Chisciotte o anche, nella Recherche proustiana, di Marcel e della sua famiglia, nel piccolo «universo chiuso» di Combray, nei confronti della zia Léonie. Dunque il modello non è solo mediatore del desiderio, innanzitutto esso dischiude il «mondo» del soggetto. Ma un mondo che a differenza del Welt heideggeriano si struttura in virtù di un «centro focale», «centro di significato» (Girard 2003, p. 76) perché «tutti gli elementi» nell’«esistenza» del discepolo sono «come attratti dal mediatore; da lui derivano la loro gerarchia» e il loro «significato». Dal modello, simile a un «sole», «cala un raggio misterioso» che conferisce agli oggetti desiderati «valori» e «splendore» (Girard 1981, p.78, p. 20).
Col sopravvenire della mediazione interna la mimesis del modello, che pure è ciò che unicamente mantiene vivo il desiderio del discepolo, viene da questi misconosciuta. Qui il modello, in quanto desidera o possiede l’oggetto verso cui si protende il discepolo, viene considerato un mero «ostacolo meccanico», o anche «un nemico scaltro e diabolico» che si infrappone all’acquisizione di dell’oggetto, al soddisfacimento di un proprio desiderio rienuto erroneamente del tutto spontaneo, anteriore a quello dell’altro (ivi, 14). Da cui sorge nel discepolo
un sentimento lacerante formato dall’unione di due contrari: la venerazione più sottomessa e il rancore più profondo. È il sentimento che chiamiamo odio […] egli vuole scorgere nel mediatore unicamente un ostacolo. La parte secondaria che il mediatore svolge passa dunque in primo piano e dissimula la parte primordiale di modello religiosamente imitato. Nella contesa che lo oppone al rivale il soggetto inverte l’ordine logico e cronologico dei desideri con l’intento di dissimulare la propria imitazione (ibidem).
A partire da La Violenza e il sacro Girard sviluppa ulteriormente, modificandola in parte, questa sua teoria circa la genesi della conflittualità, giungendo ad affermare che la violenza non si riconnette soltanto ad una mimesis misconosciuta, ma che violenza stessa è, in sé, mimesis: misconoscente (proprio in quanto è violenza) della propria natura mimetica. E lo fa richiamandosi alla nozione di «doppio vincolo» (double bind), centrale nella scuola psicologica di Palo Alto. Per G. Bateson (che come P. Watzlavick riconduce varie sindromi psicopatologiche a blocchi entro la comunicazione interindividuale) stati psicotici come la schizofrenia deriverebbero da un rapporto di double bind che viene ad instaurarsi tra bambino e genitore. Un rapporto che si sostanzia in due messaggi contradditori (“imitami”/”non imitarmi”, “non sarai mai in grado di imitarmi”) che spesso il genitore, in forme non necessariamente verbali, per lo più sfumate ed implicite, rivolge al bambino. Girard ritiene che questo lacerante ingorgo nella comunicazione interindividuale non sia solo alla radice di sindromi psicopatologiche, ma che caratterizzi anche molteplici rapporti nella vita quotidiana. Ed egli sostiene, in particolare, che l’interdizione violenta, da parte del modello, insita nel secondo messaggio (“non imitarmi”, “non sarai mai in grado di imitarmi”) finisce per assurgere agli occhi del discepolo a cifra essenziale di quella superiore «pienezza d’essere» che gli viene proposta nel primo messaggio (“imitami”). A questo punto «la violenza diviene il significante del desiderabile assoluto» (Girard 1980, p. 197) cioè viene colta come l’emblema, la quintessenza stessa di quella pienezza d’essere che il modello incarna in sé e verso cui il discepolo si protende. «Con sintesi ad un tempo logica e delirante» il discepolo si convince «che la violenza stessa è il segno più sicuro dell’essere che sempre lo elude» (ivi, p. 196) e, proprio per questo, la violenza di ritorno, reciproca con cui il discepolo finisce per aggredire il modello non è altro che una paradossale imitazione di questi; è slancio mimetico verso la sua pienezza di essere che gli appare, ormai, superiore ed esclusiva solo in quanto essa è violentemente escludente, espulsiva da sé. In altri termini «il modello attrae in quanto fa ostacolo» (cioè «attrae» nel senso che il discepolo anela a riprodurre mimeticamente in sé l’ostacolo che lo espelle, cioè anela a farsi ostacolo all’ostacolo) «e fa ostacolo in quanto attrae» (Girard 1982, p. 500). Nello sviluppo del desiderio triangolare, se già col passaggio alla mediazione interna era una «imitazione» misconosciuta «a produrre l’ostacolo, ora è l’ostacolo a produrre l’imitazione» (Girard 1965, p. 155), il che segna una sempre più profonda e più auto-distruttiva «discesa agli inferi» di tale desiderio.
Un'ulteriore modalità in cui Girard spiega lo svilupparsi del desiderio triangolare in violenza è la transizione in esso da una iniziale «mimesi di appropriazione» ad una «mimesi di rivalità» (Girard 1982, pp. 358-360). È ovvio l’esito conflittuale di una mano che ne imita un’altra nel protendersi ad appropriarsi del medesimo oggetto. Inizialmente l’interesse per l’oggetto, anche se mimeticamente suscitato, resta in qualche grado reale, e in qualche misura la lotta resta polarizzata sulla fisicità concreta di esso. Ma con l’inasprirsi del conflitto ben presto si varca la «soglia della irrealtà», che è anche la «soglia dello psicopatologico», per cui il desiderio si sposta dall’oggetto e si fissa sulla supremazia espulsiva, sul «prestigio» determinato dal possesso dell’oggetto (Girard richiama l’attenzione sull’etimo del termine “prestigio”, che capovolge la sua accezione comune: il termine latino da cui esso deriva non ha singolare, ma solo plurale, praestigia, il cui significato è “fantasmi”, “entità illusorie” [ivi, p. 366, p. 364]). In altri termini: se dapprima nell’ “io avrò questo, e tu no” quale telos conflittuale, il desiderio restava ancora in qualche misura incentrato sul “questo”, poi si incentra sempre più esclusivamente sul “io avrò… e tu no” espulsivo.
Il principio che regge una tale dinamica è un contagio mimetico per cui due individui risultano entrambi protesi ad affermare la propria differenza rispetto all’altro. Una differenza che, con l’esasperarsi del conflitto, al suo fondo cessa sempre più di essere qualificata da un qualche carattere positivo e si riduce a mera violenza espulsiva. È anche per questo che paradossalmente, e nondimeno logicamente, tale spasmodica ricerca della differenza ha quale unico esito la trasformazione progressiva dei rivali in doppi, reciprocamente speculari ed indifferenziati. Dunque, il desiderio di differenziarsi dall’altro non deve leggersi in una chiave individualistica, ma mimetica: nel senso che tale desiderio è strutturato da un rapporto di «doppia mediazione» (Girard 1981, p. 88), in cui, cioè, si ha una mimesis ove ciascuno è al contempo discepolo e modello rispetto all’altro.
Più il desiderio aspira alla differenza, più esso genera l’identità (Girard 1976, p. 216).
È paradossalmente il desiderio di differenziarsi che fa ricadere tutto nell’identità e nella uniformità (Girard 1982, p. 371).
Un riscontro di ciò si può avere nella moda, ove «tutti cercano di differire dagli altri», ma «allo stesso modo», nella identica ricerca della griffe più esclusiva (ibidem). Una dinamica, questa, di «imitazione negativa» (Girard 1981, p. 88) la cui logica è la medesima anche quando interviene una rivalità segnata dall’odio e dalla violenza.
V’è dunque un nesso strutturale e costitutivo tra polemos e mimesis. Un nesso che peraltro deve intendersi anche di reciproca implicanza, perché come la violenza, per il suo carattere mimetico, genera indifferenziazione, così reciprocamente anche l’indifferenziazione genera violenza: «gli attuali conflitti si radicano nella indifferenziazione assai più che nelle differenze» (Girard 1998, p. 155); «non sono le differenze, ma la loro perdita a provocare la rivalità pazza, la lotta ad oltranza» (Girard 1980, p. 73). Ciò è riscontrabile già nella quotidianità più anodina ove, entro un contesto sociale indifferenziato, un diffuso e celato senso di frustrazione, un senso di deficit d’essere negli individui li rende sempre più inclini a leggere ogni emergere di differenze, ogni auto-differenziarsi, anche se non intenzionalmente tale, come un desiderio di supremazia, come un ergersi a sovrastare, ad ostacolare; il che eccita immediatamente un reciproco desiderio mimeticamente proteso a contro-sovrastare, contro-ostacolare, contro-espellere. Ponendo il suddetto nesso essenziale tra polemos e mimesis (che resta inavvertito anche nei contributi più notevoli sul tema della imitazione antecedenti alla «teoria mimetica» girardiana, quali Le leggi dell’imitazione di G. Tarde e il capitolo dedicato a questo tema da E. Durkheim in Il suicidio) Girard si pone in antitesi rispetto a tutta una linea di pensiero entro la cultura occidentale che va da Eraclito a Hegel e Marx (per cui sono le differenze ad innestare i conflitti), la quale trova riscontri anche in voci autorevoli entro l’odierna antropologia culturale. Scrive ad esempio V. Turner (che pure, per altri aspetti, viene valorizzato da Girard):
la differenziazione strutturale, sia verticale che orizzontale, è il fondamento dei conflitti, delle fazioni, come delle lotte nei rapporti diadici tra i detentori di posizioni e i rivali che vogliono occuparle (Turner 2001, p. 77).
Va precisato che Girard non nega, al riguardo, che nell’iniziale esplodere della conflittualità le differenze possano contribuire ad «ingrossare il torrente della violenza» (Girard 1980, p. 74). Eppure a mano a mano che la spirale della violenza si esaspera, solo secondariamente in essa la reale posta in gioco risulta essere la difesa di interessi diversi, l’autoaffermazione di identità differenti e per questo reciprocamente contrastanti. Primariamente, ciò cui ogni contendente sempre più anela non è altro che che quel vissuto di pienezza d’essere che è garantito dalla violenza trionfante, sì che lo stesso possesso di beni disputati finisce per ridursi a semplice emblema, «reliquia» di essa. Al parossismo del conflitto la violenza figura, al contempo, come «soggetto», «strumento» e «oggetto» (ivi, p. 192): cioè non si ha altro, da entrambe le parti, che violenza, che mediante la violenza, cerca la violenza come violenza trionfante.
Prima viene l’oggetto, si crede, poi i desideri che convergono indipendentemente su tale oggetto in questione, e infine la violenza, conseguenza fortuita, accidentale, di questa convergenza (ivi, p. 191).
Invece
bisogna guardarsi dall’interpretare tale conflitto a partire dai suoi oggetti, per quanto prezioso possa sembrare il loro valore intrinseco […] è la violenza che valorizza gli oggetti,che inventa pretesti per meglio scatenarsi [...] bisogna rinunciare a legare il desiderio a qualsiasi oggetto determinato, per quanto privilegiato sembri, bisogna orientare il desiderio verso la violenza stessa (ibidem).
Già in Omero la suddetta «violenza trionfante» viene espressa da due termini, kydos e thymos, ma entrambi, rileva Girard, parzialmente misconoscenti il vero significato di quella. Infatti il termine kydos esprime soltanto l’aleatorietà del possesso della violenza trionfante, il suo essere quasi una sorta di trofeo che ci si strappa, incessantemente, di mano in mano. Solo gli dèi, non gli umani, dice Omero, posseggono stabilmente il kydos; sì che in quest’ottica sembrerebbe che lottare per il kydos sia un lottare per niente. Ma il termine thymos esprime un altro aspetto, parimenti rilevante, della violenza trionfante. Anche se oggettivamente aleatorio, inconsistente, il suo possesso risulta soggettivamente, essenziale. Vale a dire, non si lotta solo per niente, ma anche per tutto: appunto, per la propria “anima”, cioè per il possesso di ciò che figura agli occhi di ogni contendente come la propria vera pienezza d’ essere. Peraltro thymos deriva dal verbo thyein, che può significare anche “avventarsi con violenza”, “scatenarsi”, e parimenti “fare fumo” nel senso di dare fuoco alla pira su cui sta la vittima sacrificale (ivi, pp. 201-204).
La violenza come «nichilismo» identitario e valoriale
Tornando a Proust, la «forza caricaturale» (Girard 1981, p. 192) con cui egli descrive lo snobismo (per Girard il bravo «caricaturista» non stravolge i tratti di un soggetto, li semplifica proprio per fare accedere in questo, con icasticità fenomenologica, all’essenziale [Girard 1987, p. 114]) evidenzia efficacemente l’«imitazione negativa» di cui esso si nutre dietro l’indifferenza ostentata, il disdegno, lo sprezzo apparente. Ma, in termini analoghi, e anche in questo caso a stento visibili, anche nell’odio e nella rivalità conflittuale si cela una «segreta adorazione dell’altro» (Girard 1981, p. 178).
Tipico, al riguardo, nella Recherche è il modo in cui viene descritto da Proust il rapporto tra il salon Verdurin e il salon Guermantes. A prima vista la loro lotta per il «predominio mondano» sembrerebbe radicata in differenze antitetiche: il culto dell’arte, dei valori estetici ed ideologico-politici borghesi da una parte; della tradizione aristocratica dall’altra. Ma al fondo del conflitto
gli estranei odiati sono i veri dèi […] se la borghese M.me Verdurin, ufficialmente innamorata dell’arte, fondamentalmente non sogna che l’aristocrazia, l’aristocratica M.me Guermantes non sogna che le glorie letterarie ed artistiche (ivi, pp. 176-177).
E ciò fino al punto che l’«unità aggressiva» di ogni salon è «pura facciata». Ciascuno di essi, nella sua intima e celata fascinazione che nutre per l’altro, «ha solo disprezzo per se stesso» (ivi, p. 176); il suo preteso radicamento in proclamati valori è, in realtà, sradicamento estremo di ogni valore concreto. Infatti, per ciascun salotto pretestuosi non sono soltanto i propri valori, che pure si agitano rumorosamente, ma che equivalgono solo a strumentali armi «brandite contro»; a ben vedere fittizio risulta anche il riferimento ai valori altrui, che pur si venerano segretamente; dato che questi non vengono venerati per se stessi, ma unicamente quali emblemi, «reliquie» di quella divina, fascinosa superiorità che riveste, nascostamente, ciascun salon rivale agli occhi dell’altro.
Dunque, al di là del conflitto di facciata, i due salons figurano in realtà, in forza della loro reciproca «imitazione negativa», «doppia mediazione», come dei doppi, speculari ed indifferenziati. Ma in questa sua lettura della Recherche proustiana Girard non solo già evidenzia efficacemente l’indifferenziazione reciproca alimentata dall’odio («i piatti che fanno più rumore sono quelli che si sovrappongono con maggiore esattezza»), parlando di una «singolare comunione dell’odio» ove «il disaccordo è un meraviglioso accordo negativo» (ivi, p. 182). Come si è visto, l’esasperarsi della conflittualità non dipende dal valore intrinseco dell’oggetto conteso, bensì da un passaggio dalla mimesi di appropriazione alla mimesi di rivalità, il cui esito è un progressivo desertificante sradicamento dalla concretezza della realtà. È per questo che in L’antica via degli empi Girard parlerà di una odierna, sempre più vasta desertificazione del sociale, di cui quella ecologica non è che un esito. Col dilatarsi del desiderio mimetico, nei suoi esiti conflittuali, ove la pienezza d’essere dell’altro affascina primariamente e unicamente nel suo farsi ostacolo che mi espelle da quella
quel che all’inizio è soltanto un’apparenza soggettiva viene ben presto mutato in realtà dal desiderio, giacché esso non nasce mai senza allargarsi a macchia d’olio […] e il mondo diventa realmente quale il nostro desiderio ce lo fa vedere. Quanto più il desiderio diventa mimetico, tanto più il mondo inganna e delude […] È la profezia autorealizzatrice di cui parla J. Dupuy. Se io credo di vivere in un mondo dove solo ciò che si nega, e non ciò che si offre, merita di essere ricercato, collaboro attivamente alla costruzione di un mondo siffatto. La mia visione soggettiva e il reale si accordano in fretta per fare sparire tutto quello che merita di essere desiderato per produrre in quantità sempre più mostruose l’indesiderabile e l’insignificante. In una società in cui questo desiderio trionfa ciascuno contribuisce a rendere desertica l’esistenza […] regioni sterminate del pianeta si sono trasformate in deserti a causa dell’uso che ne hanno fatto gli uomini a causa del loro desiderio […] in un universo di desiderio mimetico tutti gli individui tendono ad espellersi l’un l’altro, quindi ad espellere se stessi, in luoghi simili a deserti (Girard 1994, pp. 87-88).
Tale desertificazione dell’esistenza umana non si connette solo al nesso violenza/indifferenziazione che produce una «desertica geometria di doppi» violenti (Girard 1970, p. 154), ma anche ad un nichilismo identitario e valoriale che è uno degli esiti più caratteristici della violenza. Come mostra il rapporto tra i due salons proustiani, l’intensificarsi di un conflitto implica uno sradicamento sempre maggiore da ogni riferimento a valori concreti (uno sradicamento dalla realtà anticipato già dalla mediazione esterna: Amadigi, idolo di Don Chisciotte, come «sole finto» proietta sugli oggetti uno «splendore fallace» [Girard 1981, p. 20] che offusca, annulla la loro concretezza fisica, trasformando in giganti i mulini a vento, catinelle da barbiere in favolosi elmi di Mambrino…). Al pari del rapporto tra i due salons ormai, in un universo parossisticamente conflittuale, quello che conta non sono più i propri valori per cui si proclama di lottare, ma di cui si fa solo «un’arma contro l’altro» (ivi, p. 126) e neppure i valori dell’altro, cui si proclama ad alta voce di volersi opporre. L’imitazione negativa del “contro”
divora ed assimila a poco a poco idee, credenze, valori (ivi, p. 111).
Anche l’odierna fake-news imperversante sui social media non è riducibile solo a ignorante credulità, o a calcolato strumento di denigrazione: al suo fondo, in un contesto di conflittualità sempre più esasperata, si cela, e al contempo si manifesta in essa nel modo più eclatante, il suddetto nichilismo valoriale generato dalla violenza. Già in Dostoevskij dal doppio all’unità Girard denunciava «il celato nichilismo e l’insulsaggine nauseante dei valori», coinvolgendo in ciò anche una «chiacchiera insopportabile sui valori cristiani» (Girard 1987, p. 119), tipica di una fede dimentica della sua autentica e primaria dimensione testimoniale (come il silenzioso bacio di Cristo al Grande Inquisitore), profetica (cioè attenta ai «segni dei tempi»), anti-idolatrica e demistificante (le christianisme c’est l’incroyance, dirà Girard in Portando Clausewitz all’estremo, e in L’antica via degli empi egli scrive che il vero spirito cristiano «non è affatto un pavido ripiegamento sui “valori tradizionali” di fronte alle audacie di una critica sovversiva praticata dai “maestri del sospetto” dell’universo moderno. Per poter ritornare al testo cristiano occorre al contrario radicalizzare tale critica» [Girard 2008, p. 58; Girard 1994, p. 203]).
Già Stendhal, due secoli fa, mostrava come nel noir (ove, dietro la facciata di un ripristino dell’ancien régime, si afferma sempre più una struttura sociale borghese, tipicamente “moderna”, di conflittualità concorrenziale) in politica fossero «non i programmi a generare l’opposizione» bensì «l’opposizione a generare i programmi» (Girard 1981, p. 111). E in Flaubert Girard coglie una satira feroce del «nulla delle contrapposizioni» nella piatta «pianura borghese» che egli esplora.
L’opera di Flaubert è un “discorso sulla poca realtà” infinitamente più audace di quello di André Breton giacché il romanziere si riallaccia alla scienza e all’ideologia, cioè all’essenza stessa della realtà borghese […] Flaubert inventa lo stile delle finte enumerazioni e delle finte antitesi […] la lista si allunga, ma la somma è sempre uguale a zero […] le grottesche antitesi di Flaubert sono le caricature delle sublimi antitesi di Hugo e delle categorie sulle quali lo scienziato positivista fonda classificazioni che ritiene definitive. Il borghese si entusiasma di siffatte ricchezze illusorie […] le “idee” dei personaggi flaubertiani sono ancora più spoglie di significato di quelle dei vanitosi stendhaliani. Esse ricordano gli organi inutili frequenti nel mondo animale […] si pensi alle immense corna che servono ad alcuni erbivori soltanto per affrontarsi in interminabili e sterili battaglie (ivi, p. 133).
Tale nichilismo connesso alla violenza Girard lo coglie già implicitamente intuito da Eraclito: «la violenza è padre e re di ogni cosa», se si considera, quale esegesi del frammento eracliteo, l’Edipo re di Sofocle: «comprendiamo sempre meglio perché i beni che simboleggiano l’essere, il trono e la regina, si profilano» unicamente «dietro il braccio» minacciosamente «alzato dallo sconosciuto all’incrocio», cioè essi acquistano valore e concretezza unicamente in rapporto alla affascinante violenza espulsiva di quel «braccio», minaccioso e interdicente, di Laio (Girard 1980, p. 196).
