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La filosofia politica italiana: la biopolitica e il fuori

LAURA BAZZICALUPO
Articolo pubblicato nella sezione Sulla filosofia italiana

Esiste una specificità della filosofia politica italiana? Qualcosa cioè che la renda diversa da altre tradizioni magari più consolidate e più prestigiose? Ha senso peraltro una tale domanda, oggi, quando linguaggi e culture ‘nazionali’ sono attraversate e addirittura travolte dai processi di integrazione planetaria? Questa domanda esige una risposta che vada al di là della semplice esposizione di quanto praticano coloro che in Italia si professano filosofi politici. E in questo senso imposterò la mia risposta dando conto della corrente di studi alla quale appartengo, la critica della biopolitica e della governamentalità neoliberale.
Il paradigma biopolitico sembra, più del tradizionale lessico politico-giuridico moderno, capace di 'afferrare' fenomeni decisivi del mondo contemporaneo - i flussi migratori di nude vite, corpi spogliati di qualsiasi caratterizzazione giuridica e politica: condizione umana inerme, esposta alla violenza biopolitica della guerra e a quella primordiale della fame; e la reazione razzista che sullo stigma corporeo fa leva o il terrorismo che fa saltare le mediazioni linguistiche per concentrare sull'orrore dei cadaveri decapitati il suo messaggio al mondo 'civile'. Ma quel paradigma fa luce anche sulle tecniche governamentali neoliberali che, al di là dei diritti, organizzano le vite come capitale umano da investire, incrementare e valorizzare nella competizione del mercato.
Cogliere la dimensione epocale della biopolitica comporta riposizionare la prospettiva di analisi nella immanenza della vita concreta, effettuale, nella ricchezza crudele delle sue contraddizioni: vita governata e organizzata fin nei suoi spazi più reconditi e pure capace di inaudita resistenza, che le costruzioni metafisiche tradiscono.
Biopolitica è termine che definisce tanto la fattualità del governo delle vite, quanto l’analisi che scioglie gli assunti veritativi sui quali si annodano i dispositivi di quel governo; dunque è uno stile di investigazione che, nel realismo della diagnosi, mira a restituire la complessità del consenso e del potere che hanno radice nelle soggettività umane vive. È una categoria esposta però, a causa del lemma ‘vita’ che ne è il nodo centrale, al rischio di vitalismo o neonaturalismo: che sono infatti presenti, nella svolta postlinguistica attuale, in alcuni dei pensatori della corrente, euforici cantori della potenza della vita, della forza del desiderio, della potenza della moltitudine. E invece è proprio Foucault, cui risale l’uso critico del termine, ad avvertire che natura e vita sono i perni veritativi dei dispositivi di gestione delle vite, di legittimazione della eteronomia.
Ma prima di addentrarmi nel paradigma biopolitico, è giusto dar conto del fatto che da qualche anno - a partire da uno studio di Esposito, Il pensiero vivente - si parla, in area anglosassone ed europea, di Italian Theory a proposito di uno stile di pensiero che avrebbe tratti specifici dei quali sarebbe possibile proporre una genealogia. È necessario che io dia conto di questa problematica ipotesi di categorizzazione, che sfida facili accuse di provincialismo e autoreferenzialità, per due ragioni. Perché lo specifico della filosofia italiana sarebbe proprio la sua politicità intrinseca; e perché questo carattere che ‘riguarda’ dunque la nostra domanda sulla filosofia politica italiana, trova risposta in una tensione tripolare di politica, storicità e vita. L’Italian Theory riconosce dunque nella vita, bios - sulla scia della definizione foucaultiana di biopolitica come potere che nel moderno slitta dal “lasciar vivere e far morire” al “far vivere e lasciar morire” promuovendo la vita biologica, tra sopravvivenza e benessere - come il tema ineludibile della politica. La vita dunque e la politica sulla vita e della vita.
La filosofia piegata e innestata sulla vita - nella ricostruzione genealogica di Esposito, ripresa di recente da Timoty Campbell e da Dario Gentile - è marcata dalla estroflessione verso il fuori. Da Machiavelli a Bruno, a Vico, a Leopardi e De Sanctis fino (con un balzo non indifferente) a Gramsci poi ai marxisti operaisti e a Negri, e infine, con una vistosa deviazione ad Agamben e allo stesso Esposito - deviazioni che, per Esposito, non smentiscono la categoria stessa, in quanto essa coincide con la differenziazione incessante - il pensiero italiano è approccio al concreto vivente.
Non è questo il luogo per rilevare la problematicità di questo disegno genealogico e di discuterne l’utilità. È interessante che con esso si sia aperto un dibattito che pone l’interrogazione filosofica all’altezza del contemporaneo e delle sperimentazioni concettuali che la grande trasformazione che stiamo vivendo, sollecita. Salvo prendere le distanze dalla pretesa cripto-accademica o mediatica della categorizzazione, che altri, piuttosto che Esposito, ha coltivato. Ciò che vorrei conservare di questo problematico spunto è proprio il ruolo cruciale, per una filosofia all’altezza del presente, della vita concreta, intesa come il fuori, che sollecita e orienta l’interrogazione filosofica.
La matrice di quest’orientamento, a mio avviso, è, piuttosto che italiana, francese ma anche in certo grado tedesca e oggi la sua dimensione è assolutamente globale, largamente diffusa nelle aree postcoloniali dell’America latina e dell’Asia, ma anche nel mondo anglosassone dei Govermentality studies.
Si avvertiva l’esigenza nel contesto europeo, già nei primi anni sessanta del secolo scorso, di una vera rottura dell’ontologia occidentale e di uno spazio di ricerca conflittuale e diverso: così il primo Habermas, che riscopriva lo Hegel jenese della dialettica aperta o la fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty che immergevano nello spazio della vita i risultati più interessanti della critica francofortese: prima del ripiegamento sulla dialettica negativa o la ricomposizione nell'ideale delle pratiche comunicative. Nel panorama storico-culturale italiano del dopoguerra prevaleva il pensiero tedesco, matrice, paradigma e oggetto di studio per filosofi e intellettuali italiani. La tradizione tedesca – i suoi autori, i suoi approcci, ma anche una certa pratica dei testi basata sulla lettura filologica, era, come osserva Judith Revel, cruciale. È il sessantotto a intaccare questo predominio e a spalancare le porte all’influenza del pensiero francese contemporaneo, producendo fruttuose contaminazioni: Heidegger è filtrato da Bataille, da Ricoeur o Foucault; Schmitt è letto con Lefort e con (ancora una volta) Foucault e Derrida; Benjamin e Arendt con Lyotard e Canguilhem; Wittgenstein con Lacan, Nietzsche con Foucault, Deleuze e Derrida. Sempre innestati nella politica e in uno stringente, nuovo bisogno di concretezza e differenziazione. Il pensiero, dirà Badiou, è «dell’ordine del vivente, della creazione, del processo e dell’evento e come tale non può essere separato dall’esistenza» (Badiou 2013, p.16)
L’influenza del Collège de Sociologie o dei seminari kojeviani, la lezione di Althusser contemporanea a quella tanto diversa di Simone Weil sono testimonianze eterogenee di un comune riposizionamento del pensiero che rinuncia all’indagine sulle condizioni di possibilità del discorso vero e di quest’ultimo cerca piuttosto testimonianza e pratica. La verità stessa e l’etica abbandonano il dualismo del normativo - che peraltro domina e continuerà a dominare nel linguaggio comune - per coincidere con la contingenza e la libertà dell'evento, con la soggettività che spezza il continuum, con la pratica testimoniale. Si trasforma il modo di fare filosofia: dalla lettura filologica alla ricerca e invenzione di concetti nuovi (tale è quello di biopolitica o di macchina desiderante) atti a problematizzare (l'espressione è di Foucault e di Deleuze) una realtà radicalmente nuova, un fuori che ci investe, ci trafigge e ci urta. Una realtà che è impossibile catturare con le tradizionali e blasonate categorie e dicotomie del pensiero politico moderno: cittadino, soggetto, Stato, pubblico/privato, libertà/servitù. Al di là delle pretese della Italian Theory, questa feconda ibridazione ricca di slittamenti semantici, marca una discontinuità rispetto sia alla irrigidita tradizione idealistica o positivista o al marxismo ortodosso, sia alla tradizione liberal-democratica bobbiana, che trovava intanto il suo fecondo proseguimento nella filosofia analitica e neocontrattualista anglosassone.
Il fuori è la profonda mutazione dell’orizzonte politico e culturale globale. Nel 1971 quando il dollaro si separa dall’oro, inizia la globalizzazione finanziaria; nel 1975 la crisi del fordismo e delle tecniche keynesiane, crisi del patto costituzionale socialdemocratico e le prime crisi fiscali e del debito pubblico spalancano la strada al monetarismo e al neoliberismo. Crisi prive di Aufhebung, che annunciano una rivoluzione culturale che renderà accettabili inediti limiti di efficienza e di compatibilità da imporre alla democrazia. I fatti, direbbe Machiavelli, impongono il ritmo alla riflessione critica anche se da essa vengono modificati: le istanze libertarie neoliberali producono effetti trasformando le soggettivazioni nella direzione segnata dalla rivoluzione neoconservatrice di Thatcher e di Reagan, ma con ambivalenze inattese.
Di fronte a questa trasformazione del modo di pensare e dei sistemi di valori, quella filosofia che diventerà analisi biopolitica, inaugura una critica della teologia-politica. Da una parte alla teologia schmittiana porta alla luce, con Foucault, una teologia economica pastorale destinata nel tempo a soverchiarla; dall’altra prova a pensare il politico radicalizzando la chiave nichilista del dispositivo sovrano, rovesciandone il significato fino alla implosione.
Il pensiero anti-rappresentativo, anti-trascendentalistico di ascendenza heideggeriana, attraverso Arendt, disegna una pratica politica che non coincide con lo Stato, che non cerca modelli normativi che riconducano la contingenza alla messa in atto di principi di verità, ma che sia - come l'originaria democrazia greca - uno stare insieme e un decidere insieme. Si apre così il fronte teorico della critica alla rappresentanza che è soprattutto critica della rappresentazione, critica della duplicazione rappresentativa nella figura sovrana dell’Uno, della pluralità degli uomini esautorati del loro potere. Questo pensiero incrocia la filosofia della differenza francese che a sua volta difende, contro l’imperialismo logocentrico e statocentrico, una politica della disseminazione e recepisce il contributo cruciale del femminismo della differenza.
Tutto questo e molto altro che non posso qui ricordare, ottiene, per eterogenesi dei fini, un suggello dalla rivoluzione neoliberale stessa, anti-statocentrica e dissolutiva del pubblico nella frammentazione dei poteri sociali ed economici. Deleuze è assolutamente consapevole della collateralità rischiosa tra istanze libertarie delle macchine del desiderio sessantottine e deterritorializzazione del neocapitalismo che decostruisce ogni status e ogni centralità giuridica dello Stato: la decostruzione è un gioco pericoloso ma la spinta differenziante è il forte e ineludibile effetto della stessa modernità individualista e liberale.
Il punto è che questa anarchia viene catturata. Genera rischi e sul rischio e sulla sua gestione assicurativa si concentra la tecnica di governo neoliberale. Come afferma Foucault, il neoliberalismo è liberogeno e liberticida perché promuove potenzialità che generano rischi, che devono essere controllati attraverso un accrescimento dei dispositivi sicuritari e di garanzia. E il perno del controllo sarà il regime di verità economico-biologica attorno a cui si strutturano i dispositivi di selezione e gestione dei problemi: l'umano è vita biologica, lanciata nella competizione naturale che la legge della concorrenza - in una distorsiva interpretazione sociobiologica del darwinismo - regge e governa. Una logica economica - meglio sarebbe dire un ethos economico - (al di là dell'economia propriamente detta della produzione e distribuzione dei beni) presiede alla tecnica di governo. La teologia economica, paradossalmente pastorale in un immaginario di imprenditori di se stessi, affianca e si sovrappone a quella politica, nel suo rovescio. Biopolitica è semplicemente la modalità attuale di governo delle vite nel mondo neoliberale: la vita intera è implicata nel potere, e lo è in modo ambivalente: acquisisce potenza di autogoverno, di responsabilizzazione, investe su stessa, ma è contemporaneamente gestita, orientata, valutata più di quanto non lo fosse mai stata prima. Questo è il fuori: questo è ciò che ci sfida e di questo dobbiamo parlare e pensare.
È indispensabile in questi studi serbare l'ambivalenza dei processi.
L'accusa più frequente agli studi foucaultiani di biopolitica governamentale è di una certa acquiescenza al dato. Il rischio di razionalizzazione è reale. Occorre perciò tenere insieme il discorso biopolitico con la puntuale individuazione del momento storico e della sua contingenza. Solo la storicizzazione radicale rende visibile la relazionalità inesauribile dei poteri governamentali, senza legittimarli: i dispositivi organizzano le prestazioni produttive secondo leggi di ottimizzazione, ma le soggettivazioni prodotte eccedono il disciplinamento che l’ethos organizzazionale impone.
C'è sempre coesistenza di vettori di potere in tensione che utilizzano linguaggi diversi per negoziare posizionamenti imprevisti, potenzialmente differenti. E gli spostamenti che essi imprimono, emergono a posteriori, reattivamente, da singolarità in carne e ossa, contestualizzate ma non totalmente oggettivate, assoggettate ma capaci di deviazione. Vite come quelle che Foucault raccoglie negli archivi nei microracconti degli uomini infami, delle controcondotte anonime eppure incisive, sperimentali e spesso perdenti, ma, contro ogni acquiescenza, impegnate a rivedere la fattualità.
Gli studi biopolitici possono razionalizzare la diagnosi del presente, insistere sull'assetto dei dispositivi che producono soggettivazioni assoggettate e consone al sistema oppure possono, nella ontologia dell'attualità, mettere a fuoco - in quella speciale relazione strategica che è il potere, concetto chiave del discorso biopolitico, mai assoluto e unidirezionale, sempre relazionale - le resistenze, le pieghe, le negoziazioni incessanti. Quest'ultime piuttosto che ad uno scontro frontale tra Bene e Male, tra Verità e Simulacro, tra Giusto e Ingiusto, cui il moderno ci aveva abituato, produce spostamenti, ridefinizioni, micropolitica di controcondotte, che a sua volta modifica, piega il potere.


Storicizzazione e soggettivazioni

Tornando alla genealogia della filosofia italiana delineata da Esposito, condivido pienamente il ruolo fondante di Machiavelli, che segna uno stile di pensiero alternativo al main stream hobbesiano e sovraneista. Un pensiero della contingenza, realista senza appiattirsi sul dato; un approccio che utilizza categorie estetiche, meglio estesiologiche, nella consapevolezza di quanto immaginario, immaginazione ed emozioni non siano sottovalutatili della vita politica: passioni vitali che generano effetti reali, innervando i progetti di vita e i discorsi di verità. Il fuori che sollecita la pratica filosofica è proprio la materialità dei conflitti e l’immateriale dell'immaginazione, della speranza e dell’ansia: il disagio psico-fisico, sepolto sotto un immaginario idealizzante. Occorre pensare l’orizzonte problematico entro cui si differenziano le cose. E problematizzare è - per inciso - l’opposto del problem solving dell'economia di governo.
La traccia machiavelliana del pensiero italiano coincide con una doppia interrogazione: sulle forme del passato e sulla differenza che il presente può introdurre in esse; e sulle forme che assumono (hanno assunto, possono assumere) le soggettività (Revel 2015). Dunque storicizzazione della diagnosi politica, (percezione realistica della contingenza e rivedibilità delle situazioni) e interrogazione sui modi di soggettivazione e sulle forme organizzative delle soggettività, mai presupposte e sempre da costruirsi: questi i termini della questione filosofico-politica, oggi. vE critica del soggetto e storicizzazione radicale di ascendenza nietscheana sono due punti fondanti del lavoro di Michel Foucault.
Ma sulla ricezione di Foucault, che è il perno degli studi biopolitici, si segnano differenze molto significative. Da una parte viene sviluppata (proprio da alcuni esponenti della Italian Theory) la crisi del soggetto e, sulla scia di Blanchot e Nancy, viene pensato lo svuotamento anticomunitario e anti-liberale della comunità, del noi, della volontà di potenza implicita nella categoria stessa di soggetto politico cui si contrappone una comunità inoperosa, a venire, al rovescio di quella identitaria: pura coesistenza di singolarità, singulier-pluriel, che eluda la dinamica di esclusione /inclusione del pensiero politico rappresentativo moderno; dall’altra una più fedele lettura di Foucault delinea un conflitto irrisolto e fecondo tra assoggettamento ai dispositivi biopolitici produttivi di forme di vita e soggettivazione etica e politica che resiste, sfugge alla presa e piega il potere manifestando la sua stessa biopotenza, attraverso contro-condotte e tecniche del sé: soggettivazione contro individualizzazione assoggettata.
Il tempo a sua volta può essere tanto la temporalità fattuale di marca heideggeriana, la estaticità della “vita” oppure è kairos, congiuntura instabile dove si incrociano vettori di potere che l’analisi riapre in direzione della possibile trasformazione.
L'indubbio fascino oltreoceanico delle visioni agambeniane che coinvolgono l’intera storia dell’Occidente nella cifra tanatologica della biopolitica sovrana, è poco compatibile con i corsi foucaultiani della fine degli anni settanta, che riconducono la biopolitica alla governamentalità economica e organizzazionale delle vite. Evidenziano, certo, la dimensione razzista e tanatologica di gran parte della politica contemporanea, ma la biopolitica non è solo questo: nel rovescio di questa cruda e elementare selezione tra ciò che è umano e ciò che non lo è abbastanza, tra il vivente sollecitato a vivere e quello che è lasciato morire, sta l'inclusività illimitata ma selettiva e gerarchizzante del governo economico, del suo modus organizzativo, del suo ethos aziendale. Rovescio del biopotere tanatologico, questo è un potere incrementativo della vita, capace di catturare consenso e di governare le vite dal di dentro: ciascuno viene invitato ad esercitare le proprie potenzialità nell’autogoverno di se stessi, per porsi in condizione di competere nella grande gara del mercato che è l’unica strada per la sopravvivenza e il benessere. E non c'è solidarietà per i deboli e i vinti.
Pensare la vita come pura via, al netto della storia, svuota la concretezza dei rapporti senza i quali la vita - che è già sempre vita storica, qualificata e politica - diventa fuga dai processi di soggettivazione politica nella storia. Fuga, questa sì, tipica di una certa tradizione di filosofia italiana. La vita affermata enfaticamente, panica e neospinoziana, funge piuttosto da invariante strutturale: un trascendentale destituito di individuazione, di eccedenza ontologica, de-storicizzata e impersonale che si ritrae dal punto di attacco del potere anche di quello che resiste. La vita cessa di essere, come è in Foucault, il correlato dei dispositivi di governo e diventa un quid metafisico, spazio illimitato, liscio e privo di attriti sui quali possa innestarsi la soggettivazione politica.
Storicizzare significa che la contingenza come spazio della politica investe le definizioni stesse di natura e vita, messe in campo dalle scienze-pilota della governamentalità: biologia ed economia, portatrici di leggi indiscusse e costanti dell'umano. Storicizzare, dunque, la naturalizzazione del capitalismo neoliberale che lo sottrae a qualunque revisione, anche di fronte a sconfitte plateali nella gestione della crisi. E storicizzare le identità politiche cui siamo assegnati. Queste ultime emergono sempre da processi di soggettivazione: dinamiche di potere (oggi soprattutto potere esperto) che ortopedizzano corpi e vite, ma che sono appunto dinamiche di potere in quanto trovano resistenza: non sono, possono.
Il processo di soggettivazione diventa il cuore dell'analisi biopolitica, perché in esso si istalla tanto il controllo e adattamento governamentale, quanto la costruzione di soggettivazioni meno esposte alla presa del mercato. L'economia è il mezzo, l'obiettivo sono le anime: annunciava Margaret Thatcher. Ed è il caso di crederle: il displacement della politica nell'anima, nella psicofisicità dei viventi, è radicale.


Bibliografia

Badiou A. (2013), L'avventura della filosofia francese, DeriveApprodi, Roma.
Esposito R. (2010) Pensiero vivente: origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino.
Foucault M, (2005) Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano.
Revel J. (2015) Italian Theory: storicità e soggettivazione, in (a cura di D. Gentile e E. Stimilli), Differenze italiane, DeriveApprodi , Roma.



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