1. La ricerca sociale tra “individualisti” e “collettivisti”
Lo scienziato sociale – sociologo, economista o storico, per esempio – è continuamente alle prese con quelli che vengono menzionati come concetti collettivi (Kollektivbegriffe), quali «società», «partito», «classe», «Stato», «rivoluzione», «popolo», «nazione» e così via. Due sono le principali correnti di pensiero rivali sulla interpretazione di tali concetti: l’individualismo metodologico e il collettivismo metodologico. E tre sono i problemi su cui verte la disputa: un problema ontologico, un problema metodologico e un problema politico.
1. Il problema ontologico: che cosa corrisponde nella effettiva realtà a questi concetti collettivi? Gli individualisti (tra cui B. Mandeville, D. Hume, A. Ferguson, A. Smith, H. Spencer, C. Menger, L. von Mises, F. A. von Hayek, H. Weber, G. Simmel, G. Salvemini, R. Boudon), rispondono che a questi concetti collettivi corrispondono solo gli individui: esistono solo individui, e solo gli individui ragionano ed agiscono. I collettivisti (Saint-Simon, Comte, Hegel, Marx, neomarxisti, strutturalisti, ecc.) pensano invece che i concetti collettivi designino corpose realtà sostanziali – entità indipendenti e autonome dagli individui e che, come la «chiesa», l’«esercito» o la «patria», istituiscono, plasmano, normano gli individui.
2. Il problema metodologico: da dove iniziano gli studi sociali – indagini tese alla spiegazione di eventi e istituzioni sociali? Dato che per loro esistono solo individui, gli individualisti sostengono che le ricerche circa genesi e mutamenti di eventi e istituti sociali dovranno necessariamente prendere il via dalle azioni di individui (per esplorarne, in particolar modo, le conseguenze inintenzionali). D’altro lato, i collettivisti – sulla base della credenza nella realtà dei collectiva – cercheranno di individuare le leggi (di decadenza, di progresso, leggi dialettiche e così via) che presiederebbero alla genesi e allo sviluppo di siffatte entità collettive.
3. Il problema politico: il fine è costituito da un’entità collettiva come il partito, la nazione o lo Stato, oppure il fine è l’individuo con la sua più ampia libertà e responsabilità? Se l’effettiva realtà è costituita da entità collettive, come lo Stato, è allora chiaro che gli individui sono a servizio di queste entità, strumenti di fini collettivi – questo affermano i collettivisti. Di contro, gli individualisti sostengono che il fine è l’individuo e non lo Stato o la classe o il partito; e aggiungono che l’eliminazione di una concezione individualistica della società rende non più giustificabile la democrazia.
2. L’individualismo metodologico non è né “soggettivistico” né “antiscientifico”
«Se sono alla fine diventato sociologo […] è soprattutto per mettere un punto conclusivo a questi esercizi basati sui concetti collettivi, il cui spettro è sempre in agguato. In altri termini, la sociologia stessa non può procedere che dalle azioni di un singolo individuo, di alcuni individui, o di numerosi individui. È questo il motivo per cui essa deve adottare dei metodi strettamente “individualistici”» (Weber 1921, pp. 59-70). Così Max Weber. Ma proprio questa lezione è stata in gran parte rifiutata dallo status quo della scienza sociale italiana - uno status quo che, sebbene alimentato da sorgenti differenti, si è caratterizzato per una sostanziale difesa del collettivismo metodologico. E ciò nonostante il fatto che l’individualismo metodologico, puntando sull’azione degli individui e sulla inevitabile (per ragioni logiche) insorgenza delle conseguenze inintenzionali delle azioni umane intenzionali, sia in grado – di contro alla mitologia collettivistica – di offrire: (1) una base empirica per il controllo delle congetture relative alla genesi e al mutamento dei fatti e delle istituzioni sociali; (2) di individuare quale compito principale o (come vuole Hayek) esclusivo delle scienze sociali l’analisi degli esiti inattesi delle azioni umane intenzionali; (3) di distruggere la presunzione “razionalistica” del costruttivismo (cioè dell’idea che tutti gli eventi sociali e tutte le istituzioni siano esiti di piani intenzionali); (4) e, conseguentemente, di rendere palese l’inconsistenza della teoria cospiratoria della società (stando alla quale ogni situazione sociale indesiderata sarebbe frutto di malvagi cospiratori); (5) di fondare l’autonomia delle scienze sociali liberandola dallo psicologismo (vale a dire dalla infondata convinzione di poter spiegare tutti gli eventi sociali con ragioni psicologiche).
Ma è esattamente contro lo psicologismo che i difensori dell’individualismo metodologico sostengono che la ricerca sociale comincia laddove la psicologia finisce (von Mises 1988 p. 32; von Hayek 2008, p. 67 e segg.). L’azione umana ha motivazioni e conseguenze. Sulle motivazioni indaga la psicologia; le conseguenze non anticipate costituiscono, invece, come già accennato, l’oggetto principale o esclusivo della ricerca sociale. L’individualismo metodologico non scivola nella trappola dello psicologismo. Ma così non la pensava il compianto Gianni Statera, per il quale con l’individualismo metodologico «si finisce nel versante del riduzionismo psicologico, dell’empatia, della centralità di un ontologico soggettivo» (Statera 1994, p. 55). Le conseguenze dell’individualismo metodologico sono «soggettivistiche» e, in fondo, «anti-scientifiche» (Statera 1994, p. 55). E poi: «tutti, […] da Popper a von Hayek, da Schütz a von Mises, enunciano il tema dell’individualismo metodologico – un tema che Popper trasforma in “postulato della sociologia” – in nome di esigenze di carattere ideologico e filosofico-politico» (Statera 1994, p.53). Boudon sarebbe un «ottimo esempio […] di schizofrenica enfasi sui postulati teorici dell’individualismo e di differente concreta prassi di ricerca» (Statera 1994, p. 55)
3. Ma è proprio vero che l’individualismo metodologico è una concezione del tutto estranea al pensiero di Max Weber?
Nel suo libro su Max Weber, Karl Jaspers fa presente, a proposito della metodologia di Weber: «La realtà empirica deve essere chiaramente identificabile: nelle azioni umane essa è soltanto il significato inteso da uomini (a differenza di un preteso obiettivo significato della storia, ignoto a chi agisce); è poi il significato inteso da individui e numerosi individui (mentre totalità di gruppi umani che agiscono inconsciamente non si possono stabilire empiricamente come tali); empiricamente reale è soltanto l’azione dei singoli. La sociologia empirica non ha il compito di produrre idee di totalità; essa le studia in quanto idee attive negli uomini secondo la loro importanza funzionale; le trova bell’e fatte; non le considera esclusive, né nega la loro realtà se è motivata diversamente e allora non è universalmente valida, né pretende che non si debbano usare nell’azione. Il metodo individualistico non è una valutazione individualistica come il suo razionalistico carattere di formare concetti non è la fede nella prevalenza di motivi razionali nelle azioni umane. L’indagine empirica dissolve inevitabilmente la concezione sostanziale dello Stato, della Chiesa, del matrimonio, ecc., senza intaccarli come forme di fede, anzi studiandoli come tali nella loro obiettività in quanto intesa da uomini e motivo per loro efficiente. Per la sociologia stessa dunque la sostanza creduta si trasforma in oggetto di conoscenza razionale, in quanto significato inteso e voluto da uomini reali; lo Stato, per esempio, è soltanto una probabilità che azioni, reciprocamente coordinate secondo il suo significato e in maniera definibile, hanno avuto o hanno o avranno luogo […]. Nessun altro significato evidente può accompagnare l’affermazione che uno Stato esiste ancora» (Jaspers 1998, p. 76).
Così Jaspers. Ma Franco Ferrarotti, nella sua Introduzione all’edizione italiana del libro di Jaspers afferma: «Per Weber è fuori discussione la "centralità dell’individuo", ma con altrettanta chiarezza è da escludere qualsiasi concessione allo "individualismo metodologico" oggi tanto di moda» (Ferrarotti 1998, p. 20). Eppure Weber, come già accennato, era stato ben chiaro, in quanto, a suo avviso: «la sociologia non può procedere che dalle azioni di un singolo individuo, di alcuni individui, o di numerosi singoli individui» (Weber 1985, pp. 169-170). Tralascio qui il richiamo ad altri testi di Weber, come la parte introduttiva di Economia e società o specifici altri saggi metodologici. Ma il fatto è che Ferrarotti non si limita a dare una interpretazione non-individualistica di Weber; egli prende di mira l’individualismo tout-court quando, ne L’ultima lezione, scrive che «l’individualismo metodologico si pone come la copertura teoretica degli attuali interessi pratici delle società multinazionali su scala planetaria» (Ferrarotti 1999, p. 40).
4. Le strutture sociali: realtà «sui generis» o «flatus vocis»?
Fu Paolo Ammassari a considerare «pienamente condivisibile» «la critica di Ardigò all’individualismo metodologico e la sua posizione nei confronti dei due termini della tradizionale antinomia sociologica» (Ammassari 1990, p. 59), - antinomia costituita, appunto dai due termini: soggetto e struttura. Questa la posizione di Ardigò: «anzitutto sono dell’avviso […] che si debba rispondere positivamente all’interrogativo se le società, i sistemi e le strutture sociali, le istituzioni siano da considerare una realtà sui generis interamente non riconducibili a stati mentali strettamente personali, né, tanto meno, consistenti in meri nomi o stenogrammi, pronunciati da individui. In ciò mi discosto dall’individualismo metodologico di Max Weber come di Schütz» (Ardigò 1988, p. 68).
Realtà sui generis – entità davvero misteriose, se non interpretate individualisticamente. Eppure, queste realtà-misteriose viaggiano indisturbate anche nell’impegnativo lavoro di Vincenzo Cesareo: Sociologia. Teorie e problemi. Di continuo torna Cesareo sul concetto di struttura. Ma viene subito da chiedergli: queste strutture non sono e non si riducono ad individui, a persone, che hanno certe idee e che agiscono secondo queste idee? Certo, meraviglia poi l’affermazione di Cesareo secondo cui «l’individualismo metodologico rifiuta pervicacemente di riconoscere l’incidenza dei processi di socializzazione ai fini della costruzione della personalità» (Cesareo 1993, p. 47).
L’affermazione sorprende a motivo del fatto che per nessun individualista l’individuo è un atomo isolato: sin dalla nascita l’individuo entra in contatto con altri individui e non con fantomatiche strutture indipendenti e autonome dagli individui. E c’è dell’altro, perché Cesareo è dell’avviso che l’adozione dell’approccio individualistico «dà luogo ad una oggettiva difficoltà nel passare dall’individuale al sociale, in quanto non è possibile stabilire nessuna continuità tra l’uno e l’altro livello di analisi» (Cesareo 1993, p. 46). Le cose, però, non stanno affatto così. La metodologia individualistica - e su questo punto l’insistenza di Mises è fondamentale - si rivela, esattamente come la via più adatta per restituire sangue empirico ad una scienza, come la sociologia, che non di rado si è perduta, e non solo ai suoi inizi, nella mitologia collettivistica. Viene da chiedere a Cesareo: quando Menger, tanto per esemplificare, spiega, via individualismo metodologico, le origini della moneta o dello Stato, trova forse difficoltà nel passare dall’individuale al sociale?
Con tutto ciò, non intendo affatto mancare di rispetto a nessuno né tanto meno sminuire i meriti di pensatori il cui contributo allo svecchiamento della cultura italiana è innegabile. Dico solo che sono state sostenute e vengono purtroppo ancora sostenute proposte teoreticamente inconsistenti e pericolose da un punto di vista politico. E non mi va di parlare di coloro la cui scarsa familiarità con i testi li porta a scambiare, nella «decisa» critica all’individualismo, Ludwig von Mises con suo fratello Richard.
5. Un’occasione mancata; e un compito da svolgere
L’individualismo metodologico è un tratto fondamentale di tutti gli esponenti della Scuola austriaca (Menger, Wieser, Böhm-Bawerk, Mises, Hayek). Scuola che ha generato una tradizione e che, a sua volta, si inserisce in una più lunga e venerabile tradizione, come ognuno potrà rendersi conto leggendo, per esempio, Die Entstehung der indivualistischen Sozialphilosophie di Karl Pribram. E un’analisi delle due posizioni - quella collettivistica e quella individualistica - porta subito a dar ragione ad Erich Fromm, quando in Fuga dalla libertà scrive che l’odio contro l’individualismo risiede nel fatto che l’impotente masochista «cerca freneticamente protezione e riparo presso altri, offrendo questo fardello di cui non vuole assumersi la responsabilità: se stesso» (Fromm 1963). Ciò da un punto di vista etico. Dalla prospettiva politica (e storica) è sicuramente nel giusto Norberto Bobbio allorché afferma che «occorre diffidare di chi sostiene una concezione antiindividualistica della società» (Bobbio 1990, p. 117), giacché «attraverso l’antiindividualismo sono passate più o meno tutte le dottrine reazionarie» (Bobbio 1990, p. 117). E ancora Bobbio: «Eliminate una concezione individualistica dalla società. Non riuscirete più a giustificare la democrazia come forma di governo» (Bobbio 1990, p. 117). E sempre Bobbio: «"Popolo" è un concetto ambiguo, di cui si sono servite tutte le dittature moderne» (Bobbio 1990, p. 117).
Ma c’è dell’altro, perché al di là o, meglio, dietro al problema etico e quello politico, è dalla prospettiva scientifica che l’individualismo mostra la sua validità nei confronti dell’organicismo collettivistico. La reificazione dei concetti collettivi ha non di rado travolto le scienze sociali, e non solo agli inizi, in una mitologia antropomorfica. Una metodologia individualistica restituisce, invece, sangue empirico alla ricerca sociale, strappa via lo scienziato sociale dal pantano di fantasie ove sguazzano i collettivisti e lo riporta alla realtà empirica, osservabile, delle azioni degli individui e degli effetti aggregati voluti e non voluti, prevedibili e non prevedibili, graditi e non graditi delle inter-azioni umane. La “mano invisibile” c’è, ma non è la Divina Provvidenza. È il buon senso a dire che “di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’Inferno” e che “non ogni male vien per nuocere”. Ma ciò che sa il buon senso, pare lo abbiano ignorato, da noi, i più noti sociologi.
L’individualismo metodologico sostiene che le azioni umane intenzionali producono –per ragioni logiche – effetti inintenzionali e, come il buon medico sempre attento agli effetti collaterali anche della più efficace e risolutiva terapia, pure l’individualista metodologico mette in guardia sui possibili esiti inattesi anche dei migliori progetti – migliori nella consapevole scelta dei mezzi a disposizione per il conseguimento delle finalità abbracciate.
Se i sociologi italiani avessero posto l’attenzione sulle prevedibili conseguenze inintenzionali di tanti progetti politici, di misure legali ed economiche, e avessero messo all’erta se stessi, i politici e i giornalisti sulla inevitabile insorgenza di conseguenze inintenzionali imprevedibili all’epoca di tali e tanti (e non di rado dannosi) progetti, avrebbero lavorato da autentici scienziati sociali e alla scoperta di “spezzoni di verità” utili alla soluzione di problemi che, costruttivisticamente impostati e difesi, hanno invece procurato molti danni evitabili. Se tanti scienziati sociali italiani avessero fatto questo, non avrebbero portato lo strascico del re o del rivoluzionario che sognava di essere il prossimo re – avrebbero con la loro lanterna illuminato la strada dei politici, li avrebbero aiutati così ad essere principi illuminati e non principi adulati. Così, purtroppo, non è stato. E questo è solo un caso in cui la tirannia dello status quo ha ostacolato l’ingresso nella discussione della comunità scientifica di idee che altrove avevano già dato e stavano dando contributi di prim’ordine alla comprensione dei fatti sociali. E un altro caso in cui la tirannia dello status quo ha offerto, qui da noi, i suoi frutti peggiori è quello concernente prima il silenzio e poi il rifiuto – spesso pregiudiziale e acritico – relativi alle idee fondamentali di Karl Popper, in particolar modo della sua concezione della società aperta (si veda, al riguardo, Lai 2001).
Riferimenti bibliografici
Ammassari P. (1990), La proposta di Achille Ardigò per una sociologia oltre il post-moderno in «Sociologia», XXIV, n. 2-3.
Ardigò A. (1988), Per una sociologia oltre il post-moderno, Laterza, Bari-Roma.
Bobbio N. (1988), La rivoluzione francese e i diritti dell’uomo (saggio pubblicato come opuscolo della Camera dei Deputati, Roma 1988; e poi rist. con il titolo La dichiarazione dei diritti dell’uomo, in «Nuova Antologia», n. 2169, gennaio-marzo 1988, pp. 230-309); ora rist. in N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, p. 117.
Cesareo V. (1993), Sociologia, Teorie e problemi,Vita e pensiero, Milano.
Ferrarotti F. (1999), L’ultima lezione, Laterza, Roma-Bari.
Fromm E. (1963), Fuga dalla libertà, trad. it. Comunità, Milano.
Jaspers K. (1998), Max Weber. Il politico, lo scienziato, il filosofo con Introduzione di F. Ferrarotti, Editori Riuniti, Roma.
Lai B. (2001), Popper in Italia. Le disavventure di una filosofia politica, Rubbettino, Soveria Mannelli.
Pribram K. (1912), Die Entstehung der individualistischen Sozialphilosophie, Verlag von C. L. Hirschfeld, Leipzig.
Statera G. (1994), Individualismo metodologico, ermeneutica, ricerca sociale. Della (scarsa) rilevanza del postulato individualistico per l’indagine in «Sociologia e ricerca sociale», 43, Franco Angeli.
Von Hayek F. A. (2008), L’abuso della ragione trad. it. Rubbettino, Soveria Mannelli.
Von Mises L. (1988), II compito e il campo della scienza dell'azione umana in Problemi epistemologici dell’economia, trad. it. Armando, Roma.
Weber M. (1921) Lettera a Liefmann, cit., in Boudon R. (1985), Il posto del disordine, trad. it. Il Mulino, Bologna.
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