Questo nichilismo identitario e valoriale è lo stesso di cui vive lo snobismo, nella «forza caricaturale» con cui Proust lo delinea; ed esso ha nella Recherche forse il suo simbolo più eloquente proprio nel Faubourg St. Germain (il quartiere aristocratico di Parigi in cui abitano i Guermantes). Come si è detto, infatti, lo sguardo sociologico può ben individuare un «nulla» nel Faubourg, agli inizi del Novecento. Eppure questo «nulla» agli occhi dello snob borghese che, dietro un apparente disdegno, anela ad entrare nei suoi salons dorati da cui si sente espulso, è tutto. «Il romanziere continua a sottolineare il contrasto tra il nulla oggettivo del Faubourg e la prodigiosa realtà che esso acquista agli occhi dello snob» (Girard 1981, p. 190). Ma è lo stesso nichilismo l’anima nascosta dello snobismo di ritorno dei Guermantes (indicativo ne è il fascino morboso esercitato sul barone Charlus dal salon Verdurin, nonostante il suo ostentato disprezzo per la «canaglia borghese»): un nichilismo di cui la «nullità» del Faubourg assurge a simbolo privilegiato.
È anche significativo al riguardo come Girard apprezzi il modo in cui L. Goldmann reinterpreta la distinzione marxiana tra «valore d’uso» e «valore di scambio», estendendola al di là dell’economico: per cui se nel secondo caso la «relazione» intersoggettiva risulta «mediata e degradata» perché fissata in termini «puramenti quantitativi» dal denaro, nel primo caso invece prevale «una relazione autentica con l’aspetto qualitativo degli oggetti e degli esseri», nelle «relazioni tra uomini e cose» come nelle «relazioni tra uomini» (Girard 1976, p. 185). Qui, dunque, il «valore d’uso» è qualcosa che travalica l’effettivo valore utilitario, strumentale di un oggetto, che pure è anch’esso quasi sempre deformato iperbolicamente dal suo prezzo di mercato. Esso richiama primariamente quella concretezza del reale cui si apre quel «desiderio» che in Menzogna romantica e verità romanzesca, in opposizione al mimetico «desiderio secondo l’altro» viene definito autenticamente «spontaneo», «secondo sè» (Girard 1981, p. 8). Così inteso, anche il valore economico di scambio produce uno sradicamento nichilistico dalla realtà effettiva, perché la conflittualità concorrenziale di una produzione capitalistica lo asseconda, tramite un marketing che induce quella anche nel consumatore, in una reciproca rivalità in cui si trionfa soddisfacendo bisogni sempre più fittizi. Nel desiderio mimetico è il «sole finto» del modello-idolo che fa brillare l’oggetto desiderato di uno «splendore fallace», il che determina un «progressivo assottigliamento del reale» fino alla sua sparizione completa (ivi, 20, 75). Ma nel «mondo capitalista «tutti gli idoli particolari si riassumono e si superano nell’idolo supremo» del «denaro».
I Padri della Chiesa avrebbero accolto l’intuizione marxista, loro che facevano del denaro il simbolo specularmente invertito dello Spirito Santo e della vita spirituale (Girard 1976, p. 185).
Il «nichilismo» (Girard 1981, 63, 219) di cui parla Girard può altresì richiamare una particolare accezione in cui Nietzsche usa lo stesso termine. In lui se vi è un nichilismo celebrato (quello che è esito della «volontà di potenza») e un nichilismo constatato (Gott ist tot, che giustamente G. Vattimo intende come diagnosi culturale), vi è anche un nichilismo denunciato come mancanza di «fedeltà alla terra» e di «sì alla vita», derivante dall’innalzare trascendenze idolatriche che proiettano un senso fittizio sulla realtà: al pari della girardiana «trascendenza deviata» del modello-idolo. Certo Girard oppone a quella una autentica «trascendenza verticale» (Girard 1981, p. 55), certo la Erde nietzschiana è «caos dall’eternità», mentre la terre girardiana, contrapposta al souterrain mimetico è la dimensione del «desiderio secondo sè» in cui è possibile un vero incontro con gli «altri» nella loro concretezza personale, come coi «beni terrestri» nella loro effettiva realtà (ivi, p. 56). Nondimeno, in entrambi i casi, il nichilismo viene denunciato, sia pure in modalità diverse, come sradicamento dalla realtà (Nietzsche 1997, p.66, p.78). E va anche rilevato come spesso Nietzsche usi i termini «sottosuolo», «sotterraneo», oltre che in senso positivo (quale metafora dello scavo genealogico e decostruttivo degli idoli culturali), anche in una accezione negativa, intimamente connessa alla suddetta accezione di nichilismo (ivi, p. 69, p. 82, p. 126): un lessico questo che gli deriva dalla lettura di Dostoevskij, e in questo caso si può dire che egli singolarmente anticipa l’interpretazione anti-esistenzialistica del «sottosuolo» dostoevskijano che sarà propria di Girard.
Proust, Thorstein Veblen e David Riesman
Ma in che senso Proust può ritenersi innovativo rispetto alla «sociologia dei sociologi»? Questa, risponde Girard, non riscontrerebbe alcun interesse nel Faubourg, nello snobismo perché essa (al pari del «romanziere naturalista») resta paralizzata da un «feticismo dell’oggetto» di ascendenza positivistica, ove l’«oggetto» deriva da un «insipido compromesso tra le percezioni inconciliabili del desiderio e del non-desiderio», e viene situato in «una posizione intermedia che indebolisce tutte le contraddizioni», quelle che invece «il romanziere geniale acuisce», sottolineando cosi «la metamorfosi operata dal desiderio» (Girard 1981, p.183, p.190).
Ci viene ripetuto ogni giorno che il mondo è condotto da desideri “concreti”, ricchezza, benessere, potenza, petrolio. Il romanziere pone, invece, un interrogativo apparentemente innocuo, irrilevante: “che cos’è lo snobismo?” (ibidem)
In altri termini, l’attenzione di Proust: non si appunta sull’oggetto reale; e neppure sull’oggetto trasfigurato; bensì su quel «processo di trasfigurazione» (ibidem) per cui il Faubourg, nel suo «nulla», diventa tutto all’occhio dello snob (analogamente in Cervantes una banale catinella da barbiere diventa per Don Chisciotte il favoloso elmo di Mambrino). La «sociologia romanzesca» in tal modo supera il «positivismo» di Comte, padre della «sociologia dei sociologi», da cui non si svincola totalmente neppure Durkheim nel suo privilegiare l’oggettività fattuale delle «rappresentazioni collettive», eludendo così i vissuti psichici individuali che le generano (già nella classificazione comtiana delle scienze figura un salto dalla biologia alla sociologia che esclude la psicologia come scienza). Ma non per questo la «sociologia romanzesca» di Proust resta succube di uno psicologismo riduzionistico tipico del tardo positivismo.
Proust è […] lungi dall’essere indifferente dalla realtà sociale. Ci parla soltanto di essa, in un certo senso, poiché la vita interiore è già sociale […] e la vita sociale è sempre il riflesso del desiderio individuale (ivi, p. 192).
È un analogo «processo di trasfigurazione» che costituisce, secondo Girard, uno dei dati più rilevanti della dinamica sociale contemporanea; ed esso ha le proprie radici in un mimetismo reciproco sempre più indifferenziante e nichilistico. Secondo Girard «le odierne analisi marxiste della società borghese sono certo più profonde di tante altre»; eppure, esse non riescono a spiegare adeguatamente le «nuove forme di alienazione» che nascono «quando i bisogni sono soddisfatti e quando le differenze concrete cessano di dominare i rapporti tra gli uomini»; questo perché anche la sociologia marxista resta imprigionata in una «tirannia», in un «feticismo dell’oggetto». Ma anche la sociologia non marxista non fa che «imbrogliare le carte» quando parla a proposito dell’ URSS (Girard scrive qui nel 1961) di «classi» che «si riformano»; in realtà si tratta solo di «nuove alienazioni» che «compaiono dove scompaiono le antiche». Invece «la fecondità del punto di vista proustiano» la si può misurare anche nella sua assonanza con alcune, anche se isolate, valide «intuizioni» di alcuni sociologi: come la nozione di conspicuous consumption in T. Veblen, che «è già triangolare» perché in essa «il valore dell’oggetto consumato dipende ormai solo dallo sguardo dell’altro. Soltanto il desiderio dell’ altro può ingenerare il desiderio» (ivi, p. 193).
Più vicino a noi un David Riesman e un Vance Packard dimostrano che l’immensa classe media americana, altrettanto libera da bisogni, e ancor più uniforme degli ambienti descritti da Marcel Proust, risulta divisa anch’essa in compartimenti astratti. Moltiplica i tabù e le scomuniche tra unità perfettamente simili e opposte le une alle altre. Distinzioni insignificanti appaiono mostruose e producono effetti incalcolabili. L’altro domina sempre più l’esistenza dell’individuo, ma questo altro non è più, come nell’alienazione marxista, un oppressore di classe, è invece il vicino di casa, il compagno di scuola, il rivale professionale. L’altro diviene sempre più affascinante man mano che si avvicina all’io (ibidem).
In effetti, sia in Veblen che in Riesman emergono spunti singolarmente assonanti con la «sociologia romanzesca» di cui parla Girard. Quanto al primo, egli in La teoria della classe agiata critica, agli inizi del Novecento, un sistema economico esito della rivoluzione industriale, in cui ha finito per prevalere l’attività finanziaria basata sul guadagno derivante dalla proprietà, dallo scambio commerciale e dallo sfruttamento del lavoro altrui, a scapito di un vero incremento della produttività e della tecnologia. In esso viene privilegiato il profitto e il consumo dei beni: un «consumo vistoso» anche da parte di coloro che non detengono grandi ricchezze. Un tipo di economia, questo, in cui prevalgono i capitalisti dinastici e l’istinto di rapina dei predoni della finanza, che è destinato ad essere superato da un sistema economico le cui forze vive saranno invece gli ingegneri, i tecnici, in sinergia con un lavoro manuale fecondo in termini di vera produttività e sviluppo tecnologico Elementi questi atti, per Veblen, ad inibire l’irrazionalità del suddetto «consumo vistoso» intimamente connesso allo status parassitario della «classe agiata» che lo asseconda. E quanto alla proprietà privata, per Veblen essa non deriva tanto dalla necessità di assicurarsi i mezzi di sussistenza, quanto da un istinto di emulazione, da un continuo confronto con gli altri in cui si anela a mostrarsi superiori ad essi. Il conspicous consumption, in questa sua essenziale dimensione mimetica, ne è l’esito ulteriore e sempre più alienante.
I mezzi di comunicazione e la mobilità della gente espongono oggi l’individuo all’esame di molte persone che non dispongono di altro mezzo per giudicare della sua rispettabilità che lo sfoggio dei beni […] il nostro apprezzamento dell’articolo più costoso è un apprezzamento del suo superiore carattere onorifico (Veblen 1969, p. 35, p. 86).
Ciò vale ad inquinare la stessa sensibilità estetica, sempre più succube del desiderio di farci valere nell’opinione degli altri: «l’utilità degli articoli valutati per la bellezza dipende strettamente dalla loro costosità» (ivi, p. 120).
Quanto a Riesman, in lui è il tema dell’«eterodirezione» che risulta assonante con quello di un desiderio costitutivamente mediato da modelli. Egli distingue tre fasi nello sviluppo storico dell’uomo. Nelle società arcaiche il passato, il potere della tradizione domina incontrastato sugli individui. Prevale poi una personalità «autodiretta» quando il conformismo si rivela impotente ad affrontare situazioni sempre nuove, ad adattarsi a contesti mutevoli che stimolano libere possibilità di scelta. Interviene infine un tipo di individuo, quello odierno, «eterodiretto», nel senso che per lui gli scopi da raggiungere, l’universo di valori da perseguire gli vengono indicati dagli altri. Oggi
ciò che è comune a tutte le persone […] è che i contemporanei sono la fonte di direzione per l’individuo, quelli che conosce e quelli con cui ha relazioni indirette […] attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Questa fonte è naturalmente “interiorizzata” […] i fini verso i quali tende la persona eterodiretta si spostano con lo spostarsi della guida: è solo il processo di tendere ad una meta e il processo di fare stretta attenzione ai segnali degli altri che rimangono inalterati (Riesman et alii 1967, p. 29).
«La violenza si nutre non della forza, ma della debolezza delle appartenenze»
Gli storici, rileva Girard, non hanno mai perdonato a Duc de Saint-Simon «di aver interpretato alcune guerre di Luigi XIV in termini di rivalità tra cortigiani»; essi «vogliono che si prenda sul serio la storia» (Girard 1981, p. 194). Un rilievo analogo potrebbe essere mosso a dalla «sociologia dei sociologi» alla «sociologia romanzesca» girardiana. Spiegare le conflittualità nei macrocosmi storico-sociali in base a quella tra microcosmi come i salons proustiani, non presta il fianco all’accusa di volere «spiegare i grandi avvenimenti con “piccole cause”» (ibidem)? In effetti Girard, seguendo Proust, evidenzia profonde analogie tra l’imminente prima guerra mondiale e la guerra tra salotti: «le stesse indignazioni, gli stessi gesti teatrali. Tutti i discorsi si somigliano», «basta invertire i nomi propri. Tedeschi e Francesi si copiano servilmente» (ivi, p. 195). Dunque
dopo aver descritto le rivalità mondane in termini di operazioni militari, Proust ci descrive le operazioni militari in termini di rivalità mondane. Ciò che prima era l’immagine è diventato oggetto, e l’oggetto è diventato immagine (ivi, p. 194).
E venendo a tempi più recenti, quelli della “guerra fredda”, successivi al secondo conflitto mondiale, anche qui Girard, sulle tracce di Proust, intravede entro tale scenario macrocosmico un fondo mimetico/indifferenziante più rilevante delle differenze invocate quali cause della conflittualità:
ovunque i blocchi simmetrici si affrontano. Gog ne Magog si imitano e si odiano appassionatamente. L’ideologia è solo un pretesto per opposizioni feroci e nascostamente concordi nell’indifferenziazione che producono. L’internazionale del nazionalismo e il nazionalismo dell’internazionale si ricollegano e si intersecano in una confusione inestricabile (ivi, p. 195).
Se nel 1961 Girard scriveva che «non vi sono “cause”, né piccole né grandi», vi è solo «il nulla infinitamente attivo» del desiderio mimetico (ivi, p. 193), e se anche in seguito egli parla di «interferenze mimetiche» che già si «innestano» sugli «appetiti», «bisogni» primari dell’uomo (Girard 1982, p. 193), inscindibili quindi dalla materialità di quei fattori (economici, politici, demografici…) privilegiati dagli storici e dalla «sociolologia dei sociologi», successivamente egli preciserà, circa la teoria mimetica come «schema transculturale facilmente delineabile», che «l’esistenza di uno schema è una cosa, il fatto che questo o quell’avvenimento determinato vi si inserisca è un’altra cosa». Come ad esempio la Rivoluzione Francese, che storicamente non è certo riducibile a dinamiche mimetiche. Nondimeno anche per lo storico non dovrebbe essere irrilevante la componente vittimaria che agisce sinergicamente nella esecuzione di Maria Antonietta: per la presenza in lei di quei «segni vittimari» che abitualmente polarizzano la «violenza collettiva» (è regina, è straniera, ed è accusata nel processo di condanna anche di incesto col figlio, il che richiama singolarmenre il caso di Edipo, nella lettura vittimaria che Girard dà del mito [Girard 1987, pp. 40-41]).
Progressivamente negli ultimi secoli, e in misura ancor maggiore e sempre più accellerata negli ultimi decenni, le suddette «interferenze mimetiche» nei processi storici si sono vertiginosamente incrementate, e sempre più li erodono nelle loro dimensioni di concretezza materiale, producendo scenari che sembrano unicamente dominati proprio da quel «nulla infinitamente attivo» del desiderio mimetico di cui Girard parlava all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso. Ciò spiega la sua attenzione sempre più marcata per il tema evangelico dell’apocalisse, come violenza incontrollabile, ormai incapace di frenare se stessa tramite la produzione di ordini, di paces sia pur sempre precarie (dalla «pax romana» alla «pax sovietica», «pax americana»… [Girard 2008, p. 287]) . Il katechon di cui parla Paolo nella seconda Epistola ai Tessalonicesi che frena l’avvento dell’apokalypsis e della successiva parousia viene interpretato da Girard, nel mondo attuale, come un politico e un economico (Girard 2004, p. 141) dei quali si assottiglia sempre più una effettiva consistenza ed incidenza storica, e la cui razionalità, anche se da sempre radicata nella violenza, viene sempre più erosa, nella sua capacità di arginarla, dalla violenza stessa. In tal modo la materialità concreta delle res gestae indagata da una tradizionale scientificità storica e sociologica sembra progressivamente restringersi ad un sempre più esile residuo katechontico, ed acquista sempre più rilevanza ermeneutica la «teoria mimetica» girardiana quale teoria razionale della irrazionalità conflittuale. Peraltro, come «da molto tempo» la violenza «non produce» più «senso» (Girard 2008, p. 147), anche la ratio occidentale ha progressivamente perso quella forza demistificarice che, in modo sotterraneo e inconsapevole, le derivava dal potere decostruttivo del mitologico e del vittimario insito nella Croce di Cristo. Fino al punto che il moderno «razionalismo» è piuttosto equiparabile alla «nostra ultima mitologia». Ma essa, a differenza dei miti e dei riti arcaici nella loro funzione stabilizzatrice del sociale, assomiglia invece ad «una diga di cui osserviamo il cedimento imminente» sotto l’urto della violenza (ivi, p. 184).
Un indice eloquente di questo contemporaneo clima apocalittico sta anche nel fatto che le odierne, autoproclamate identità individuali e collettive (come una pretesa identità “cristiana” e “occidentale” che si vorrebbe salvaguardare innalzando muri, come l’Allah akbar del terrorismo islamico, come i fondamentalismi, i sovranismi, i regionalismi secessionisti) sempre più celatamente traggono consistenza unicamente da un reciproco “contro” mimetico, nichilistico e indifferenziante, entro un conflitto il cui kydos sembra scaturire solo da una reciproca ossessione di supremazia espulsiva. Girard già nel 1961 parlava della società moderna come tipicamente «scismatica» («la società civile, dopo quella religiosa, è divenuta scismatica» [Girard 1981, p.115, p.121]). Oggi si potrebbe anche parlare di identità la cui sostanza ultima non è altro che una ossessione catartica, nel senso che ormai esse traggono consistenza identitaria unicamente da un katharma da espellere, da un contagioso “male radicale” da estirpare: anche se, proprio per questo, al contempo svanisce sempre più ciò che si pretende essere l’oggetto del terrifico contagio. La sempre più vuota plénitude d’être che ci si contende mimeticamente è dunque anche un’ossessione di pureté: nella quale B.-H. Lévy (in La pureté dangereuse) ha giustamente individuato la radice delle più immani catastrofi (dall’antisemitismo alle varie “pulizie etniche”) già nella storia del ventesimo secolo. Una dinamica, questa, che se per un verso richiama l'espulsività, parimenti catartica, dei meccanismi vittimari, per un altro verso, dato che essa eccita immediatamente contro-vittimizzazioni simmetriche, equivale ad una unanimità violenta impotente a generare qualsiasi ordine, come avveniva invece nell’arcaico, sprofondando sempre più vertiginosamente nella reciprocità violenta.
Le suddette, sempre più vuote, identità odierne proclamano e rivendicano a gran voce la propria appartenenza. Eppure (come disse Girard in un Convegno sul suddetto tema, organizzato nel 1996 in Sicilia da Maria Stella Barberi) la contemporanea conflittualità globalizzata deve interpretarsi non come un «rafforzamento» dell’«appartenenza» a specifiche radici etniche, nazionali, religiose, ideologiche, bensì come un suo «indebolimento», un progressivo sradicamento estremo: «il conflitto delle appartenenze può aggravarsi» proprio «a causa del loro indebolimento»; «l’indebolimento delle appartenenze del nostro mondo» si traduce in un «rafforzamento delle rivalità», perché «la violenza si nutre non della forza, ma della debolezza delle appartenenze» (Girard 1996, p. 21). L’esito di ciò è
una mobilitazione generale e permanente dell’essere al servizio del nulla (Girard 1981, p. 121).
Riferimenti bibliografici
R. Girard (2008), Portando Clausewitz all’estremo (2007), tr.it., Adelphi, Milano.
- 2004), La pietra dello scandalo (2001), tr.it., Adelphi, Milano.
- (1998), La vittima e la folla, Santi Quaranta, Treviso.
- (1996), In principio era il capro, in «Il Sole 24 ore», 5 maggio 1996.
- (1987), Il capro espiatorio (1982), tr.it., Adelphi, Milano.
- (1982), Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo (1978), tr.it., Adelphi, Milano.
- (1976), Critiques dans un souterrain, Grasset, Paris.
- (1981), Menzogna romantica e verità romanzesca (1961), tr.it., Bompiani, Milano.
- (1980), La violenza e il sacro (1972), tr.it., Adelphi, Milano.
- (1970), Une analyse d’Oedipe roi, in «Critique sociologique et critique psychanalitique», Institut de Sociologie, Université Libre de Bruxelles.
- (1963), Dostoevskij, dal doppio all’unità (1963), tr.it., SE, Milano.
E. Durkheim (1987), Il suicidio, tr.it., Rizzoli, Milano.
B. H. Lévi (1994), La pureté dangereuse, Grasset, Paris.
P. Livingston (1992), Models of desire. R.Girard and the psychology of mimesis, The John Hopkins University Press, Baltimore.
F. Nietzsche (1997), Genealogia della morale (1887), tr.it a cura di S.Giametta, Rizzoli, Milano.
D. Riesman et alii (1967), La folla solitaria (1950), tr.it., Il Mulino, Bologna.
G. Tarde (2012), Le leggi dell’imitazione (1890), tr.it., Rosenberg Sellier, Torino.
V. Turner (2001), Il processo rituale (1969), tr.it., Morcelliana, Brescia.
T. Veblen (1969), La teoria della classe agiata (1900), Il Saggiatore, Milano.
(Avvertenza: in certi casi, pur facendo riferimento nelle citazioni di Girard alla pagina della tr.it., si è modificata tale traduzione alla luce del testo francese).
E-mail: