1. Premessa
Nel più geografico dei conflitti, la Terra di Israele-Palestina rappresenta il nodo di ogni considerazione – storica, religiosa, culturale e geopolitica – e racchiude in sé tanto il millenario carico di civiltà quanto lo spessore di un'atavica sedimentazione di rancori. Un'inflazione di spazi e di frontiere costituisce l'essenza del conflitto arabo-israeliano-palestinese, che è la storia di una terra contesa da più popoli e con più popoli.
In questo orizzonte si capisce la ragione dei numerosi fallimenti diplomatici riguardanti la spartizione di quella Terra e il paradosso, del resto tipico dell'intero Medio Oriente, implicito negli accordi raggiunti: la soluzione o il compromesso diventano, a loro volta, oggetto di un nuovo conflitto o presupposto per un rovesciamento della prospettiva di pace faticosamente raggiunta. Dialoghi di pace e monologhi di guerra si sovrappongono continuamente nel conflitto arabo-israeliano-palestinese, così che rileggere la storia dei tentativi falliti e degli accordi raggiunti ci restituisce il significato profondo della variabile quantitativa e misurabile dello spazio – oggetto del conflitto – e, allo stesso tempo, permette di cogliere il peso dei fattori strategici e strutturali (le risorse come l'acqua, le variabili quantitative come la demografia, le cui proiezioni dicono molto di più di qualsiasi narrazione), funzionali a cogliere gli scenari futuri.
Per tali ragioni il presente contributo si articola in una prima parte dedicata ai piani di pace falliti, avendo riguardo all'elaborazione dei relativi criteri spartitori di riferimento; in una seconda parte nella quale si analizza uno dei fattori geopolitici determinanti – il nodo del controllo dell'acqua – centrale in ogni possibile accordo.
2. I piani di pace non realizzati e i criteri di spartizione
L'analisi del conflitto arabo-israeliano è anche la storia del fallimento dei tentativi di mediazione e dei progetti di pace. Tuttavia è proprio dall'elaborazione dei progetti di pace, particolari e/o generali, che si può rinvenire l'autentica logica che presiede ai meccanismi internazionali e le coordinate interpretative geopolitiche degli attori coinvolti.
Iniziamo con il primo piano che avrà larga eco nella politica israeliana e che peserà persino nella scelte dei vigenti accordi di Oslo I e Oslo II. Si tratta del Piano Allon del 1967.
Il generale israeliano Allon, dopo la vittoria del 1967, assunse essenzialmente criteri di tipo strategico. Così, prevedeva che a est le aree cisgiordane a forte densità araba sarebbero state evacuate e il potere giordano ne avrebbe ripreso il controllo nell'ambito di una vasta autonomia; la contropartita sarebbe stata la valle del Giordano e la zona circostante il Mar Morto con i dintorni di Gerusalemme, nonché la nuova frontiera israelo-giordana. Mentre, a nord, il Golan sarebbe rimasto in mano israeliana. A sud, il Sinai sarebbe stato ceduto all'Egitto mentre la Striscia di Gaza, "spina nel fianco per Israele", sarebbe restata in mano ebraica. In questo caso già emergevano i due paradigmi di riferimento a base di ogni accordo: il paradigma cosiddetto securitario e il paradigma demografico. Quest'ultimo diventato oggi il fondamentale fattore di potenza (come in seguito diremo) per definire il problema politico e della sicurezza interno ed esterno ad Israele.
Nel 1968, sempre a seguito della Guerra dei Sei giorni, anche il Pentagono, in base a criteri di sicurezza, elaborò un piano senza però preoccuparsi del problema demografico arabo-palestinese nelle zone occupate. Israele avrebbe dovuto annettere l'intera Cisgiordania a eccezione della valle del Giordano al fine di mantenere il controllo della Samaria e Giudea (a quota 990 m) salvo poi evacuare la depressione sottostante (-300 m). Il piano prevedeva, inoltre, l'annessione delle alture del Golan con una banda in più rispetto al Piano Allon, mentre a sud prevedeva il controllo israeliano di Sharm el-Sheikh, all'estremità del Sinai per vigilare l'accesso al Mar Rosso, nonché la zona frontaliera all'altezza di Eilat e della Striscia di Gaza. Il Piano introduceva così il criterio, ancor oggi centrale, del controllo strategico delle risorse idriche e, in particolare, del bacino del Giordano.
Il 1982 si presentò come l'anno dei progetti di pace. Almeno tre sono da ricordare per l'autorevolezza dei proponenti. Il primo piano per comporre il conflitto arabo-israeliano fu definito il Piano di Fez, dal nome della città marocchina dove si svolse il 9 settembre 1982 il vertice dei sovrani e dei capi di Stato arabi (da non confondere con la Conferenza dei ministri degli esteri islamici che si riunì ugualmente a Fez tra l'8 e il 12 maggio 1979). L'espulsione dell'OLP da Beirut, dove si era conclusa la Guerra del Libano, pose drammaticamente il problema del futuro dei palestinesi, del quale aveva parlato, il 1 settembre, il Presidente degli Usa Ronald Reagan in un suo discorso, riproponendo la prospettiva di autonomia del popolo palestinese (non dei rifugiati). Gli Stati arabi, allora, per la prima volta si pronunciarono all'unanimità (con l'adesione degli Stati del "Fronte del rifiuto", esclusa la Libia, assente) per la coesistenza dei due Stati, l'uno israeliano e l'altro palestinese con Gerusalemme per capitale. L'art. 7 del Piano di Fez aggiungeva che il Consiglio di sicurezza avrebbe garantito la pace di tutti gli Stati della regione, ma non nominava esplicitamente lo Stato di Israele, che si sarebbe dovuto ritirare da tutti i territori conquistati nel 1967. La proposta nei dettagli ricalcava quella del presidente tunisino Burghiba, a suo tempo respinta, che prevedeva l'accettazione del Piano di spartizione dell'ONU del 29 novembre 1949. Da un punto di vista strategico la chiamata in causa del Consiglio di sicurezza significava attribuire all'Unione sovietica il ruolo di garante della pace nella regione. Il Piano poneva dunque al centro della possibile trattativa il criterio dei "due popoli, due Stati", eliminando però il nodo centrale su cui si inchioderà lo stesso Piano Clinton (2000-2001): la questione del rimpatrio dei rifugiati palestinesi e del "diritto al ritorno" di tutti i profughi palestinesi secondo la Risoluzione 194 del 1948, vero punto morto di ogni accordo.
L'altro Piano di composizione della questione palestinese-israeliana elaborato nel 1982 è il già citato Piano Reagan, enunciato nel discorso del 1 settembre in quella congiuntura eccezionale che fu appunto l'espulsione dei palestinesi dal Libano. Reagan, pur ribadendo la preferenza per l'autonomia e il rifiuto di uno Stato palestinese, mise in guardia Israele da nuovi insediamenti in Cisgiordania e prospettò due tempi per risolvere il problema palestinese. Nel corso della prima fase di cinque anni, gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza (compresi quelli di Gerusalemme Est) avrebbero avuto «una totale autonomia per regolare le loro questioni» ed eleggere le proprie autorità amministrative. La seconda fase avrebbe visto l'adozione di uno statuto definitivo, in associazione con la Giordania. Il Piano di Reagan fu respinto dalla Conferenza di Fez e dagli israeliani.
L'ultimo piano di pace dell'anno 1982 è denominato Piano sovietico, presentato il 15 settembre a Mosca dal segretario del PCUS Brezˇnev. In linea con la politica diplomatica iniziata nel 1967, il Piano sovietico richiese il ritiro israeliano dai territori occupati e lo smantellamento delle colonie; il diritto di uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gaza al termine di un periodo di transizione di qualche mese, sotto il controllo dell'ONU, per il passaggio dei poteri; la restituzione israeliana di Gerusalemme Est con garanzia di accesso ai Luoghi santi; l'impegno di Israele e dello Stato palestinese a rispettare indipendenza e integrità territoriale; la determinazione di garanzie internazionali, segnatamente del Consiglio di sicurezza. Del piano non si fece alcunché dal momento che USA ed URSS preferirono accordarsi, vista l'invasione israeliana in Libano (Operazione "Pace in Galilea"), per una conferenza internazionale sull'intero Medio Oriente.
Nel 1992, da parte israeliana vi fu la presentazione di due Piani: il Piano Rabin e il Piano Shamir. Il Piano Rabin tracciava «uno statuto d'autonomia per la popolazione palestinese nelle zone maggiormente abitate nei territori e il mantenimento della presenza militare israeliana nei dintorni di Gerusalemme»[1]. Il Piano Rabin era caratterizzato «dalla volontà di garantire una continuità territoriale in Cisgiordania all'entità araba», ribadendo in questo modo la mancata legittimazione del popolo palestinese.
In antitesi al Piano Rabin venne elaborato il Piano Sharon, uno dei falchi del Likud. La particolarità del Piano consisteva nella creazione di zone di sovranità da cedere ai palestinesi. Queste aree largamente autonome, in numero di sette, da strutturare nei punti in cui la presenza araba era a maggiore densità, non avrebbero toccato che in modo del tutto marginale il territorio israeliano strictu sensu. Pur appartenendo all'autonomia palestinese, le grandi città della Cisgiordania avrebbero avuto discontinuità territoriale, sconfinando la zona arabo-palestinese all'interno delle nuove frontiere di Israele. Tale criterio poneva il tema – ripreso e poi applicato ad Oslo e a Wey Plantation – della divisione "a macchia di leopardo" dei Territori autonomi palestinesi, mancanti della continuità e contiguità dei propri confini statuali. La scelta del criterio "a macchia di leopardo" ha marcato peraltro un altro criterio geopolitico decisivo: la differenza tra i confini della sicurezza e i confini internazionali di uno Stato, i quali per Israele non dovrebbero necessariamente coincidere, come se esistesse un'asimmetria spaziale tra territorio dello Stato e frontiere internazionalmente riconosciute. Il ritiro unilaterale dalla Striscia di Gaza (agosto 2005), messo in atto dallo stesso Sharon rappresenta l'applicazione concreta di questa strategia politica israeliana.
3. I fattori di potenza nel processo di pace: l'idropolitica
Accanto ai criteri riguardanti la sicurezza dei confini, il nodo dei profughi palestinesi e il riconoscimento dell'integrità territoriale degli Stati (cui si aggiunge il nodo politico-religioso dello status di Gerusalemme sul quale, tra l'altro, si sbriciola il Piano Clinton e le resistenze di Arafat) è funzionale al nostro contesto geopolitico di riferimento analizzare il peso delle risorse strategiche. In tale piano il possesso e il controllo dell'acqua rappresenta un fattore determinante di sicurezza, al pari della struttura militare o di posizioni strategicamente vantaggiose.
Nel caso specifico del conflitto arabo-israeliano-palestinese, il tema delle risorse idriche è stato usato e ancor oggi finalizzato come un fattore di negoziazione politica[2], un vantaggio competitivo straordinario che conferisce forza e dissuasione, ma altresì ha a che fare con il problema centrale della "sostenibilità" effettiva del futuro Stato palestinese e degli attuali Territori autonomi palestinesi, laddove i principi di "danno significativo" ed "equa ripartizione" si evidenziano con maggiore criticità. Si capisce, allora e per esempio, la paura che attraversa lo Stato di Israele allorquando ogni anno il livello del lago di Tiberiade scende al di sotto della linea rossa, così come si intendono le continue iniziative di sviluppo tecnologico-scientifico che la compagnia idrica nazionale Mekorot continuamente implementa[3].
Se infatti analizziamo dal punto di vista idrografico Israele, i Territori palestinesi e la Giordania noteremo come essi siano collocati all'interno della cosiddetta Water Stress Zone (Zona idrica critica), il cui deficit idrico risulta impressionante: si valuta nella misura di almeno 300 milioni di metri cubi l'anno.
In questo quadro di strutturale penuria, la disposizione e la distribuzione delle risorse idriche marca una disparità evidente: anche incrociando diversi studi[4], possiamo evidenziare una chiara polarizzazione sull'utilizzazione annuale dell'acqua in Israele – pari a circa 1960 milioni di metri cubi – e nei Territori palestinesi, misurabile intorno ai 286 milioni di metri cubi. Lo stesso consumo medio quotidiano in Israele si aggira intorno ai 282 litri, in Cisgiordania si attesta sui 70 litri mentre nella Striscia di Gaza è misurabile intorno agli 80 litri. Nel 2000, il consumo medio dei residenti negli insediamenti colonici ha raggiunto abitualmente i 600 litri[5]. Secondo le elaborazioni e stime quantitative di Jaad Isaac e Owen Powell[6], Israele assegnerebbe ai palestinesi 93 milioni di metri cubi di acqua all'anno per uso industriale e 153 milioni di metri cubi all'anno per uso agricolo[7]. Attualmente, Israele controlla all'incirca un 20% delle risorse della regione, eccedenti il suo fabbisogno[8]. Le previsioni, per Israele, indicano che le risorse disponibili siano inferiori del 15% rispetto alla domanda che si avrà nel 2015 e le proiezioni sulle risorse teoriche annue pro capite parlano di 327 metri cubi annui nel 2020. L'accusa dei palestinesi a Israele di overpumping – qui il contrasto permanente in quest'area – sarebbe confermato dai dati sull'uso dell'acqua pro capite che Israele consumerebbe nella misura di 2/3 maggiore rispetto alla media pro capite dei palestinesi di Cisgiordania[9]. L'overpumping israeliano risulta più marcato secondo l'ANP se si guarda a un aspetto fondamentale dell'economia palestinese: l'agricoltura. Dato che le autorità israeliane riconoscono ai palestinesi solo i diritti all'uso dell'acqua precedenti l'occupazione del 1967, emerge che l'assegnazione di acqua per uso agricolo si attesta ai valori del 1967-1968, pari a circa 100 mm3, subendo nel tempo solo lievi variazioni.
Va posta inoltre particolare attenzione sul fatto che la vera ricchezza della Terra di Israele-Palestina è certamente il Giordano, o meglio insiste nella sua parte alta del bacino, nell'Alto Giordano (ciò spiega la rilevantissima questione ancora aperta del controllo delle Alture del Golan, dal 1967 in mano ad Israele)[10], sia perché il fiume esprime la sua massima potenza, sia perché non è ancora "inquinato" dall'elevata salinità che rende l'acqua praticamente inutilizzabile, ma soprattutto perché solo nella parte alta è possibile usare l'"arma" della deviazione del letto del fiume contro gli Stati che si trovano in posizione inferiore, i downstreamers.
Proprio la divisione tra upstreamers e downstreamers ha originato una serie di servitù, fuori tra l'altro dai principi del diritto internazionale – per cui tutti gli Stati che si affacciano sullo stesso fiume hanno gli stessi diritti sulle sue acque –, in modo che ogni Stato vede dipendere le sue risorse idriche dal paese upstreamers. I piani predisposti nel corso del XX secolo per cercare di trovare un modus vivendi sono stati più di venti, ma l'intricatissima questione giuridica e geopolitica non si è sbloccata, così che i contrasti maggiori rimangono tali come quelli tra Siria e Giordania, tra Giordania e Israele (attenuati dagli Accordi del 1994), Israele e Siria, tra Siria e Turchia.
Ancor oggi, la situazione de facto è sostanzialmente regolata dai principi del Johnston Plan del 1956 (formalmente non firmato dalle parti ma assunto quale criterio tecnico distributivo), integrato dall'Accordo israelo-giordano del 1994. «Nel complesso, il 31% delle acque del bacino del Giordano è attribuito a Israele, il 56% alla Giordania, il 10,3% alla Siria, il 2,7% al Libano. Se il Johnston Plan risponde alle esigenze israeliane che non ha cessato di ribadirne la legittimità internazionale, è inviso, invece, dai Paesi arabi, i quali all'epoca non riconoscevano l'esistenza dello stato ebraico»[11]. L'Accordo israelo-giordano del 1994, riguardante i prelievi dallo Yarmuk e dal Giordano, ha regolato una situazione di fatto già esistente e non procede in realtà a una nuova allocazione delle risorse. Del resto, fin dagli anni Ottanta, Israele e Giordania, entrambe antisiriane, posero le basi per una "collaborazione idrica". Venne strutturata, infatti, una agreed consumption quota fissata da esperti delle due parti, ma mai registrata agli atti ufficiali, che serviva da metro per reciproci aggiustamenti, nel caso in cui una delle parti avesse superato il limite. Poi, la «tecnologia israeliana ha soccorso i giordani nell'operazione di drenaggio dell'Est Ghor Canal, colmo di sedimenti accumulati di anno in anno», senza dimenticare la collaborazione periodica tra la Potash Corporation israeliana e la Jordanian Potash Company, entrambe finalizzate allo studio dello sviluppo del mar Morto. Così, alla fine, l'Accordo del 1994 ha concesso a Israele l'uso delle falde acquifere di Wadi Arba, una zona che già vedeva la presenza israeliana, vincolandolo però a trasferire alla Giordania 50 milioni di metri cubi di acqua all'anno.
4. Questione aperta
Tanto il Johnston Plan quanto l'Accordo israelo-giordano del 1994 hanno rappresentato, dunque, il tentativo di governare più razionalmente le due variabili interdipendenti del problema idropolitico: lo stress idrico del quale soffre la regione mediorientale e la distribuzione asimmetrica delle risorse idriche, che rappresentano, non a caso, una rilevante parte dell'attuale framework dei dialoghi di pace sollecitati dalla nuova amministrazione americana di Barak Obama.
In questo quadro diventa indispensabile la presenza diplomatica e politica della Turchia nei colloqui di pace, soprattutto dopo la recente rottura dei rapporti e dell'alleanza strategica con Israele. Infatti, l'asse strategico di Israele con la Turchia aveva prodotto, fino a quest'anno, una rivoluzione copernicana negli assetti internazionali e un cambio di scala senza precedenti, poiché i due Stati controllano il 90% dell'acqua dal Mediterraneo al Golfo Persico (la Turchia con le Dighe Ataturk e il Progetto dell'Anatolia del Sud-Est – GAP). Ciò significa e conferma che il peso dei fattori geopolitici, in particolare quello idrico, incardina la soluzione del conflitto israelo-palestinese entro le coordinate di un accordo globale, non solo regionale, che è stato da sempre il punto di vista limitato dei dialoghi di pace e dei monologhi di guerra.