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Il danaro fa la felicità?

Paolo M. Di Stefano

L’apparente “banalità per abuso” del tema (una sorta di “banalità indotta”. Domande e risposte egualmente scontate: il danaro è fonte di felicità? E la felicità è funzione della ricchezza? Il danaro non dà la felicità, ma questa è, forse, più facile in presenza di un livello apprezzabile di ricchezza) per me, uomo di marketing e, si badi bene!, non economista e neppure sociologo (almeno così come descritti dalla tradizione accademica), si traduce immediatamente in una opportunità: affrontare la questione da un angolo non usuale, forse troppo poco usato per aver avuto la possibilità di imporsi all’attenzione; forse, addirittura mai preso in considerazione. Quello, appunto, di un “uomo di marketing” che, nato in azienda per “massimizzare i profitti” del prodotto, prima, e della linea, poi, ha cercato di dare risposte affidabili ad alcune domande fondamentali: cosa sto effettivamente facendo? Perché, e cosa veramente significa? Ed altre domande ancora, ovviamente, per molte delle quali la risposta non è stata facile. E la vita d’impresa mi ha anche insegnato qualcosa di fondamentale. Tra le altre, questa: che il marketing in sé non è una disciplina economica, ma una scienza che ha l’economia tra i suoi mezzi e come tale ne fa uso. E, poi, ho imparato un metodo. Questo, a grandissime linee, che applicato alla felicità può essere indicato così:


1. Definire la felicità dovrebbe essere premessa fondamentale per qualsiasi ragionamento sul tema. Ma c’è un problema: a mia conoscenza, nessuno sembra essere mai riuscito a descrivere la felicità al di là del senso che il termine comunemente comporta e che, nonostante la sterminata letteratura in materia, sembra rimanere il più delle volte intimamente legato al concetto di bisogno, almeno nel senso che colui che è felice non sembra avvertire stati d’insoddisfazione. Tanto che le religioni concordemente (almeno in questo!) si affannano ad insegnare ed a ricordare che “di là, fuori del tempo e dello spazio, nel luogo di Dio” ciascuno di noi sarà libero da ogni bisogno [1] e quindi da ogni infelicità. A certe condizioni, naturalmente, e sempre che l’abbia meritata in questa vita, avendo operato secondo le regole che ognuna di loro reputa adatte a consentirci di attingere la felicità e che promanano direttamente da Dio.
Da questo punto di vista, alla felicità potrebbe guardarsi come all’effetto di un comportamento consapevole e in progress: è felice colui che opera per guadagnarsi la felicità promessa. E lo è già mentre opera, quando l’obiettivo non è stato ancora raggiunto. La felicità potrebbe essere definita come “avere la certezza di operare per guadagnarsela”. Non so se sia sostenibile, ma so che se così fosse si tratterebbe di uno status, di un modo di essere della persona. E che la felicità sia uno status dell’individuo mi sembra assolutamente accettabile. Solo che, nel caso di colui che è felice perché opera, lo stato di grazia non dipende dall’assenza di stati di insoddisfazione, ma dall’operare anche in loro presenza, sopportandoli per guadagnarsene la cancellazione, consapevoli che senza difficoltà non esistono meriti.
Meno affidabile mi pare, invece, la proposta di Aristotele che dell’eudemonia tratta come di un fine ultimo e dunque di una “causa [2]”. La felicità è certamente un fine e può darsi che in più di un caso sia il fine ultimo di una qualsiasi azione o di un qualsiasi procedimento, ma questo non ci dice, mi pare, che cosa la felicità sia. Non ce la descrive.
E dal momento che l’economia di questo lavoro non consente di approfondire ulteriormente l’argomento, sintetizzo avvertendo che io assumo la definizione di felicità come status individuale caratterizzato dall’assenza di situazioni di insoddisfazione.


2. La felicità è un prodotto destinato allo scambio

2.1. Che la felicità sia un prodotto a me sembra assoluta tautologia: non ho mai avuto nozione di qualcosa, di materiale o di immateriale, di fisico o di spirituale, che non sia il risultato di una qualsiasi attività definibile come produttiva. Né mi pare l’abbiano avuta coloro che in qualunque modo e per qualsivoglia ragione si sono occupati di uno qualsiasi degli aspetti multiformi e vari della vita. Non della vita dell’uomo, non soltanto, almeno: della vita tout court, anche di quella della fauna e della flora e del pianeta nel suo insieme e dell’universo nel quale la Terra è nata, vive, morirà. Tutto è frutto di una più o meno complessa serie di attività. E neppure importa che queste siano consapevoli o meno, originali o ripetitive, univoche o generiche, divine o umane, meccaniche, semplici, complesse, pubbliche, private per potere essere qualificate come “attività produttive”.
E non soltanto la felicità è un prodotto: si tratta di un prodotto complesso al quale mi sembra ben si addica lo status di “linea”, dal momento che di essa fa parte e concorre a completarla una serie pressoché infinita di altri prodotti, ciascuno dei quali contribuisce a produrre felicità [3].
Forse, alla Felicità possono attribuirsi almeno tre caratteristiche oltre quelle comunemente accettate e date per scontate da chi di “Felicità” o di “felicità” si occupa:


2.2. Resta da vedere se il prodotto Felicità (e le sue componenti chiamate “felicità”) siano o meno adatti ad essere oggetto di scambio, poiché se così non fosse, a mio avviso la questione del rapporto tra felicità e ricchezza si risolverebbe in automatico: il prodotto, non essendo oggetto di scambio e non potendolo essere per mancanza dei requisiti necessari, non esisterebbe ricchezza in grado di procurarselo.
A me pare che se si accetta il principio secondo il quale per potere essere adatto allo scambio [5] un qualsiasi prodotto debba avere requisiti essenziali; se si accetta che questi requisiti siano quelli ai quali qui di seguito farò cenno; e se essi fanno parte integrante, essenziale, del prodotto chiamato felicità, significa che questo potrebbe essere oggetto di scambio.


Utilità. La felicità è utile? Un qualsiasi bene o servizio per poter aspirare a divenire oggetto di scambio deve essere in grado di soddisfare uno o più bisogni (non importa, a questi fini, in quale grado lo sia) e quindi deve potere essere qualificato come utile. Da questo punto di vista, la felicità non ha nulla da invidiare a nessun altro prodotto. In un certo senso, proprio perché “prodotto”, non può non essere dotato di una qualsiasi capacità di cancellare in tutto o in parte gradi di penosità, e quindi di soddisfare bisogni. Naturalmente, occorre si tratti del bisogno di riferimento [6]. E, altrettanto naturalmente, purché questo sia conosciuto da parte (almeno) del suo portatore. Ora, nel caso del prodotto chiamato felicità, a me pare assolutamente indiscutibile che la sua disponibilità e il suo utilizzo creino utilità, proprio nel senso suddetto. Il problema sta, forse, nella circostanza che la quantità e la qualità dei bisogni che la felicità è in grado di cancellare o di soddisfare almeno in parte appaiono estremamente vaste, varie, complesse e mutevoli, sì che estremamente difficile – impossibile, a mio avviso! – è rispondere alla domanda circa quali bisogni e di quale categoria la felicità sia il prodotto soddisfacente. La linea di prodotti “felicità” appare certamente inafferrabile, almeno allo stato attuale della conoscenza. Ma quando si abbia a riferimento i prodotti individuali che concorrono a formarla, allora è possibile pensare che si possa tentare di descrivere per ciascun prodotto quale tipo e grado di infelicità sia destinato a cancellare. Non solo: anche la sua efficacia potrebbe diventare oggetto di valutazione.


Conoscenza. La felicità è conosciuta? Da secoli gli economisti insegnano che un prodotto, per poter essere oggetto di scambio, deve essere conosciuto da parte del portatore del bisogno di riferimento che abbia deciso di far cessare in tutto o in parte lo stato di insoddisfazione nel quale si trova o crede di trovarsi [7]. I singoli portatori dello stato di insoddisfazione chiamato “infelicità” (vasta quanto nebulosa categoria di bisogni) possono trovarsi sostanzialmente in due diverse situazioni. La prima: sanno o credono di sapere come la loro situazione potrebbe essere in tutto o in parte migliorata e dunque di quali prodotti dovrebbero entrare in possesso per potere ottenere questo risultato, che consiste nel cancellare in tutto o in parte i gradi d’infelicità. L’altra, forse più frequente: non hanno la più pallida idea di “cosa fare” per diventare almeno un po’ meno infelici. E questa posizione comporta, sì, una ricerca il più delle volte defatigante e spesso – anche troppo! – inutile, ma offre una opportunità quasi infinita ai “produttori e distributori di felicità” i quali, proprio attraverso l’uso massiccio e mirato della comunicazione, propongono prodotti e mettono in atto tutte le forme di comunicazioni possibili per convincere il portatore del bisogno a compiere l’atto di acquisto.
Questo fa della Felicità, forse, uno dei prodotti più comunicati al mondo. Da sempre. Quella dei singoli individui e quella delle comunità di riferimento: la felicità privata e quella pubblica. Qualsiasi cosa possa in qualsiasi modo esser compresa nella “linea Felicità” è oggetto di comunicazione sotto (almeno) le due categorie della “formazione” e della “pubblicità”. Chiunque produca e “venda” direttamente o indirettamente una qualsiasi cosa che abbia a che fare con la felicità, mette in moto meccanismi di comunicazione spesso sofisticatissimi. E chi questo sa far bene, utilizza in modo programmato, organizzato, pianificato sia la categoria della formazione che quella della pubblicità, non rifuggendo, quando opportuno e necessario, dal mettere in moto i meccanismi dell’animazione e della promozione. E tutto questo contribuisce a definire che cosa la felicità sia e quali prodotti fanno parte della “linea felicità”.


Apprensibilità. La felicità è apprensibile? Gli economisti si affannano da sempre a ricordarci che se il prodotto non è in grado di entrare in contatto diretto con il portatore di bisogno, esso prodotto è come se non esistesse. E per poter essere a disposizione del potenziale acquirente, il sistema di distribuzione è assolutamente rilevante. Bene: io credo di poter tranquillamente sostenere che il sistema di distribuzione dei prodotti della linea “Felicità” sia il più capillare ed efficiente inventato al mondo dacché l’uomo esiste. La Felicità è un prodotto apprensibile, e su questa apprensibilità vive un mondo vastissimo e oltremodo variegato di “produttori e venditori” di felicità.


Limitatezza. La felicità è limitata? La quantità di prodotto messa a disposizione del mercato è assolutamente importante, dicono concordi gli economisti. A ben guardare, però, questa importanza appare assolutamente rilevante quando si abbia riferimento al prezzo di mercato, tanto che essa diviene elemento essenziale a quello che possiamo qui chiamare “prodotto per la vendita”. Ma la compravendita non è che una delle possibili forme che lo scambio assume. Ai fini degli scambi diversi da quelli propriamente “economici”, la limitatezza del prodotto potrebbe non essere un elemento essenziale. Lo diventa, quando si voglia prendere in considerazione quel “mercato” in senso stretto nel quale si scambiano beni e servizi dietro pagamento di un prezzo espresso generalmente in moneta. Che non esaurisce il concetto di “mercato”, né quello di “prezzo” e neppure quello di “scambio”, ma che identifica comunque una relazione che si svolge secondo modalità ed a condizioni abbastanza precise e codificate. E la “limitatezza” del prodotto può dipendere – e in genere così è – da fattori diversi, produttivi, legislativi, logistici, gestionali, conoscitivi.
Ecco: per quanto concerne la linea di prodotti chiamata Felicità, la mia sensazione è che proprio gli aspetti conoscitivi giochino un ruolo assolutamente rilevante. La “quantità di felicità” a disposizione del mercato appare assolutamente limitata perché né la domanda né l’offerta dimostrano di conoscere in maniera affidabile le caratteristiche di un prodotto che, se conosciuto appieno, potrebbe con certezza soddisfare in tutto o in parte i bisogni di riferimento.
Dunque, la “Felicità” assieme alle “felicità” sembrano avere tutte le carte in regola per poter essere qualificate come “prodotti adatti allo scambio economico”. Che è quello che qui più ci interessa, ma che non esaurisce la categoria degli scambi dei quali la Felicità è adatta ad essere oggetto. Ed è a mio avviso assolutamente importante ricordare che non necessariamente lo scambio implica la partecipazione di più soggetti: esiste il mondo degli scambi “intrapersonali” [8], nel quale pure (forse, addirittura in prevalenza) la Felicità è protagonista. E seppure si possa sostenere che in questo mondo interiore il danaro non è mezzo di scambio, occorre sempre ricordare che anche lo scambio “dentro” avviene impegnando risorse.
Ma torniamo a noi.


3. Consumatore e produttore della Felicità. L’attitudine della Felicità ad essere oggetto di scambio e di scambio economico significa l’esistenza di strutture produttive della Felicità, di strutture distributive e di strutture di comunicazione. È evidente che non è possibile, qui ed ora, affrontare questi temi, neppure in via approssimativa. Devo per forza limitarmi a qualche nota a mio parere interessante.
A me pare incontestabile, intanto, che quando si parla di felicità come prodotto sinergico adatto allo scambio si ponga immediatamente in campo la partecipazione del portatore del bisogno e dunque – se così è – dell’utilizzatore al processo produttivo [9] di coloro che cercano, aspirano, vogliono la Felicità, magari anche accontentandosi di una o più “felicità”. Fino al punto che mi pare si possa sostenere che non esiste Felicità (e felicità neppure) se il soggetto non ha partecipato a produrla. E ciò fa certamente immettendo nel processo


Ecco, allora, che la dotazione degli strumenti di analisi e di interpretazione in capo al soggetto acquista una sua rilevanza precisa, poiché è questa che produce l’effetto di quella individualità della felicità della quale mi pare tutti gli studiosi siano costretti a prendere atto e che, tra l’altro, rende così difficile quella definizione che dovrebbe porsi come cardine di qualsiasi attività avente per oggetto lo scambio del prodotto felicità, e così aleatorio quello di tipo “economico”.
Acquistare la felicità è meno difficile che produrla e venderla. L’avere ciascun individuo una sua propria (aleatoria e inaffidabile quanto si voglia) idea di felicità fa sì, da un lato, che ciascuno di noi possa decidere quale tipo di acquisto, di quale prodotto, in quale momento e dove effettuato, comporti la nostra felicità. Dall’altro, rende quanto meno improbabile che uno o più imprese possano decidere di “produrre e vendere Felicità”, poiché nessuna ricerca di marketing appare, al momento, in grado di fornire al produttore conoscenze tali da consentirgli di rivolgersi utilmente al mercato producendo quantità di prodotto in grado di consentirgli profitti interessanti [10].
I contenuti delle “felicità” sembrano disegnarsi di volta in volta, mutare di momento in momento. E questo “di volta in volta” che caratterizza le scelte dell’utilizzatore, mi pare, assieme alla assoluta riferibilità al singolo, concorre a qualificare ulteriormente “le felicità” certamente, probabilmente anche “la Felicità”. Non sono io il primo e non sarò l’ultimo a riconoscere che la sola cosa sicura in tema di felicità è che chi si dichiara felice

La qual cosa fa del “tempo” uno degli elementi costitutivi la felicità Non mi interessa “quanto” questo tempo sia, quale ne sia la durata: si tratta di una valutazione “umana” e potrebbe durare da una frazione di nanosecondo ai novanta – cento anni di durata della vita di un soggetto: non cambierebbe nulla. Si è felici (si può esserlo) per tutto il tempo per il quale si ritiene di trovarsi in quello stato, ma non “per sempre”.
Ma c’è di più: dal punto di vista del “produttore” di “Felicità” e di “felicità” l’essere il prodotto frutto di valutazione significa la possibilità di operare nella costruzione di una “cultura” orientata a fornire ai singoli gli strumenti opportuni per decidere cosa possa a ciascuno di loro dare felicità e cosa, alla fine, gli consentirà di attingere alla Felicità.
Si tratta evidentemente di un fatto anche rilevante sotto il profilo economico. Produrre questi elementi conoscitivi orientati ad una certa idea almeno di “felicità”, quella spicciola, quella alla portata di ogni individuo, è un costo, ed un costo importante. Ma è un costo “formativo” che dovrebbe consentire investimenti assolutamente produttivi e risparmi imponenti. Perché, come accade per ogni altro Valore, è importante che gli individui conoscano i limiti dei diritti e dei doveri e dunque anche quelli entro i quali possono ragionevolmente sperare di essere felici.


4. E siamo alla felicità delle Nazioni: un equivoco o, forse, un pio desiderio probabilmente destinato a rimanere tale in un mondo, quale è il nostro, che non sa cosa la Felicità sia ma che ha in qualche modo nozione abbastanza chiara di cosa siano “le felicità”. E le insegue disperatamente, tanto che si potrebbe anche sostenere che inseguire la Felicità può divenire di per sé causa di infelicità. Comunque sempre, quando si parla di felicità, si è di fronte ad una valutazione personale estensibile, forse, ad un gruppo soltanto nella misura in cui ogni singolo componente del gruppo riconosca il prodotto sinergico e su di esso esprima l’identico giudizio. Magari anche con intensità diverse (anche se non sono molto convinto di questo) dichiarandosi più o meno felice di prima o di altri, contemporanei e non.
Si dà il caso che una “nazione” o uno Stato oppure, a maggior ragione, l’insieme degli Stati risentano e non possano non risentire di questa situazione. Miliardi di persone nel mondo, organizzate in modo diverso; dotate di culture diverse; aventi ciascuna una propria scala di bisogni; costrette a competere per la soddisfazione dei bisogni individuali; credenti ciascuno in un proprio Dio oppure ciascuno non credente in modo diverso, e chi più ne ha più ne metta; miliardi di individui che non sanno cosa sia la propria “felicità”, non si può pensare sappiano e sappiano perseguire “le felicità” di gruppi ai quali tanto meno si sente di appartenere quanto più sono ampi e anche fisicamente lontani.
Non solo. Un qualsiasi gruppo non ha in proprio un’anima, non una intelligenza, non dispone di sentimenti se non in quanto gli si attribuiscono anima e intelligenza e sentimenti che null’altro sono se non estensioni e mediazioni di quelli dei singoli componenti.
Tra le poche cose delle quali v’è certezza quando si tratti della felicità è che essa sia per sua natura un modo di essere, un modo di sentire, un sentimento, appunto.
Allora: di quale felicità si parla, quando si abbia a riferimento “un gruppo”?
Il mio dubbio è che sempre, comunque e senza eccezioni quando si fa riferimento alla felicità di un gruppo (delle Nazioni), s’intenda “la capacità del gruppo di soddisfare al meglio i bisogni che esso ha assunto come propri” e che null’altro sono se non la personalizzazione di gruppo degli elementi comuni ai bisogni di cui sono portatori i singoli componenti. Una nazione, in altre parole, ammesso che possa avere sentimenti, è “felice” (o dovrebbe esserlo) quando riesce a soddisfare quei bisogni di cui sono portatori i singoli ma che essa ha assunto come propri, e quindi per questo ha reso diversi.
E a questo proposito mi sembra di poter notare come, di solito e nella più ampia generalità, per la soddisfazione di questi bisogni sono a disposizione prodotti acquistabili e come una buona parte delle possibilità di acquisizione di questi dipenda dalla quantità di risorse a disposizione dei singoli e della comunità in quanto tale.
La Nazione “acquista” la propria felicità.


5. Dunque, “le felicità” si possono comprare. Forse, non “la Felicità”. Fatto salvo che rimane a mio parere irrisolto il problema della sua definizione, che la felicità (quella con l’iniziale minuscola) si possa comprare mi pare assolutamente indiscutibile. E che chi è più ricco possa comperarne dosi maggiori e tipi diversi mi sembra altrettanto ovvio.
Il senso, nella pratica, appare questo:


Anche con quelle risorse che vanno sotto il nome di danaro il quale, pertanto, un po’ almeno di felicità sembra poterla acquistare. Forse, ancora e almeno per ora, non la “Felicità”.


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[1] Felice: chi è pienamente appagato nei suoi desideri. Felicità: condizione, stato di chi è felice e pienamente appagato. Così lo Zingarelli. Banale servirsi di un normale dizionario? Ma se si guarda ai risultati dei numerosi studi in materia, condotti sia da economisti che da psicologi e da scienziati della società ci si accorge che l’elemento che li accomuna è sempre il riferimento ad una “assenza di situazioni qualificabili come insoddisfacenti”. Assenza di malattie (S. LEBERGOTT, Pursuing Happiness, Princeton University Press, Princeton 1993); mancanza di situazioni spiacevoli nel lavoro, di limitazioni alla libertà (rispettivamente B. FREY – A. STUTZER in Maximising Happyness, Università di Zurigo, 2001 e R. VEENHOVEN, Freedom and Happiness: a Comparative Study in 44 Nations in the Early 1990s, Oxford University, 2000).
[2] Mi pare essenziale ricordare che qualificare la felicità come “prodotto” o “linea di prodotti”, al di là della affidabilità del ragionamento (che può essere o meno condiviso così nel metodo come nei risultati) non costituisce una “definizione della felicità”. In questo senso, non è definizione l’affermazione di Aristotele il quale, nella sua Etica Nicomachea parla della eudemonia come fine ultimo e quindi come “causa” . La “causa”, a mio parere, definisce il fenomeno (la compra- vendita è descritta dalla sua causa, costituita dalla scambio di cosa contro prezzo) e per questa causa si distingue da tutti gli altri accadimenti o azioni (la causa della compravendita la distingue da ogni altro tipo di scambio. Dalla donazione, ad esempio, nella quale il prezzo, almeno come comunemente inteso, è assente). Ora, che il raggiungimento della felicità possa essere il fine ultimo dell’umanità e dei singoli è ipotizzabile, ma non mi pare che si possa credibilmente affermare che questo essere “fine ultimo” descriva la felicità e la distingua da qualsiasi altro obiettivo che la persona o il gruppo o l’umanità intera potrebbe porsi ed effettivamente si ponga.
[3] Da questo momento in poi, scriverò “Felicità” (con l’iniziale maiuscola) ogniqualvolta mi riferirò alla linea di prodotti; userò invece l’iniziale minuscola e dunque scriverò “felicità” quando mi occuperò delle singole componenti generate dall’utilizzo dei prodotti acquistati per soddisfare i diversi bisogni. L’iniziale minuscola identificherà così, almeno in parte, quel senso di appagamento (in genere momentaneo) che l’acquirente prova già alla sola idea di avere individuato il prodotto che gli occorre e del quale gode per il tempo che l’acquiescenza della penosità provocata dalla intensità del bisogno gli consente.
[4] Forse una anticipazione: tutti noi sappiamo che uno degli obiettivi della comunicazione pubblicitaria attorno ad un prodotto su di un mercato è quello di prospettare “felicità” a chiunque si determini all’atto di acquisto. Una “felicità” che deriva da due componenti: l’acquisto in sé e il successivo utilizzo del prodotto.
[5] Attenzione: “adatto allo scambio” non significa che lo scambio effettivamente si verifichi, come non significa che si tratti necessariamente di scambio economico e neppure che il rapporto di scambio implichi più soggetti! Vedasi in proposito il mio Marketing e comunicazione nel terzo millennio, FrancoAngeli, Milano 2004.
[6] È proprio necessario ricordare che non esistono prodotti inutili? Il concetto di utilità essendo quello di capacità di cancellare stati di insoddisfazione, quello di “inutilità” è il suo contrario. L’incapacità, appunto, di annullare in tutto o in parte gradi di penosità. Il che può esser vero nel rapporto tra quel determinato prodotto e quel determinato bisogno, ma solo in questo senso. Per il resto, qualsiasi prodotto ha una sua specifica utilità, e non può, dunque, essere definito intrinsecamente inutile.
[7] Non ha alcuna importanza, dal punto di vista delle decisioni di acquisto, che il bisogno sia reale, oggettivo. Basta che il soggetto creda di migliorare il proprio stato acquistando un determinato prodotto, e l’acquisto, se le altre condizioni sono presenti, avviene.
[8] Vedasi il mio Il Marketing e la comunicazione nel terzo millennio, cit., p. 59 e ss.
[9] Il fenomeno della partecipazione del consumatore o dell’utilizzatore alla produzione del bene o servizio che gli potrebbe servire e che potrebbe acquistare non dovrebbe essere ignoto: tutte le ricerche quantitative e qualitative (nelle quali, ripeto, per troppi l’attività di marketing si esaurisce) sono dirette (anche) ad identificare le volontà, i desideri, le aspirazioni di quella che si spera diventi “la domanda” ed a produrre beni e servizi aventi le caratteristiche che il processo di interpretazione attuato dai ricercatori ritiene essere quelle “reali”, “volute”, “rispondenti alle esigenze del mercato”. Nel caso del prodotto chiamato felicità, il “consumatore” partecipa, a mio parere, attivamente, direttamente (e non per interposta persona, come avviene per la stragrande maggioranza degli altri prodotti) al processo produttivo.
[10] Una impresa deve per forza di cose cercare di rivolgersi a “gruppi” prima ancora che ad “individui”, perché nel gruppo è possibile realizzare quel “miglior rapporto” tra quantità, costi e prezzi di vendita che consente di creare profitto. Questo non significa che l’individuo in quanto tale non sia importante: alla fine, è sempre la persona singola ad effettuare l’acquisto, quando non anche a deciderlo. Ma se una impresa parte dal singolo e per ogni persona cerca di produrre, inizia un processo impossibile a sostenersi, anche perché se si ha riguardo ad ogni singola persona non sarà mai facile produrre bene e servizi vendibili anche ad altri. Al contrario, se si individuano correttamente gli elementi comuni ad un gruppo, è facile – anche troppo, talvolta – indurre il singolo all’acquisto. Questa è la ragione di fondo che mi ha sempre indotto a ragionare – per esempio – in termini di categorie socio-economiche piuttosto che in termini di stili di vita. Questi ultimi possono essere – e in genere sono – tanti quanti sono i componenti di un gruppo di riferimento. Le prime, invece, sono ciò che i singoli hanno in comune.
[11] Un esempio per tutti, che spero non blasfemo. Cristo è morto felice sulla croce. Felice perché la sua missione terrena stava per compiersi secondo i disegni del Padre, condivisi dal Figlio; e felice perché consapevole che il risultato finale sarebbe stata l’Eterna Felicità. E le risorse impiegate per tutto questo sono state “tutte quelle di cui – come uomo certamente – disponeva”. Il sacrificio della vita è anche per noi uomini il massimo dell’impiego di risorse in uno scambio in genere intrapersonale.
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