Una rivoluzione sofferta
È opinione condivisa che una delle rivoluzioni più significative della storia – senza spargimento di sangue, ma ugualmente costata cara – sia quella delle donne, che hanno cambiato il volto della famiglia e della società in modo carsico ma decisivo, parallelamente a mutamenti oggettivi quali: lavoro extradomestico, crescente scolarizzazione, prolungamento della scuola dell'obbligo, libertà di scelta nel matrimonio, diminuzione della mortalità infantile, riduzione della fecondità, prolungamento della vita media, diritto di voto, sviluppo dell'associazionismo.
I movimenti delle donne, considerati ora "segno dei tempi" ora "decadenza dei costumi", hanno rappresentato il rifiuto dell'antifemminismo, come reazione pendolare al rapporto diseguale tra i generi, rendendo visibile quella denuncia che covava sotto il peso dello sfruttamento (funzione critica e di denuncia), e nella speranza di una riconciliazione tra i sessi (funzione utopica)[1].
Il vocabolo femminismo, nelle sue diverse accezioni, ha conservato a lungo una inflessione negativa. Si qualificano femministi sia i movimenti pratici che quelli più specificamente teorici, sia l'opera di personalità individuali che quella di movimenti collettivi. L'ismo trasgressivo ha costituito ragione di precomprensione, specie a causa di frange cariche di violenza verbale, gestuale e comportamentale. L'ingresso delle donne come "soggetto" politico faceva temere l'occupazione della zona pubblica tipicamente maschile e soprattutto l'abbandono della funzione familiare e materna.
Accezioni plurali
Non è facile caratterizzare con precisione le diverse fasi che il femminismo ha attraversato, sia perché esse variano da nazione a nazione, sia per la pluralità di posizioni in ciascuna fase, sia infine per gli alterni sviluppi e arresti che il movimento ha subito (per esempio con l'affermarsi dei regimi totalitari in Europa). Per orientarsi in questa pluralità di accezioni, si suole parlare di un femminismo socialista, borghese, cristiano, marxista, liberale, che puntano di volta in volta sulla lotta all'oppressione, sull'uguaglianza, sulla differenza, sulla superiorità etica e biologica delle donne (in risposta pendolare alla sottovalutazione), sulla reciprocità. L'ispirazione marxista tende ad accentuare la rappresentazione conflittuale dei due generi, del tipo proletari e borghesi, unendo trasversalmente le donne in una sororità ideale e politica. Quando il femminismo si associa ad una radicale "liberazione sessuale", finisce con lo stabilire una sorta di identificazione con amore libero, contraccezione, aborto, lesbismo.
Nella tradizione ebraico-cristiana l'uguaglianza dell'uomo e della donna di fronte a Dio è costantemente affermata, entro un orizzonte bilico, che colloca il cammino della storia tra la creazione iniziale e la liberazione finale nel Regno. Di fatto però si tollera una differenza "complementare", che impone alla donna l'obbedienza alla sua vocazione materna e di "aiuto" all'uomo. Di conseguenza, il mondo cristiano-cattolico ha costantemente lavorato nei rapporti interpersonali e nel sociale per assistere la sposa e la madre, con una accezione pedagogico-morale ("promozione" della donna) più che politico-culturale.
La cittadinanza
Se si considerasse la partecipazione politica soltanto come occupazione delle sedi istituzionali, sarebbe lecito concludere che le donne – salvo eccezioni – sono state assenti dalla storia. Sarebbe tuttavia ingenuo sottovalutare il loro peso politico, giacché esse hanno detenuto un potere specifico, nascosto ma spesso decisivo in sedi diverse da quelle istituzionali, ossia all'interno della famiglia e dei mondi vitali. Non sarebbe veritiera una ricostruzione della storia che dimenticasse di "Cherchez la femme" ossia di collegare gli eventi pubblici al ruolo influente di mogli, figlie, amanti, anche se non registrate dai trattati e dalla storiografia ufficiale[2].
Tuttavia i pensatori più accreditati, da Platone e Tommaso, non hanno riconosciuto il "diritto di cittadinanza" alle donne. Tutti i pensatori dell'antichità hanno escluso dalla cittadinanza i minorenni, i servi, gli stranieri e le donne. Sulla base del pensiero classico greco-romano, Marsilio da Padova (Padova, 1275 - Monaco di Baviera, 1342) considerava cittadino solo «colui che nella comunità civile partecipa secondo il proprio rango al governo o funzione deliberativa o giudiziaria»[3]. Ancora per Kant sono cittadini passivi il garzone, il servo, il pupillo, «tutte le donne e in generale tutti coloro che nella conservazione della loro esistenza […] non dipendono dal proprio impulso ma dai comandi degli altri».
Il femminismo ante litteram
Eppure c'è un femminismo ante litteram, già evidente nelle culture antiche e nei miti, che fa riferimento a quanti hanno messo il dito sulla piaga dell'oppressione femminile, molto prima che si delineassero i movimenti femministi. Per il tardo-Medioevo si suole annoverare tra le protofemministe Christine de Pisan (1364-1430), che poneva l'accento sulla inadeguata formazione culturale della donna come ragione del pesante condizionamento sociale. Per il tardo periodo rinascimentale si ricorda Lucrezia Marinelli a Venezia (1600: La nobiltà e l'eccellenza delle donne co' difetti et mancamenti de gli uomini), che contestava la filosofia aristotelica (la donna come uomo imperfetto), a favore di una teoria della polarità e a difesa della superiorità femminile (usando Aristotele contro se stesso).
Nel nuovo mondo, alla nascita della Costituzione degli USA (1776), Abigail Adams, moglie del futuro presidente (dopo Washington), scriveva al marito la lettera Remember the Ladies, chiarendo: «Non ci considereremo legate da leggi nelle quali non abbiamo alcuna voce né rappresentanza».
Tuttavia il movimento emancipatorio propriamente politico si collega solitamente alla Rivoluzione francese (Olimpia de Gouges finì sulla ghigliottina per aver rivendicato i diritti delle donne) e ai suoi sviluppi dopo il 1830, con le suffragette, lungo tutto il corso dei secoli XIX e XX, fino alla rivoluzione russa.
Concretamente la partecipazione delle donne all'agone politico può realizzarsi solo dopo che il lavoro sarà riconosciuto e retribuito. In Inghilterra l'economia classica e i filosofi dell'utilitarismo, specie J. Stuart Mill nell'opera La soggezione delle donne (1869), dovevano evidenziare il danno economico che l'esclusione sociale delle donne comportava e reclamare il diritto di voto e le libertà civili. La rivoluzione industriale e il marxismo facevano esplodere la questione sociale dentro il movimento operaio internazionale, con le opere di Marx (L'ideologia tedesca e il Manifesto del partito comunista), di Engels (L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato), di Bebel (Il socialismo e la donna), di Lenin (L'emancipazione della donna). Si affermava così la tesi di una emancipazione delle donne che passava necessariamente per l'inserimento nel processo produttivo, nel movimento socialista e nell'organizzazione sindacale, conquistando così la possibilità di socializzare, partecipare attivamente, mirare a rivendicazioni comuni (pensiamo all'"Unione Femminile" nata a Milano nel 1899, per iniziativa di illuminate nobildonne milanesi e frequentata dalla Kulischoff, che organizzava il primo sciopero delle "piccinine", per chiedere migliori condizioni di lavoro per le ragazzine delle sartorie). Vi si collega una letteratura, sia di ideologia liberale che marxista, fortemente critica nei confronti della famiglia borghese, considerata il fulcro dello sfruttamento della donna, e della religione.
L'apporto delle donne cattoliche
Generalmente la storiografia tende a occultare l'apporto del cristianesimo, con i suoi germi di liberazione, promossa in tutte le categorie di emarginati. Di fatto però, i principi cardine della diretta figliolanza da Dio, della libera scelta della verginità e nel matrimonio del coniuge sono da considerare decisivi per la nascita di una coscienza femminile che maturerà col tempo.
Con la modernità, a fronte dell'affermarsi delle istanze femministe, le donne cattoliche hanno preso le distanze dalle manifestazioni più plateali e conflittuali, ma in generale hanno lavorato in sordina a sostegno della dignità della donna, della sua formazione umana e cristiana ponendo le basi di una consapevole partecipazione sociale e politica. I movimenti femminili cattolici avevano un'impronta più spirituale, favorivano la partecipazione ecclesiale, ma non sarebbe corretto misconoscere il grande impegno profuso per migliorare le loro condizioni di vita delle donne meno favorite dalla sorte.
Esse non potevano riconoscersi nella sottolineatura antifamiglia del femminismo "laico". Se c'è stato un "ritardo" del mondo cattolico nel sostenere la partecipazione sociale e politica delle donne, è stata proprio la necessità di schierarsi decisamente a difesa della famiglia, d'accordo con la Tradizione e col Magistero, che significava affermare l'importanza della vita cosiddetta "privata", anche come presidio sociale antistatalista[4]. La scissione tra le donne socialiste e cattoliche era inevitabile, benché non mancassero momenti di rivendicazione comuni e trasversali, specie in campo assistenziale e di "politiche familiari", compensatorie di una società che non poteva più contare sulla assoluta dedizione delle donne al lavoro di cura.
Nonostante le difficoltà esterne e interne al mondo cattolico, i movimenti femminili cattolici hanno registrato un lento ma inesorabile sviluppo lungo il coso del Novecento, acquistando un più preciso profilo alla fine degli anni Cinquanta per poi allearsi con il cosiddetto neofemminismo, fino alle proposte più mature di un femminismo radicato nella antropologia della reciprocità. Il campo privilegiato, dal CIF alle ACLI, all'Azione Cattolica, agli istituti religiosi, è rimasto quello dell'assistenza e della solidarietà, ma le diverse associazioni si andavano man mano dotando di uno specifico settore di studio sulla cosiddetta "questione femminile", allo scopo di favorire una maggiore consapevolezza radicata nei fondamenti antropologici e teologici.
La lotta per il diritto di voto
Il femminismo americano ha posto l'accento sui rapporti con il potere, promuovendo marce e manifestazioni politiche di ogni genere al fine di rimuovere la distribuzione ingiusta di risorse e privilegi. La lunga lotta per il diritto di voto è il traguardo principale della prima fase del femminismo, che mirava ad ottenere la parità dei diritti civili per poi mettere in questione le istituzioni, da quella familiare a quelle sociali e politiche. Per poter votare si è dovuto attendere un secolo negli USA, poco meno in Inghilterra e la fine della seconda guerra mondiale in molti paesi europei. In Italia il voto alle donne data dal 1945.
Verso la fine dell'Ottocento e i primi del '900, negli USA molte organizzazioni di donne (tra cui: Women's Christian Temperance Union, Women's Trade Union League; National Consumers League), benché prevalentemente limitate a donne borghesi e intellettuali, ottennero una serie di servizi sociali che, se non cambiavano l'organizzazione della società, alleggerivano però la vita quotidiana delle donne, consentendo loro spazi partecipativi e di libertà personale, in una prospettiva di cooperazione.
In Italia Elena da Persico, con la rivista "L'azione muliebre" fondata a Milano nel 1901, voleva intenzionalmente ripensare il femminismo in un'ottica di pace. L'Unione fra le donne cattoliche italiane (1909) creava una solidarietà "delle donne e per le donne" attorno alla famiglia. La forte spinta alla partecipazione associativa era di fatto un contributo essenziale alla formazione di una coscienza civica, vista come una conseguenza del diritto all'istruzione e alla cultura, con l'accesso alle arti e alle professioni. Un appoggio significativo venne da don Luigi Sturzo, che nel 1919 già contemplava nel suo programma il diritto al voto per le donne. Ma i tempi non erano maturi e in parlamento erano forti le resistenze, motivate da una natura femminile che sarebbe stata stravolta dall'attività politica[5].
Indubbiamente in Italia le donne cattoliche pativano un ritardo maggiore, anche perché dei veri partiti politici moderni nacquero dal 1892, quando venne fondato il Partito socialista italiano, giacché precedentemente, la Destra e la Sinistra storica erano piuttosto "cartelli" di notabili, ciascuno con un proprio feudo elettorale. C'è poi da tenere conto del "non expedit" che dopo l'unità d'Italia metteva il freno alla partecipazione politica dei cattolici in generale.
Le donne più istruite però partecipavano in via informale, formandosi una opinione politica e diffondendola nei salotti, nelle parrocchie, nelle associazioni, nella Democrazia cristiana italiana di Romolo Murri e poi nel Partito popolare italiano. Mantenevano fermo il riconoscimento di appartenenza ecclesiale, nell'intento di contrastare i partiti atei centrati sulla rivendicazione dei diritti degli individui e\o dei collettivi. Prevaleva la concezione organicista, che lasciava in ombra i diritti o li collocava in un quadro di ricomposizione generale dei conflitti.
Il "partito unico" fascista mise la retromarcia: la partecipazione politica non era una priorità e le parole chiave – Dio patria famiglia – esaltavano retoricamente la procreazione connessa alla potenza della nazione e alla guerra. Il Concordato rafforzava poi il legame del partito con la Chiesa, frenando ulteriormente i cambiamenti.
L'entusiasmo fu grande quando le donne poterono finalmente votare nel 1946, avendo visto riconosciuto il diritto di voto grazie all'azione di tutti gli schieramenti e sconfitti i timori della destra cattolica tradizionalista e i calcoli opportunisti della sinistra che temeva il voto femminile a vantaggio dell'area "conservatrice-democristiana". Il voto rendeva fattibile il raggiungimento della parità dei "diritti inviolabili della persona umana" a tutti i livelli, come poi diverrà esplicito nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni unite, siglata a New York nel 1948.
Per formare una coscienza politica
Era evidente che non bastava conquistare il voto; bisognava orientarlo, in modo che fosse politicamente libero e consapevole, dato che la popolazione femminile era in media meno preparata e tendeva ad eseguire le indicazioni del marito, del parroco, del notabile del luogo.
Dopo la guerra, P. Togliatti in più occasioni si era rivolto alle donne comuniste proponendo una organizzazione femminile separata dal Partito nato a Livorno nel 1921, con compiti di supporto: il 12 settembre 1944 nacque nella Roma appena liberata l'UDI (Unione donne italiane), che, raccogliendo le esperienze elaborate dai Gruppi di Difesa della Donna (GDD) durante la Resistenza, si propose di «Unire tutte le donne italiane in una forte associazione che sappia difendere gli interessi particolari delle masse femminili e risolvere i problemi più gravi e urgenti di tutte le donne lavoratrici, delle massaie e delle madri».
Le donne democristiane, che pure avevano lottato nella Resistenza accanto alle comuniste e socialiste, non potevano unirsi al partito comunista ateo, legato all'Unione sovietica. Nacque così nel 1944, frutto di speculari valutazioni politiche elaborate dall'Unione Donne dell'Azione cattolica e dall'Istituto cattolico di Attività sociali, una nuova associazione: il CIF, Centro italiano femminile, orientato a sostenere la cultura e la partecipazione politica delle donne, a supporto del partito, «per creare una corrente di opinione o meglio un movimento apertamente e schiettamente cristiano che convogli la donna verso un femminismo in totale armonia con gli insegnamenti della Chiesa e la prepari, guidi e sostenga per la conquista e l'esercizio dei doveri che le sono propri nella nuova atmosfera nazionale»[6].
Le due grandi organizzazioni femminili hanno svolto un ruolo propulsivo della partecipazione politica, lavorando ora distintamente ora insieme (si pensi alla lotta contro la pornografia e alla legge contro la violenza sessuale), attuando una vera rivoluzione dei costumi successiva al diritto di voto: il nuovo diritto di famiglia, l'istruzione allargata, l'accesso a tutte le professioni, la tutela della maternità, il controllo della natalità…
Nasceva la consapevolezza che il linguaggio e il diritto non sono "neutri" e i "Diritti dell'uomo" non coincidono automaticamente con i "Diritti delle donne"[7]. Bisognò però aspettare la fine degli anni '70 perché l'Assemblea generale dell'ONU riconoscesse, con la "Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne" (CEDAW), i diritti specifici del genere femminile. La denuncia della organizzazione androcentrica dei sistemi lungo tutta la storia umana è comune ai diversi movimenti di donne, ma la scissione tra laiche e cattoliche si fa più forte quando i movimenti femministi radicali cavalcano le nuove conoscenze scientifiche nel campo dei processi generativi per puntare ad una liberazione radicale della donna dalla famiglia, sviluppando una critica serrata al ruolo materno e sponsale e al concetto di natura. Lo slogan "Il personale è politico" vuole che tutte le dimensioni della vita vengano viste come il riflesso di rapporti di forza nell'ambito politico. Ci si appoggia ai movimenti di base legati al radicalismo politico, alle rivendicazioni antirazziste e alla contestazione studentesca degli anni '60 in America e al libro di B. Friedan La mistica della femminilità. Si diffondono comportamenti antimaschilisti e antifamilisti, soprattutto tra donne intellettuali di sinistra.
Conciliare famiglia e partecipazione
Le donne dell'associazionismo cattolico non potevano associarsi all'impostazione conflittuale della scuola di Francoforte e tanto meno a quei rami della psicanalisi dominati da una concezione radicale della liberazione sessuale (Reich). Le contrapposizioni esplodono nelle battaglie per il divorzio, l'aborto, temi che mescolano l'esigenza di reinterpretare la sessualità come dimensione umana integrale a manifestazioni libertarie e talvolta violente del femminismo radical-borghese.
Le differenze ideologiche si accentuano e vengono cavalcate dai partiti. Tuttavia si modificano nel contempo gli stili di vita e cresce il coinvolgimento dell'opinione pubblica, anche nei suoi strati culturalmente meno preparati. Non mancano battaglie comuni, parallelamente al distacco delle donne dai partiti, come nel caso dell'UDI rispetto al Partito comunista (1982).
Negli anni Ottanta, il successo ottenuto dal libro di Betty Friedan, La seconda fase, é il segno di un ripensamento delle lacerazioni del primo femminismo e la manifestazione di una volontà di recupero della maternità e della famiglia, prima considerate impedimento ad una piena liberazione della donna. Celebre l'espressione della Friedan: «La nuova frontiera dell'uguaglianza è la maternità». Si creano le condizioni per un maggiore coinvolgimento delle donne cattoliche.
L'Azione cattolica già nel 1969 aveva dedicato un quaderno al problema (Per una riflessione sulla donna) e costituito in seguito una commissione specifica. Il movimento femminile DC (rivista: "Donne e società"), nel 1975 aveva dedicato un convegno al tema: Oltre il femminismo. Per una nuova condizione della donna. Soprattutto la rivista "Progetto donna"[8] di Brescia nei primi anni Ottanta raccoglieva attorno a sé l'intellighentia femminile cattolica e offriva una palestra di incontro e confronto con tutti, con periodici convegni, per rileggere il femminismo in prospettiva cristiana muovendosi tra Scilla del pensiero del Magistero e Cariddi della cultura radicale femminista. "Progetto Donna" era costretta a chiudere i battenti (quando?), ma il suo progetto continua attraverso la rete di "Prospettiva Donna" all'interno della rivista "Prospettiva Persona"[9].
Se i movimenti cattolici femminili sono arrivati in generale più tardi, hanno però recuperato alla grande, portando il contributo di un maggiore equilibrio teorico e comportamentale. Anche grazie ad essi è maturata una riflessione critica più articolata e si sono potuti ottenere da Giovanni Paolo II due documenti fondamentali, quali la Mulieris dignitatem e soprattutto la Lettera alle donne (1995), che conteneva il riconoscimento pubblico dell'importanza dell'impegno sociale e politico per il riconoscimento dei diritti delle donne.
Una presenza politica ancora insufficiente
A tutt'oggi si avverte la necessità di combattere la scarsa presenza di donne negli organismi della rappresentanza democratica, anche utilizzando specifici interventi normativi. L'introduzione delle "quote" nelle liste elettorali per superare il cosiddetto gender gap non si è rivelata nei fatti una misura realmente incisiva.
Tenendo conto delle soluzioni possibili, con la Legge costituzionale n. 1 del 2003, si è giunti alla modifica dell'art. 51 della Costituzione, con cui al 1° c. del suddetto art. – che dispone che «tutti i cittadini dell'uno o dell'altro sesso possono accedere agli uffici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge» – si è aggiunto che «a tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini».
Molti Statuti regionali richiamano, con formule analoghe a quelle contenute nella Costituzione, l'esigenza di promuovere la parità di accesso alle cariche elettive. Si segnala la legge elettorale della Campania (l. r. n. 4 del 2009), con la quale si è introdotto il meccanismo della preferenza di genere, la possibilità cioè per l'elettore di esprimere uno o due voti di preferenza, a patto che si tratti di candidati di sesso diverso della stessa lista. Si tratta di una misura considerata compatibile con il quadro costituzionale, in quanto "promozionale, non coattiva". In ogni caso né le "quote" né la preferenza di genere garantiscono scelte effettivamente meritocratiche, se a scegliere le donne continueranno ad essere le oligarchie dei partiti, prevalentemente maschili.
Perciò oggi l'impegno per la cittadinanza femminile, in gran parte comune a tutte le donne, non si concentra tanto sulla estensione dei diritti, quanto sul possesso di requisiti e sul riconoscimento delle risorse. Ci si interroga sulla introduzione di "pratiche" civili, incluse in una fenomenologia nuova della democrazia, che rispetti, valorizzi le differenze così come si presentano in una città plurale.
I movimenti cattolici restano comunque di preferenza impegnati per una partecipazione politica che nasca da un reale processo di rinnovamento dal basso, attraverso lo sviluppo e la crescita di una nuova classe dirigente politica anche al femminile. A tal fine si lavora da una parte per uno stile di vita familiare improntato alla reciprocità e dall'altro per una politica di qualità, con "tempi" che consentano alle donne di conciliare famiglia, lavoro e politica.
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