L’apparente “banalità per abuso” del tema (una sorta di “banalità indotta”. Domande e risposte egualmente scontate: il danaro è fonte di felicità? E la felicità è funzione della ricchezza? Il danaro non dà la felicità, ma questa è, forse, più facile in presenza di un livello apprezzabile di ricchezza) per me, uomo di marketing e, si badi bene!, non economista e neppure sociologo (almeno così come descritti dalla tradizione accademica), si traduce immediatamente in una opportunità: affrontare la questione da un angolo non usuale, forse troppo poco usato per aver avuto la possibilità di imporsi all’attenzione; forse, addirittura mai preso in considerazione. Quello, appunto, di un “uomo di marketing” che, nato in azienda per “massimizzare i profitti” del prodotto, prima, e della linea, poi, ha cercato di dare risposte affidabili ad alcune domande fondamentali: cosa sto effettivamente facendo? Perché, e cosa veramente significa? Ed altre domande ancora, ovviamente, per molte delle quali la risposta non è stata facile. E la vita d’impresa mi ha anche insegnato qualcosa di fondamentale. Tra le altre, questa: che il marketing in sé non è una disciplina economica, ma una scienza che ha l’economia tra i suoi mezzi e come tale ne fa uso. E, poi, ho imparato un metodo. Questo, a grandissime linee, che applicato alla felicità può essere indicato così:
1. Definire la felicità dovrebbe essere premessa fondamentale per qualsiasi ragionamento sul tema. Ma c’è un problema: a mia conoscenza, nessuno sembra essere mai riuscito a descrivere la felicità al di là del senso che il termine comunemente comporta e che, nonostante la sterminata letteratura in materia, sembra rimanere il più delle volte intimamente legato al concetto di bisogno, almeno nel senso che colui che è felice non sembra avvertire stati d’insoddisfazione. Tanto che le religioni concordemente (almeno in questo!) si affannano ad insegnare ed a ricordare che “di là, fuori del tempo e dello spazio, nel luogo di Dio” ciascuno di noi sarà libero da ogni bisogno [1] e quindi da ogni infelicità. A certe condizioni, naturalmente, e sempre che l’abbia meritata in questa vita, avendo operato secondo le regole che ognuna di loro reputa adatte a consentirci di attingere la felicità e che promanano direttamente da Dio.
Da questo punto di vista, alla felicità potrebbe guardarsi come all’effetto di un comportamento consapevole e in progress: è felice colui che opera per guadagnarsi la felicità promessa. E lo è già mentre opera, quando l’obiettivo non è stato ancora raggiunto. La felicità potrebbe essere definita come “avere la certezza di operare per guadagnarsela”. Non so se sia sostenibile, ma so che se così fosse si tratterebbe di uno status, di un modo di essere della persona. E che la felicità sia uno status dell’individuo mi sembra assolutamente accettabile. Solo che, nel caso di colui che è felice perché opera, lo stato di grazia non dipende dall’assenza di stati di insoddisfazione, ma dall’operare anche in loro presenza, sopportandoli per guadagnarsene la cancellazione, consapevoli che senza difficoltà non esistono meriti.
Meno affidabile mi pare, invece, la proposta di Aristotele che dell’eudemonia tratta come di un fine ultimo e dunque di una “causa [2]”. La felicità è certamente un fine e può darsi che in più di un caso sia il fine ultimo di una qualsiasi azione o di un qualsiasi procedimento, ma questo non ci dice, mi pare, che cosa la felicità sia. Non ce la descrive.
E dal momento che l’economia di questo lavoro non consente di approfondire ulteriormente l’argomento, sintetizzo avvertendo che io assumo la definizione di felicità come status individuale caratterizzato dall’assenza di situazioni di insoddisfazione.
2. La felicità è un prodotto destinato allo scambio
2.1. Che la felicità sia un prodotto a me sembra assoluta tautologia: non ho mai avuto nozione di qualcosa, di materiale o di immateriale, di fisico o di spirituale, che non sia il risultato di una qualsiasi attività definibile come produttiva. Né mi pare l’abbiano avuta coloro che in qualunque modo e per qualsivoglia ragione si sono occupati di uno qualsiasi degli aspetti multiformi e vari della vita. Non della vita dell’uomo, non soltanto, almeno: della vita tout court, anche di quella della fauna e della flora e del pianeta nel suo insieme e dell’universo nel quale la Terra è nata, vive, morirà. Tutto è frutto di una più o meno complessa serie di attività. E neppure importa che queste siano consapevoli o meno, originali o ripetitive, univoche o generiche, divine o umane, meccaniche, semplici, complesse, pubbliche, private per potere essere qualificate come “attività produttive”.
E non soltanto la felicità è un prodotto: si tratta di un prodotto complesso al quale mi sembra ben si addica lo status di “linea”, dal momento che di essa fa parte e concorre a completarla una serie pressoché infinita di altri prodotti, ciascuno dei quali contribuisce a produrre felicità [3].
Forse, alla Felicità possono attribuirsi almeno tre caratteristiche oltre quelle comunemente accettate e date per scontate da chi di “Felicità” o di “felicità” si occupa:
2.2. Resta da vedere se il prodotto Felicità (e le sue componenti chiamate “felicità”) siano o meno adatti ad essere oggetto di scambio, poiché se così non fosse, a mio avviso la questione del rapporto tra felicità e ricchezza si risolverebbe in automatico: il prodotto, non essendo oggetto di scambio e non potendolo essere per mancanza dei requisiti necessari, non esisterebbe ricchezza in grado di procurarselo.
A me pare che se si accetta il principio secondo il quale per potere essere adatto allo scambio [5] un qualsiasi prodotto debba avere requisiti essenziali; se si accetta che questi requisiti siano quelli ai quali qui di seguito farò cenno; e se essi fanno parte integrante, essenziale, del prodotto chiamato felicità, significa che questo potrebbe essere oggetto di scambio.
Utilità. La felicità è utile? Un qualsiasi bene o servizio per poter aspirare a divenire oggetto di scambio deve essere in grado di soddisfare uno o più bisogni (non importa, a questi fini, in quale grado lo sia) e quindi deve potere essere qualificato come utile. Da questo punto di vista, la felicità non ha nulla da invidiare a nessun altro prodotto. In un certo senso, proprio perché “prodotto”, non può non essere dotato di una qualsiasi capacità di cancellare in tutto o in parte gradi di penosità, e quindi di soddisfare bisogni. Naturalmente, occorre si tratti del bisogno di riferimento [6]. E, altrettanto naturalmente, purché questo sia conosciuto da parte (almeno) del suo portatore. Ora, nel caso del prodotto chiamato felicità, a me pare assolutamente indiscutibile che la sua disponibilità e il suo utilizzo creino utilità, proprio nel senso suddetto. Il problema sta, forse, nella circostanza che la quantità e la qualità dei bisogni che la felicità è in grado di cancellare o di soddisfare almeno in parte appaiono estremamente vaste, varie, complesse e mutevoli, sì che estremamente difficile – impossibile, a mio avviso! – è rispondere alla domanda circa quali bisogni e di quale categoria la felicità sia il prodotto soddisfacente. La linea di prodotti “felicità” appare certamente inafferrabile, almeno allo stato attuale della conoscenza. Ma quando si abbia a riferimento i prodotti individuali che concorrono a formarla, allora è possibile pensare che si possa tentare di descrivere per ciascun prodotto quale tipo e grado di infelicità sia destinato a cancellare. Non solo: anche la sua efficacia potrebbe diventare oggetto di valutazione.
Conoscenza. La felicità è conosciuta? Da secoli gli economisti insegnano che un prodotto, per poter essere oggetto di scambio, deve essere conosciuto da parte del portatore del bisogno di riferimento che abbia deciso di far cessare in tutto o in parte lo stato di insoddisfazione nel quale si trova o crede di trovarsi [7]. I singoli portatori dello stato di insoddisfazione chiamato “infelicità” (vasta quanto nebulosa categoria di bisogni) possono trovarsi sostanzialmente in due diverse situazioni. La prima: sanno o credono di sapere come la loro situazione potrebbe essere in tutto o in parte migliorata e dunque di quali prodotti dovrebbero entrare in possesso per potere ottenere questo risultato, che consiste nel cancellare in tutto o in parte i gradi d’infelicità. L’altra, forse più frequente: non hanno la più pallida idea di “cosa fare” per diventare almeno un po’ meno infelici. E questa posizione comporta, sì, una ricerca il più delle volte defatigante e spesso – anche troppo! – inutile, ma offre una opportunità quasi infinita ai “produttori e distributori di felicità” i quali, proprio attraverso l’uso massiccio e mirato della comunicazione, propongono prodotti e mettono in atto tutte le forme di comunicazioni possibili per convincere il portatore del bisogno a compiere l’atto di acquisto.
Questo fa della Felicità, forse, uno dei prodotti più comunicati al mondo. Da sempre. Quella dei singoli individui e quella delle comunità di riferimento: la felicità privata e quella pubblica. Qualsiasi cosa possa in qualsiasi modo esser compresa nella “linea Felicità” è oggetto di comunicazione sotto (almeno) le due categorie della “formazione” e della “pubblicità”. Chiunque produca e “venda” direttamente o indirettamente una qualsiasi cosa che abbia a che fare con la felicità, mette in moto meccanismi di comunicazione spesso sofisticatissimi. E chi questo sa far bene, utilizza in modo programmato, organizzato, pianificato sia la categoria della formazione che quella della pubblicità, non rifuggendo, quando opportuno e necessario, dal mettere in moto i meccanismi dell’animazione e della promozione. E tutto questo contribuisce a definire che cosa la felicità sia e quali prodotti fanno parte della “linea felicità”.
Apprensibilità. La felicità è apprensibile? Gli economisti si affannano da sempre a ricordarci che se il prodotto non è in grado di entrare in contatto diretto con il portatore di bisogno, esso prodotto è come se non esistesse. E per poter essere a disposizione del potenziale acquirente, il sistema di distribuzione è assolutamente rilevante. Bene: io credo di poter tranquillamente sostenere che il sistema di distribuzione dei prodotti della linea “Felicità” sia il più capillare ed efficiente inventato al mondo dacché l’uomo esiste. La Felicità è un prodotto apprensibile, e su questa apprensibilità vive un mondo vastissimo e oltremodo variegato di “produttori e venditori” di felicità.
Limitatezza. La felicità è limitata? La quantità di prodotto messa a disposizione del mercato è assolutamente importante, dicono concordi gli economisti. A ben guardare, però, questa importanza appare assolutamente rilevante quando si abbia riferimento al prezzo di mercato, tanto che essa diviene elemento essenziale a quello che possiamo qui chiamare “prodotto per la vendita”. Ma la compravendita non è che una delle possibili forme che lo scambio assume. Ai fini degli scambi diversi da quelli propriamente “economici”, la limitatezza del prodotto potrebbe non essere un elemento essenziale. Lo diventa, quando si voglia prendere in considerazione quel “mercato” in senso stretto nel quale si scambiano beni e servizi dietro pagamento di un prezzo espresso generalmente in moneta. Che non esaurisce il concetto di “mercato”, né quello di “prezzo” e neppure quello di “scambio”, ma che identifica comunque una relazione che si svolge secondo modalità ed a condizioni abbastanza precise e codificate. E la “limitatezza” del prodotto può dipendere – e in genere così è – da fattori diversi, produttivi, legislativi, logistici, gestionali, conoscitivi.
Ecco: per quanto concerne la linea di prodotti chiamata Felicità, la mia sensazione è che proprio gli aspetti conoscitivi giochino un ruolo assolutamente rilevante. La “quantità di felicità” a disposizione del mercato appare assolutamente limitata perché né la domanda né l’offerta dimostrano di conoscere in maniera affidabile le caratteristiche di un prodotto che, se conosciuto appieno, potrebbe con certezza soddisfare in tutto o in parte i bisogni di riferimento.
Dunque, la “Felicità” assieme alle “felicità” sembrano avere tutte le carte in regola per poter essere qualificate come “prodotti adatti allo scambio economico”. Che è quello che qui più ci interessa, ma che non esaurisce la categoria degli scambi dei quali la Felicità è adatta ad essere oggetto. Ed è a mio avviso assolutamente importante ricordare che non necessariamente lo scambio implica la partecipazione di più soggetti: esiste il mondo degli scambi “intrapersonali” [8], nel quale pure (forse, addirittura in prevalenza) la Felicità è protagonista. E seppure si possa sostenere che in questo mondo interiore il danaro non è mezzo di scambio, occorre sempre ricordare che anche lo scambio “dentro” avviene impegnando risorse.
Ma torniamo a noi.
3. Consumatore e produttore della Felicità. L’attitudine della Felicità ad essere oggetto di scambio e di scambio economico significa l’esistenza di strutture produttive della Felicità, di strutture distributive e di strutture di comunicazione. È evidente che non è possibile, qui ed ora, affrontare questi temi, neppure in via approssimativa. Devo per forza limitarmi a qualche nota a mio parere interessante.
A me pare incontestabile, intanto, che quando si parla di felicità come prodotto sinergico adatto allo scambio si ponga immediatamente in campo la partecipazione del portatore del bisogno e dunque – se così è – dell’utilizzatore al processo produttivo [9] di coloro che cercano, aspirano, vogliono la Felicità, magari anche accontentandosi di una o più “felicità”. Fino al punto che mi pare si possa sostenere che non esiste Felicità (e felicità neppure) se il soggetto non ha partecipato a produrla. E ciò fa certamente immettendo nel processo
4. E siamo alla felicità delle Nazioni: un equivoco o, forse, un pio desiderio probabilmente destinato a rimanere tale in un mondo, quale è il nostro, che non sa cosa la Felicità sia ma che ha in qualche modo nozione abbastanza chiara di cosa siano “le felicità”. E le insegue disperatamente, tanto che si potrebbe anche sostenere che inseguire la Felicità può divenire di per sé causa di infelicità. Comunque sempre, quando si parla di felicità, si è di fronte ad una valutazione personale estensibile, forse, ad un gruppo soltanto nella misura in cui ogni singolo componente del gruppo riconosca il prodotto sinergico e su di esso esprima l’identico giudizio. Magari anche con intensità diverse (anche se non sono molto convinto di questo) dichiarandosi più o meno felice di prima o di altri, contemporanei e non.
Si dà il caso che una “nazione” o uno Stato oppure, a maggior ragione, l’insieme degli Stati risentano e non possano non risentire di questa situazione. Miliardi di persone nel mondo, organizzate in modo diverso; dotate di culture diverse; aventi ciascuna una propria scala di bisogni; costrette a competere per la soddisfazione dei bisogni individuali; credenti ciascuno in un proprio Dio oppure ciascuno non credente in modo diverso, e chi più ne ha più ne metta; miliardi di individui che non sanno cosa sia la propria “felicità”, non si può pensare sappiano e sappiano perseguire “le felicità” di gruppi ai quali tanto meno si sente di appartenere quanto più sono ampi e anche fisicamente lontani.
Non solo. Un qualsiasi gruppo non ha in proprio un’anima, non una intelligenza, non dispone di sentimenti se non in quanto gli si attribuiscono anima e intelligenza e sentimenti che null’altro sono se non estensioni e mediazioni di quelli dei singoli componenti.
Tra le poche cose delle quali v’è certezza quando si tratti della felicità è che essa sia per sua natura un modo di essere, un modo di sentire, un sentimento, appunto.
Allora: di quale felicità si parla, quando si abbia a riferimento “un gruppo”?
Il mio dubbio è che sempre, comunque e senza eccezioni quando si fa riferimento alla felicità di un gruppo (delle Nazioni), s’intenda “la capacità del gruppo di soddisfare al meglio i bisogni che esso ha assunto come propri” e che null’altro sono se non la personalizzazione di gruppo degli elementi comuni ai bisogni di cui sono portatori i singoli componenti. Una nazione, in altre parole, ammesso che possa avere sentimenti, è “felice” (o dovrebbe esserlo) quando riesce a soddisfare quei bisogni di cui sono portatori i singoli ma che essa ha assunto come propri, e quindi per questo ha reso diversi.
E a questo proposito mi sembra di poter notare come, di solito e nella più ampia generalità, per la soddisfazione di questi bisogni sono a disposizione prodotti acquistabili e come una buona parte delle possibilità di acquisizione di questi dipenda dalla quantità di risorse a disposizione dei singoli e della comunità in quanto tale.
La Nazione “acquista” la propria felicità.
5. Dunque, “le felicità” si possono comprare. Forse, non “la Felicità”. Fatto salvo che rimane a mio parere irrisolto il problema della sua definizione, che la felicità (quella con l’iniziale minuscola) si possa comprare mi pare assolutamente indiscutibile. E che chi è più ricco possa comperarne dosi maggiori e tipi diversi mi sembra altrettanto ovvio.
Il senso, nella pratica, appare questo: