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Un pensatore in conflitto con il proprio tempo

FRANCESCO MERCADANTE
Articolo pubblicato nella sezione Girard, filosofia e politica

Che cosa dire di René Girard a quasi tre anni, ormai, dalla sua morte? A questo tema voglio dedicare pochi pensieri da politologo e filosofo del diritto, al fine di interagire con un pensiero che pur sempre sollecita e smuove risposte profonde, pur non apparendo sempre capace di procurarcele. La tesi di fondo di Girard è la centralità ricorrente del capro espiatorio, su cui si possono convogliare le tensioni interne, i confronti e i contrasti dovuti ai rapporti mimetici che espongono i membri di ogni comunità umana alla rivalità autodistruttiva.
Un lavoro dunque il suo sul conflitto, e sul modo in cui gli umani abitualmente lo risolvono. Un pensatore del conflitto, ma anche un pensatore in conflitto. A colpirmi, nei suoi scritti, è la figura dell’intellettuale in perenne contrasto col proprio tempo, sempre prendendo le mosse dal suo “pensiero unico” del capro espiatorio. Ma che cosa può dire, un pensiero di questo tenore, sul nostro tempo, e sulla politica che dovrebbe costituirne il riferimento collettivo, ormai sempre più problematico e planetario?
Mi torna in mente un’intervista rilasciata a un giornale italiano nel 2008, da cui mi piace partire per la sintesi di alcune tematiche che mi sembrano ben rappresentare il carattere di uno studioso relativamente isolato in lotta con la sua epoca. È uno scritto d’occasione ovviamente, come al Girard degli ultimi anni poteva accadere (prima di giungere al silenzio stampa degli ultimissimi anni). Incognite sull’ecosistema e sordità della democrazia: questi i pensieri ultimativi dell’intervistato. In questa occasione Girard riassume il suo pensiero guardando verso il futuro, ma opponendo alle statistiche dell’ottimismo il suo radicale ripensamento dell’antropologia e della psicologia culturali salite in auge nel primo Novecento. Qui l’intellettuale avignonese allarga le sue dichiarazioni ed estende la sua idea di capro espiatorio all’intero pianeta. Quello che a Girard fa paura è il «terricidio», preannunciato dai bagliori di un uragano che si aggrava e si avvicina senza che i «grandi» se ne diano pensiero. Eccolo perciò, dopo che si schiera apertamente contro la «realtà del presente», sollevare severe imputazioni contro lo spirito pubblico e gli stessi ordinamenti democratici dei paesi più civilizzati, responsabili, a suo giudizio, di «tirare avanti» senza una visione chiara delle scadenze in calendario e fuori.

«Un esempio di colpa?» [gli domanda l’intervistatore Tommy Cappellini]. E René Girard di rimando: «pensiamo, nell’ultimo mezzo secolo, all’eclatante problema dell’ambiente. L’entomologo Eduard O. Wilson ha verificato come le specie spariscano al ritmo di una ogni nove minuti. In questo momento non c’è alcun segno che questa sparizione della vita rallenti. Anzi, sembra accelerare. [...] A quanto pare, contrariamente a ciò che pensava Freud, la coscienza dell’errore non è stimolo a migliorarsi. Il fatto che non riusciamo ad osservare i comandamenti di Dio dovrebbe essere considerato un fallimento dell’uomo, ma non vedo una reazione di questo tipo. Oggi siamo lontani dalla cristianità. L’uomo dovrebbe accettare il fatto di essere considerato colpevole, ma fa come gli struzzi, infila la testa sotto la sabbia» (Girard 2008).

Capri espiatori ecologici, dunque? Viene da chiedere che cosa potrebbe dichiarare in proposito Darwin. Si può condividere tanto o poco, come che sia, ma in ogni caso si sente forte l’allarme, la chiamata a una presa di coscienza, a una reazione. Non tutto però risulta chiaro, a una riflessione più ponderata. In ogni caso per Girard c’entra l’azione disgregatrice del cristianesimo che, svelando il capro espiatorio in Gesù Cristo, debella l’antico sacro che lo copriva e porta alla luce del sole le colpe dell’uomo. Nel rapido profilo biografico, tracciato dall’intervistatore (al prezzo delle necessarie, ma infine redditizie semplificazioni), i tratti più salienti dello scrittore avignonese ottantacinquenne sono sbozzati seguendo il filo di una inchiesta di più largo respiro, da manuale della «teoria mimetica»: «come sopravvivere senza divieti e senza capri espiatori? È questo il problema vero, ed è appunto per non affrontarlo che si perpetuano i riti dell’infrazione, si gioca ai grandi trasgressori ...». Sollecitato dalle domande, Girard si irrigidisce nella denuncia, tanto che l’intervistatore si sente autorizzato a concludere: «intorno a questa questione [«come sopravvivere ...»] ruota tutto il suo pensiero: e ci ruota con urgenza anche stilistica, attraverso innumerevoli scritti, maggiori e minori».
Danno più ampio sviluppo alla materia, peraltro non soltanto informativa dell’intervista, due dense riflessioni ulteriori, che nulla hanno perduto della loro attualità, e che meritano un rapido esame, riferito alle implicazioni politiche della prima e a quelle antropologiche della seconda.
In base a quanto obbietta Girard, la «crisi dei valori» paralizza la spinta dei paesi maggiormente industrializzati, restii a impegnarsi in uno sforzo di volontà comune, che si trasformi in decisione politica mondiale, assunta dalle maggiori potenze politiche, di opporre un argine all’imminenza della catastrofe:

dubito che l’avvicendarsi generazionale porti ad un sufficiente cambiamento politico. Il motivo è ovvio: prendere misure concrete significherebbe diminuire la produzione. Nessun amministratore eletto potrebbe essere disposto a fare una cosa del genere, per l’elettorato potrebbe essere molto disdicevole. Questa democrazia, alla quale siamo molto legati, è il peggior regime possibile per risolvere problemi come l’ambiente, e molti altri, che per la prima volta si pongono nella storia umana.

Se è Girard a dire queste cose sui regimi di democrazia, il meno che si possa chiedergli è di istruirci sulla svolta ecologista di altri e più efficienti regimi. Detestabili le difese d’ufficio della democrazia, che peraltro sa difendersi da sola. Dove i movimenti ecologisti, come ad esempio in Italia i no-Tav, si battono con le armi della «disobbedienza civile» (a parte qualche incidente, ai confini della pericolosa ambiguità della «lotta armata»), la risposta dello Stato di diritto non è l’indifferenza; e neppure il quod scripsi scripsi ripetuto battendo il pugno. Ma non può essere, fatte salve le referenze di una volontà istituzionale (partiti, parlamento, governo centrale e regionale), suffragata dal consenso di un’ampia maggioranza, neppure la resa (cfr. Mercadante 2004).
Girard può alzare pure i toni e lanciare le sue frecce avvelenate contro la funesta combinazione di agnosticismo liberaldemocratico, economia di mercato e “civiltà materiale”: la democrazia ne prenderà atto, facendo da tramite verso i popoli, i grandi popoli. Sono questi, infatti, i veri soggetti della presunta o reale refrattarietà. In Cina la democrazia non c'è, ma se il dragone dell'apocalisse, un brutto giorno volerà su una vetta, dalla quale assistere alla fine dell'uomo planetario, «responsabile» di «terricidio», a partire dai misfatti noti di Hiroshima e di Chernobyl, senza contare gli ignoti, l'accumulo di scorie industriali, rifiuti tossici, gas di scarico e via dicendo - se il dragone, si diceva, punterà sul tetto del mondo, non ha scelta: la sua destinazione è il Tibet.

E per quanto riguarda la seconda riflessione, eccola, dettata d’un fiato facendo eco all’intervistatore, che dice: «si vede in letteratura un iper-realismo pornografico del tutto privo di magia artistica, dovuto forse alla mancanza di storie vere. Philip Roth che dettaglia sgradevolmente per pagine la morte del padre ...». E, come Girard prosegue:

… fenomeno bizzarro, dovuto alla psicanalisi e alla sua influenza non solo nell’arte.
Negli ultimi tempi ci stiamo accorgendo di aver lasciato troppo potere all’analisi quando è solo un modo per prendersi in giro, senza tenere conto di ciò che ci circonda davvero. È nociva tutta questa enfasi data ai genitori, per esempio, quando l’influenza del mondo esterno sull’essere umano è molto più importante di quella della famiglia.

Non si finirebbe mai di ringraziare Girard per ciò che di «ben pensato», detto à la Pascal, ci insegna sulla psicanalisi; come pure, coerentemente e simultaneamente, per il suo rifiuto di fare un giro di cortesia nel salone degli specchi. I padri? Non sono, di là del medio termine, meno figli dei figli. Di che cosa debbono rispondere? Di aver generato? O di non averlo fatto abbastanza? O di non volerlo e saperlo più fare?
Pensieri d’occasione a parte, ecco il maestro francese alle prese, fra le molte altre cose, con la complexio oppositorum, sul filo teso di tutte le situazioni in cui gli estremi si toccano, situazioni famigliari al retaggio biblico da cui il pensatore avignonese prende le mosse, tornandovi sempre. Gli estremi della complexio oppositorum si toccano in Abramo, che spera contro la speranza; si toccano in Mosè, «figlio della fortuna», che riscatta il suo popolo traversando il mare sull’asciutto (e mai paradosso è stato più istruttivo, se è vero, come è vero, che Mosè ha coniugato il mare con l’asciutto).
Viene dalla stessa fonte il culto per gli ossimori, antidoto il più efficace ai sillogismi. Girard li colleziona come opere d’arte, si intenerisce ammirando e contemplando la sequenza, una vera e propria suite di ossimori, adunata da Shakespeare per Giulietta (Girard 2012, p. 49), che li canta a Romeo, homo duplex, perché tutto sia detto e nulla taciuto nell’imminenza della tempesta, che spingerà verso la catastrofe il loro amore.
E anche noi ci sentiamo allora nell’imminenza, o già nei soffi rapinosi, della tempesta planetaria da cui non si può scappare, senza più l’ausilio, anzi la consolazione, bisogna pur dire, dei versi di Shakespeare.
Ma c’è un altro aspetto che mi sovviene a tale proposito, ed è quello collettivo, che più che mai mi richiama il testo biblico su cui Girard ha così a lungo insistito, e al quale ho già fatto cenno. Non v’è dubbio che la Bibbia abbia da dirci qualcosa al riguardo, visto che parla sempre di popolo eletto, ancorché non in chiave così direttamente politica. E pur tuttavia politologica, se la politica ha bisogno della teologia, come Schmitt non si stancava di dire, e in chiave oltre tutto polemologica nel caso biblico, visto che le sorti dei popoli anche nella Bibbia si decidono con le battaglie, alle quali il Dio di Israele partecipa, da alleato quando ha deciso di parteggiare per la sua sposa comunitaria, oppure da spettatore punitivo o passivo, allorché la sua sposa lo ha deluso e bisogna impartirle severe lezioni di pedagogia teologale.
Dobbiamo a Girard, come si sa, il distacco traumatico del «vero Mosè», quello di Freud, demistificato, destoricizzato, recuperato alla comune mediocrità di una tribale «lotta per la liberazione» senza miracoli e senza terre promesse (a colmare la deficienza di Freud provvederà poi artigianalmente Thomas Mann), dal «Mosè vero», il profeta mandato da Dio presso il suo popolo, l’Israele eterno della Promessa, dell’Alleanza, dell’Elezione.
Girard esalta la Bibbia come grande incunabolo del capro espiatorio, e tuttavia non dice molto su questo aspetto teologico-politico che essa presenta fin dall’inizio, con Mosè e con la storia dell’esodo. Il suo Mosè serba tracce del Mosè freudiano, come capo ucciso dal suo popolo, di cui a questo punto il Mosè combattivo e combattente rischia di essere la proiezione, la metamorfosi leggendaria. Eppure, c’è un altro aspetto che a me interessa di questa storia di fondazione di Israele e, alla lontana, dell’Occidente.
Nel momento profetico della sua prova di forza contro il faraone, Mosè, il Mosè “storico” (della Historie perlomeno, non necessariamente della Geschichte), impugna una verga, non una spada, con la stessa mano pontificate con la quale scriverà più tardi le Tavole della Legge. Non fosse per Dio, e quindi per la comune fede in Dio, dei figli d’Abramo, quella verga produrrebbe solo un sibilo nell’aria, come quello del pastore che colpisce la pecora per tenere unito il suo gregge. E invece con quella verga in mano il profeta-pontefice fende le acque del Mar Rosso, camminando sull’asciutto, a segnare la vittoria della terra sul mare, si direbbe. L’onda si ritira, e alte pareti si levano come dighe sulla destra e sulla sinistra. Nel mezzo, di corsa, passa Israele, ma faticando col passo degli ultimi, donne, vecchi, bambini, zoppi, ciechi, disabili. Non è, insomma, una Cavalcata delle Valchirie. Ogni tribù porta con sé tesori, armenti, merci, tende e impedimenti vari, al fine di assicurarsi la sopravvivenza da un giorno all’altro.
Approdati all’altra riva, il loro gaudio trabocca da tutte le parti. Non c’è però nessuno ad aspettarli, sono finiti nel deserto, canteranno e faranno festa, stringendosi e mescolandosi tra tribù e tribù. In primo luogo, li esalta la vittoria sul tiranno, sommerso dai flutti e perito con tutto il suo esercito ed il suo mondo. Hanno vinto gli umili, marciando a piedi, con nulla indosso, tranne qualche provvista. Una vittima collettiva si salva. Niente più carri e cavalli, né cavalieri. Sotto i loro occhi la vittoria si spiega come un ampio scenario di vita, non di morte. Israele porta come lo scettro la «giustizia di Dio in questo mondo»: e conquista la libertà, vale a dire la Terra Promessa.
In secondo luogo, ma è soltanto l’altra faccia della medaglia, l’esodo non finisce lì; l’esodo non finisce mai. Dio ti chiama, ascolti la sua voce, ma i tempi non sono ancora maturi. Scatterà soltanto un millennio (non cronologico) dopo Mosè la plenitudo temporis.
Ma, allora, che cosa trarne, ai nostri fini, ricorrendo agli strumenti ermeneutici girardiani? Tra la teologia verticale del Dio di Israele e la politica terrestre del faraone, che cosa ci vuole dire la verga di Mosè che fa attraversare il Mar Rosso? Che differenza c’è tra il Mosè dell’esodo e - poniamo, e per andare in terra tedesca - il pifferaio magico della fiaba dei fratelli Grimm? Il timore è che, su questo, lo Girard polemologico e polemizzante rimanga in silenzio, non ci fornisca strumenti con i quali orientarci, nelle guerre antiche e moderne.
Conversando anni fa con Maria Stella Barberi, non ricordo che cosa di intenzionale o preterintenzionale abbia io sentenziato, nel corso di un dialogo, che tocca, di sfuggita, tra i vari argomenti, anche il «cristianesimo senza teodicea». La collega sul momento non reagisce, ma la sua replica mi arriva più tardi, in una lettera, con una garbatissima messa a punto, che interpreta in chiave girardiana “e” schmittiana il tema centrale del rapporto “giusto” da raggiungere tra uomo e Dio:

Nell’eterno rapporto mimetico-rivalitario con Dio, dal quale l’uomo non si libera, che è quindi una sorta di ostacolo sempre proposto dall’antropodicea, io non leggerei il limite di un cristianesimo senza teodicea, ma proprio, come per l’obbedienza di Giobbe, la testimonianza dell’inestirpabile bisogno di legittimazione di ogni individuo (giusta la sentenza schmittiana), che aspira ad essere riscattato dalla colpa e sostenuto nella pena; così come nel Crocifisso dei messinesi (come anche nella Madonnina del Porto!) l’attesa del compimento di quella antica ambizione (Lettera del 18 maggio 2009).

La teodicea avrà le sue pecche, ma neanche la cosmodicea può dirsene immune: specie se ripensata «dopo Auschwitz». Se Girard, con il suo antropologismo, modernamente ci toglie la prima, sembra al contempo chiederne un disperato recupero tramite un’antropologia che rivela di essere una demonologia, ossia una sorta di antropodicea negativa: peccato che l’arrivo della seconda, cosmodicea o teologia negativa, non basti a compensare la perdita della prima teodicea, col risultato di restare sospesi, vuoi come credenti, vuoi come non credenti. Un credente, con forti riserve sulla teodicea, ma anche sull’antropodicea, legge come un controcanto romantico, nello stile del romanzo popolare, la Leggenda del Grande Inquisitore, e a questo punto se ne innamora, perché dice già tutto, senza bisogno di teorie, né di attualizzazioni a ogni costo. Nella successione convulsa degli atti di quel processo, infatti, il maligno occupa la scena, indossando, per abiti di scena, i paramenti ecclesiastici dei prelati di Santa Romana Chiesa, ostinatamente tolemaici ancora nel XIX secolo. Amministrano la provvidenza con gli apparati liturgici del mistero e del miracolo, regolati sull’esercizio sacrale dell’autorità. E Cristo? Se ne sta sulla croce. Il Cristo di Dostoevskij, nella Leggenda, preferisce il silenzio, come colui che sulla croce ha detto solamente sette parole; e ora, in presenza dell’Inquisitore, di parole non ne proferisce neppure una. Egli rimane infatti nell’ombra, non perché non abbia nulla da dire, ma perché, pur impedito, il suo dire va oltre ogni dire. Tace perciò nella coscienza del cristiano di rito romano, che ha Dio, ma non ha la libertà; e tace nella coscienza dell’ateo, che ha la libertà, ma non ha Dio. Come mostra bene Stefan Zweig, il cristiano Dostoevskij si irrigidisce fino allo spasimo, nella lotta contro i demoni del suo tempo (che non sono più quelli del nostro tempo), piegandoli e incatenandoli all’albero della croce, ma facendosi forte di un Dio-idiota che non ha niente da dire, e meno che mai le tre parole fatidiche: ego vici mundum. Il mondo dunque vince Dio, e in quantità sempre più spaventose di vittime inermi? O, viceversa, è questo lo strano e terribile modo della vittoria di Dio? Girard ci mostra, e dimostra, entrambi gli estremi. L’unica glossa che mi permetto di fare è che noi ci troviamo in mezzo, in termine medio, a dover osservare, capire, subire.
Poi però Hegel cala, come un asso nella manica, Napoleone - ne sia reso merito al suo storicismo - proprio sul tavolo da gioco dell'antropodicea: ed ecco il suo razionalismo accendersi di una luce· mistica al cospetto del «dio in terra», creatore di tutto il moderno «mondo umano della storia» (Vico e Capograssi): mondo umano «scritto» e vissuto dai popoli come se lo sono scritto, fra patto sociale, codici, contratti, dichiarazione dei redditi, ricevute fiscali, e via dicendo. Si conta ad Austerlitz un popolo di morti, per circa centomila teste. Ma non ci sono morti che bastino, se quello è il prezzo della grandeur, cioè della «grande politica», cavata con un parto cesareo dalle viscere della piccola politica. Hegel esalta il sacrificio a ciglio asciutto, perché tanto, che cosa sono gli Stati, se non tori nell’arena? Bellum manet, dura fino alla fine di un mondo che non finisce, perché il tempo né lo previene, né lo contiene. Senza un così ostinato e insieme maccheronico ottimismo, principati e potestà del Terzo Reich non sarebbero arrivati, nel Novecento delle guerre (Patočka 2008, pp. 132-53), ad incendiare il mondo, disseminando circa cento milioni di morti, tra militari e vittime civili; e senza dimenticare che ad essere buttati tra le fiamme (anzi, nei forni crematori) per primi - terribile priorità antropologica - sono stati gli ebrei. Il Terzo Reich provvede ad organizzare la «soluzione finale», senza rendersi conto – inutile spargere su quel genere già segnalato di ottimismo teutonico il sale greco dell’ironia – che in quel suo «cominciare era già il suo finire».
Un così armonioso «trionfo della morte», della mors immortalis, conforme alla recuperata tradizione ottimistica dell’epicureismo lucreziano, così come sta bene a Spinoza, a maggior ragione sta bene anche a Hegel, pronto ad ammonire i pavidi, che nulla c’è di più ottuso, nella sua irrazionalità, e nulla di più barbarico, anzi di più «donnesco» (per Hegel è la stessa cosa) nella sua antistoricità, che «morire dalla paura di morire». Chi si salva dalla paura di morire, ha vinto, è un leone. Ma chi si salva dalla paura di morire? Gli antichi lo sapevano, anche Dicearco da Messina ce lo ha detto, chiamando in causa Priapo, il dio che, conforme agli ordini di Pan, vigila sul segreto dei sepolcri, dove Eros e Thanatos covano insieme il germe della vita immortale. Perché mai appellarsi al sesso? È sottoterra che la morte si rovescia nel suo contrario, non perché il defunto non vi diventi polvere, ma perché anche dietro la nascita non c’è che terra, argilla, humus, trasformazione, ri-produzione. Gli antichi si consolano battendo sulle lastre delle tombe, e applicandoci sopra l'orecchio per ascoltare se qualche cosa si muove, se si avverte qualche ronzio, qualche rodìo. Beati loro, si contentano di poco, forse di niente, ma si aiutano con la fantasia e insistono sulla infinita fecondità dialettica della carne che si fa spirito: ed Hegel li prende in parola, ci mette però del suo, detto ad onore della sua genialità, e sistema le cose rovesciandole su se stesse, senza mai domandarsi, se il germe è pari a nulla senza l'onnipotenza del divenire, a rigor di termini, come poi penserà con più fortuna Darwin, questo divenire, nella sua onnipotenza non solo può, ma deve, essersi disfatto del germe. «Custos sepulcri pene estricto deus / Priapus ego sum. Mortis et vitae locus» (F. Buecheler, Carmina latina epigraphica,193, 1-2).
La fine è dunque un inizio? È quanto dice il cristianesimo, se, alla fine, è sempre l’inizio mai sazio del nostro pensare.
Girard ci aiuta a ripensare a tutta questa incandescente materia, a tutte queste incandescenti materie, e bisogna essergliene grati. Condivide con noi però più il problema, i problemi, che la sua, e la loro, soluzione. E allora bisogna continuare a cercare per non disfarci di quel germe che grazie al suo aiuto abbiamo appreso a ritrovare nel suo stesso disfarsi. Così continuiamo a interrogare, per non lasciarci accecare dall’amore nostalgico che sempre abbiamo per gli uni e per gli altri, per non sopravvalutare i padri, o i fratelli, per poterli de-freudizzare.


Bibliografia

R. Girard (2012), Geometrie del desiderio, trad. it. di L. Trevisan, Cortina, Milano.
- (2008), Intervista de «Il Giornale», 5 nov. 2008.
F. Mercadante (2004), Eguaglianza e diritto di voto. Il popolo dei minori, Giuffrè, Milano.
J. Patočka (2008), Saggi eretici di filosofia della storia, a cura di M. Carbone, Einaudi, Torino.



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