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Dalla parte dei malati:
il rapporto medico-paziente nella Sanità italiana

Francesco Sartori

È da quando esiste la medicina che si parla del rapporto medico-paziente (M/P), o meglio, da quando esso, nella preistoria, era nelle mani di stregoni o sciamani o comunque persone ritenute in possesso di doti e capacità soprannaturali. Se alcuni di loro poi avevano avuto la fortuna di superare una grave malattia erano considerati più… attendibili dei loro colleghi. Nel caso le loro terapie non fossero risultate particolarmente efficaci in vita, sarebbe stata loro cura accompagnare, con la preghiera, il defunto nell’Aldilà per un futuro migliore anche se difficilmente controllabile. Anche Ippocrate, al quale va riconosciuto il merito di avere impostato la medicina su basi scientifiche circa 400 anni prima di Cristo, non si allontanò molto dal concetto di un medico che, per una presunta superiorità culturale e morale, aveva il diritto di esigere dal malato rispetto, ubbidienza e cieca fiducia.
Nel corso dei secoli si rafforzò questo concetto paternalistico del rapporto M/P, anche se Galeno, al tempo di Roma antica, per primo parlò di alleanza terapeutica e Paracelso, in pieno Rinascimento, riconobbe che il medico non era poi così onnisciente e anzi sarebbe stato opportuno che si mettesse al servizio del malato[1].
Venendo ai nostri giorni, per renderci conto com’è oggi il rapporto M/P, dobbiamo chiederci come è cambiato il malato, come è cambiato il medico e come sono cambiate la Sanità e la Società italiana.
Il malato, o meglio il comune cittadino, fin dall’immediato dopo guerra, ha seguito con crescente ammirazione i grandi progressi scientifici e tecnici della medicina moderna e anche con un senso di gratitudine nei confronti di una Scienza che gli avrebbe consentito di vivere bene e a lungo e, all’occorrenza, di superare gravi malattie. Ma, anche perché ingannato da una cattiva informazione giornalistica e radiotelevisiva, gridata da persone impreparate e spesso guidata dalla malafede di molti medici, il cittadino si è illuso di avere sempre la guarigione a portata di mano per qualsiasi evento. Non ha capito la sottile differenza fra una salute diritto di tutti in quanto risorsa quotidiana, stato di benessere fisico, psichico e sociale da perseguire con forza da governi a guida illuminata e la salute di tutti noi, spesso precaria anche nei momenti apparentemente migliori.
Inoltre in una realtà laicizzata, in cui si è fatta sempre più insistente la voce che si vive una volta sola, le persone hanno affidato al proprio corpo la possibilità di rimanere a questo mondo il più a lungo possibile. Quando si ammalano, sorprese e angosciate da una malattia mai messa in preventivo, chiedono al medico la salvezza di quel corpo che hanno curato, in modo a volte maniacale, senza rendersi conto che il medico ha dei limiti è non in grado di garantire la sicurezza assoluta e la salute eterna, cosa che spetta, semmai, a chi è più in alto di lui.
La divulgazione del sapere scientifico, infine, anche se appresa in modo disordinato e impreciso (le notizie su Internet vanno sempre interpretate perché le malattie sono sempre uguali, ma i malati sono sempre diversi: 400.000 morti negli USA nel 2007 per farmaci acquistati via Internet, in assenza di prescrizione medica!), ha reso le persone sempre più edotte e soprattutto consapevoli dei loro diritti, non più facilmente disponibili a rinunciare alle proprie idee e capacità critiche, per sottostare supinamente all’autorità del medico.
Il medico, dal canto suo, ha faticosamente cercato di uscire da quell’ubriacatura tecnologica degli anni '70 e '80 che ha fatto sì che tutti noi, anche non medici, ci narrassimo una storia con annesso lieto fine. I veloci, incredibili progressi avrebbero, in tempi brevi, permesso di prevenire, diagnosticare, curare e guarire tutte le malattie. L’inevitabile dopo-sbornia è stato, per molti medici, molto doloroso[2].
In realtà i progressi della scienza e della tecnica hanno solo in parte risolto i gravi problemi che affliggono l’umanità. Sconfitte la maggior parte delle epidemie e delle malattie acute, il medico si è trovato a dover combattere le malattie croniche e degenerative come: l’arteriosclerosi con le sue drammatiche ripercussioni, che sono soprattutto infarto e ictus, i tumori, le malattie dello scheletro e delle articolazioni, l’enfisema polmonare, i processi degenerativi del Sistema Nervoso Centrale quali il Parkinson, la Sclerosi multipla, la Malattia di Alzheimer e infine le forme depressive contro le quali la moderna tecnologia non può tutto e dove è indispensabile un lungo e comune percorso tra medico e malato[3].
La Sanità italiana è stata riformata, circa trenta anni fa, col nobile intento di ridurre le disuguaglianze del cittadino di fronte alle malattie e di armonizzare e modernizzare il Paese in modo da renderlo più giusto. Anche il grande divario fra Nord e Sud doveva essere eliminato. È nato così il Servizio Sanitario Nazionale come diritto civile per tutti e non soltanto per chi se lo poteva permettere. Le Regioni avrebbero dovuto farsi carico della ristrutturazione della rete ospedaliera mentre compito di tutti gli operatori del settore sarebbe stato quello di incrementare la medicina sul territorio e l’assistenza domiciliare alla ricerca di una medicina meno costosa e anche più umana.
Questa riforma, per vari motivi, non è mai arrivata ad una soluzione soddisfacente. La ristrutturazione edilizia ha proceduto in moto caotico fra mille ritardi, speculazioni e sperpero di denaro. È davanti a tutti il triste spettacolo di scheletri di ospedali iniziati e mai terminati, oppure finiti ma poi lasciati andare in malora con tutte le costosissime attrezzature già a loro interno, mentre, soprattutto nei grandi centri urbani, insistono gli ospedali a padiglioni distaccati dove una moderna assistenza è quanto meno problematica. Anche il tessuto urbano, sempre più ferito da un’edilizia caotica, aggressiva e disordinata, ha reso assai difficili i collegamenti e impervia la cura sul territorio. A tutto ciò si sono aggiunti i continui dissidi e incomprensioni fra gli operatori periferici e coloro che si trovano all’interno dell’ospedale.
Il potere della Sanità, un tempo nelle mani di baroni e primari, è finito in quello dei politici, con un aggravamento di corruzione e malaffare. L’insufficienza politico-amministrativa si è realizzata secondo un copione ben definito: il presidente della regione elegge il direttore generale dell’azienda ospedaliera che a sua volta sceglie i primari da una rosa di candidati scaturita da un inutile concorso, senza dover giustificare a nessuno i motivi della scelta, spesso facilmente riconducibile ad una dichiarata fedeltà al partito più che a meriti scientifici e di carriera.
I costi di gestione per una Sanità moderna e per tutti si sono presto rivelati insostenibili per il continuo sperpero di denaro nelle mani di persone, nel migliore dei casi, incompetenti. In questa cornice, lo stanziamento dei fondi per la sanità italiana è fra i più bassi del mondo occidentale e viene sistematicamente decurtato al varo di ogni legge finanziaria.
Un tentativo di risolvere, almeno in parte, alcuni di questi problemi spetterebbe ad un Ministro della Salute che oggi…. non c’è!
Curare il malato nel posto giusto e nel momento giusto è diventata un’impresa difficile. Il medico infatti vive male in un contesto che lo fa sentire inadeguato per mancanza di mezzi, attrezzature e spazi in un contenzioso continuo con gli amministratori. È a volte persona sconcertata da avanzamenti in carriera di colleghi per motivi non chiari, delusa e demotivata e dedita alla triste pratica di una medicina difensiva. È indubbio che una figura così esista, difficile dire se rappresenta l’eccezione o la regola.
Tutto questo avviene in una Società, la nostra attuale, sempre più violenta con la sistematica sopraffazione del più forte sul più debole, facilitata in questo agire da un cittadino che non sempre rispetta i propri doveri, ma non conosce neppure i propri diritti. L’ospedale, o comunque il luogo dove può avere inizio un rapporto fra medico e malato, rappresenta un microcosmo che riproduce ingigantiti i problemi della convivenza, con l’aggravante che la vittima è quasi sempre il malato.
Una buone dose di clientelismo, infatti, unita alle incapacità di programmazione a livello centrale, regionale e locale, che non tiene in alcun conto il fatto che la Medicina cambia nel tempo, è forse una delle cause principali attraverso le quali si esercita una violenza, più o meno diretta, sul malato e sui suoi familiari. Ancor oggi milioni di famiglie hanno varcato la soglia di povertà per aver dovuto accudire un anziano disabile, una Sanità assai diversa fra Sud e Nord è causa di una imponente e disagevole migrazione interna, migliaia di persone sono in una situazione angosciosa perché costrette a snervanti liste d’attesa per un ricovero. Da ricoverati, ancora attesa per un intervento chirurgico data la cronica, drammatica carenza di posti di terapia intensiva postoperatoria. Per una mammografia si deve aspettare più di un anno e quasi un mese per aver il risultato istologico di una biopsia. In quel mese la malata si chiederà se quel piccolo frammento di tessuto, che le è stato prelevato, è una banalità oppure un cancro!
Il rapporto M/P. Si può condividere l’opinione di chi, leggendo queste righe, ritenga la descrizione del quadro eccessivamente critica e pessimistica, ma è un tentativo di evidenziare i lati negativi di un problema senza il quale sarebbe davvero difficile spiegare come mai la medicina, che ha compiuto e compie ogni giorno innegabili progressi, è oggi così contestata da coloro che hanno o hanno avuto la ventura di venirne a contatto.
Viene forse spontaneo chiedersi come mai un colloquio, che si instaura così facilmente fra la gente che si incontra nei luoghi più svariati, diventi spesso così difficile fra medico e ammalato.
Ed è proprio dal colloquio che si deve partire perché è in seguito ad esso che, fra i due attori, potrà o meno instaurarsi un rapporto.
Tale rapporto sarà tanto più importante e coinvolgente quanto più aumenterà la gravità della malattia; ma per quanto si tenti di semplificare, non si può dimenticare che le occasioni dell’incontro possono essere le più disparate per luoghi, situazioni ed intensità emotiva. Il colloquio fra un ortopedico e il suo paziente che ha una protesi d’anca da sistemare sarà assai diverso da quello di un ostetrico con una signora che dove partorire. Ancora una diversità si potrà percepire fra un medico che debba convincere un ammalato a prendere una pastiglia per controllare la pressione e quello che, invece, dovrà comunicare la necessità di un grave intervento chirurgico dall’esito incerto. Ugualmente, se non più drammatica, sarà la comunicazione di una grave malattia, comunicazione che dovrà essere estesa anche ai familiari, sempre pesantemente coinvolti. Ancora particolare sarà il rapporto nell’emergenza, in luoghi, come una rianimazione o un pronto soccorso, che il malato non ha scelto e dove non ha potuto scegliere neppure il medico che lo sta curando. Che dire infine del rapporto col malato terminale dove la comunicazione è fatta soltanto di atteggiamenti, di gesti e di silenzi.
Seguendo comunque il più normale degli iter che il malato percorre, i vari aspetti comunicativi risulteranno in qualche modo assimilabili. Il primo medico che il malato incontra è, o dovrebbe essere, quello di famiglia, il vecchio medico condotto che ora si chiama Medico di Medicina Generale. Costui ha buoni motivi di risentimento nei confronti dell’Azienda e dell’Università per tutta una serie di motivi, non ultimo la tanta decantata Educazione Medica Continua della quale avrebbe dovuto usufruire e che, nella maggior parte dei casi, si è rivelata una bufala.
Ogni suo atto deve essere seguito da una serie infinita di moduli da firmare, è ossessionato dalla burocrazia, al punto da provare un vero e proprio rigetto nei confronti del suo lavoro. Non è quindi sempre ben disposto e disponibile, il colloquio non sempre è facile. Comunque, qualora in seguito alla visita si ravvisi per il malato la necessità di un ricovero in Ospedale, il medico che lo aspetta già lo si conosce: va di fretta, è impegnato in compiti che non sempre riguardano l’assistenza, in un contenzioso continuo con l’amministrazione, demotivato e scontroso. Il medico dotato di carica umana, con un talento naturale per l’assistenza, soddisfatto del suo lavoro, che pure esiste per fortuna, in questo momento non ci interessa perché non è lui che crea il problema.
Anche il luogo in cui avviene l’incontro col medico è importante; l’ambiente deve essere tranquillo, silenzioso, riservato tanto da facilitare lo scambio di notizie e di opinioni. Il tempo a disposizione è quasi sempre limitato. Le aziende impongono otto minuti per una visita e ci sono medici che considerano ancora tempo perso il colloquio col malato. Il primo incontro, invece, è di importanza capitale: deve nascere da questo la fiducia reciproca, la condivisione sul da farsi, la consapevolezza che da quel momento inizia un percorso da fare insieme. Non sarà mai tempo perso perché, dopo il primo, gli incontri che seguiranno potranno essere rapidi anche se ugualmente efficaci.
Il rapporto M/P rimane tuttavia un fatto complesso. Non è spontaneo perché il medico ha un fine ben preciso che è quello di perseguire innanzi tutto una diagnosi e poi, nei limiti del possibile, anche una terapia. Il medico si avvale giustamente di ciò che sa per averlo appreso dagli studi, fa affidamento su quanto è scritto sui libri di medicina e sull’esperienza maturata sul campo ma deve cercare di contenere il racconto impreciso, disordinato e spesso divagante del malato entro binari che gli consentano di raggiungere il suo scopo. È quindi necessario molto tatto per non urtare la sensibilità di chi gli sta di fronte. Il malato infatti è angosciato, depresso o agitato. Ha dovuto lasciare la casa, gli amici, il lavoro per vedersi catapultato in un ambiente che gli può apparire addirittura ostile. Ha sentito nominare, in mezzo a tante parole sconosciute, malattie che non conosce ma che – intuisce o sa già – potrebbero cambiare drasticamente la sua vita. Ha anche avuto il tempo di informarsi e di maturare convinzioni a volte sbagliate. Per lui può essere più importante quel calcio preso sul torace trenta anni fa che non lo sputo di sangue che compare tutte le mattine da qualche mese. Ammette a fatica di essere un fumatore di due pacchetti di sigarette al giorno, ma si fissa sul fatto di avere inalato anni addietro casualmente vapori di benzina. Non ama sentirsi dire che la sua malattia è così e basta, vuol raccontare le sue paure, il suo sconforto, la sua disperazione. Il medico deve sapere ascoltare anche questa parte del racconto, comprendere e condividere l’emozione. Valutare quindi anche la portata dei suoi messaggi, non dire brutalmente parole che possono evocare scenari di infermità o addirittura di morte, aspettare che il malato metabolizzi le brutte notizie prima di passare a parlare d’altro.
Il rapporto si può sintetizzare in tre parole: ascoltare, comprendere, spiegare. Il medico che non ascolta non verrà ascoltato nel momento in cui farà le sue proposte, il malato si allontanerà alla ricerca di un nuovo medico su quale riporre la sua fiducia. Non c’è stato il dialogo: le due narrazioni, la storia del medico e la storia del malato, sono rimaste su piani diversi, senza possibilità di incontro. Non è nata una relazione di cura. Ma il disagio non sarà solo del malato: un disagio profondo proverà anche il medico per questa sua incapacità comunicativa, per non aver saputo trovare l’atteggiamento e le parole giuste nei confronti di quella persona, col risultato di diventare sempre più scontroso e poco disponibile fino a sembrare poco umano.
È assai probabile che i tentativi di riformare la medicina solo attraverso innovazioni di carattere amministrativo, tecnico o politico siano destinati a fallire se non si modifica l’elemento umano deputato a gestire la salute e cioè medici, infermieri, personale sanitario.
Le competenze comunicative purtroppo non si improvvisano ma devono essere il risultato di studi precisi condotti nel tempo, ma quando?
Il neo laureato o lo specialista hanno troppi problemi che frullano nella loro testa: devono sistemarsi, hanno una casa in costruzione, un mutuo da pagare, i figli da crescere. Sono poco disponibili all’ascolto di cose che appaiono di seconda importanza.
Lo studente in medicina, quello dei primi anni, rappresenta invece il bersaglio ideale. Si è iscritto a questa facoltà perché possiede un’aspirazione autentica a fare il bene del suo prossimo, non è ancora corrotto da tutta una serie di insegnamenti fatti di protocolli e tecnologia, tesi a far conoscere tutte le malattie ma nessun malato, somministrati da un numero infinito di “baronetti”, unica cosa sempre in crescita nelle nostre disastrate università.
La letteratura anglosassone cita spesso l’indurimento del cuore degli studenti durante i sei anni di studio. La caduta dell’empatia, della capacità di entrare nella testa dell’altro per conoscerne e condividerne le sensazioni, è ritenuto un grave danno in quanto attitudine cruciale in una relazione soddisfacente. La tecnica della comunicazione andrebbe inserita nel corso di studi fin dal primo giorno come la più importante delle materie.
Lo studente non dovrà lamentarsi perché è giunto alla Laurea senza saper fare un’iniezione o dare dei punti. Pungere, tagliare e cucire sono cose che si imparano in pochi giorni. Potrà invece recriminare perché nessuno gli ha insegnato a vedere, negli occhi del malato, la sofferenza e cosa vuol dire avere a che fare con il malato grave o addirittura terminale. Cosa vuol dire soprattutto essere arrivato alla fine dei suoi studi senza sapere cosa significhi fare il medico, col pericolo reale che, venuto a contatto con un mondo fatto di Tomografie Assiali Computerizzate, Risonanze Magnetiche, Telemedicine e Chirurgie Robotiche, si trasformi in breve in uno di quegli «esseri in camice bianco, figure aliene sia ai luoghi che popolano che alla sostanza profonda di ciò che trattano»[4].

E-mail:

[1] M.G. RUBERTO, L’evoluzione del rapporto medico-paziente, in La comunicazione della salute, a cura della Fondazione Zoè, Raffaello Cortina, Milano 2009, pp. 105-113.
[2] G. BERT, Medicina narrativa, Il Pensiero Scientifico, Roma 2007, pp. IX-X.
[3] S. BARTOCCIONI, G. BONADONNA, F. SARTORI, Dall’Altra Parte, a cura di P. Banard, BUR, Milano 2006, p. 165.
[4] Ivi, p. 5.
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