In una raccolta di saggi, pubblicati nel 1996 con il titolo The culture of education, lo psicopedagogista statunitense Jerome Bruner sostiene che il modo di concepire l’educazione è una funzione del modo di concepire la cultura, e che l’educazione non riguarda solo problemi scolastici tradizionali, quali il curricolo, i voti, le verifiche, giacché le cose che si fanno a scuola hanno senso solo nel contesto più ampio degli obiettivi che la società intende raggiungere investendo sull’educazione dei giovani.
L’affermazione di Bruner non implica una dipendenza della scuola dai modelli culturali e dall’ambiente sociale ma segnala l’esigenza di correlare due mondi spesso separati o in conflitto tra di loro, per farne “luogo” unitario di elaborazione culturale e, perciò, di educazione.
1. La deriva mercantile della cultura e della scuola
Già agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso il Rapporto Faure all’Unesco, mentre sosteneva l’insostituibilità della scuola nella vicenda educativa individuale e nella crescita sociale, ne perimetrava l’ambito di competenza per estendere a tutta la società quella titolarità educativa considerata ed esercitata in passato quale prerogativa unica dell’istituzione scolastica.
Si confrontarono, allora, vari modi di intendere il nesso tra scuola e società, da chi chiedeva alla scuola di trasformare e rivoluzionare il mondo a chi continuava a legittimarne la funzione riproduttiva della cultura egemone e delle condizioni sociali. Comunque, il Rapporto Faure stesso indicava tra i fenomeni nuovi da registrare il fatto che la scuola precedesse ormai la società: cioè mentre in passato lo sviluppo della scuola aveva quasi sempre seguito e mai preceduto lo sviluppo economico, allora, invece, per la prima volta nella storia umana, lo sviluppo della scuola tende a precedere lo sviluppo economico e sociale.
Nacque in quegli anni l’idea ambiziosa che l’educazione, anche attraverso la scuola, fosse chiamata a governare le novità, a guidare il cambiamento sociale, a incalzare il futuro.
Bisogna dire che, in Italia, la legislazione scolastica della prima metà degli anni Settanta tentò di tradurre nella gestione sociale della scuola la sollecitazione a ridisegnare la mappa delle titolarità educative in nome della domanda di partecipazione che saliva dai luoghi e dai soggetti sociali. Il DPR 31 maggio 1974, n. 416 esordiva affermando che l’istituzione degli organi collegiali, a vario livello, rispondeva alla esigenza di realizzare la partecipazione nella gestione della scuola, per caratterizzarla quale comunità che interagisce con la più vasta comunità sociale e civica.
Ma in quegli stessi anni Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976, sosteneva che le scuole sarebbero state più efficienti se si fossero sottoposte alle leggi del mercato capitalistico entrando, come tutte le aziende, in concorrenza le une con le altre per attirare i loro clienti, gli studenti.
Questo modello, di provenienza statunitense, proponeva la produttività e l’efficienza quali parametri di misurazione delle “imprese culturali” e delle istituzioni educative.
L’Unione europea non tarderà a tradurre queste prospettive in direttive per i Governi nazionali, sollecitati a considerare l’istruzione e la formazione come investimenti strategici per la competitività europea e, perciò, a prevedere una presenza diretta delle imprese nella individuazione dei profili educativi, oltre che nella copertura dei costi finanziari.
A partire almeno dagli anni Novanta, nelle società europee, l’economia e la finanza incidono con peso crescente nelle politiche educative e scolastiche dei Governi e premono perché la scuola adotti il sistema dell’impresa.
Dieci anni fa Claude Allègre, scienziato e già ministro per la ricerca scientifica del Governo francese, segnalava con forte preoccupazione il processo di privatizzazione della cultura e dell’educazione, voluto dagli Stati Uniti ed esteso anche all’Europa, secondo una strategia di globalizzazione-omologazione culturale, espressa nello slogan “One thinking, one teaching”, un solo modo di pensare, un solo modo di insegnare. Lo scienziato francese si spingeva fino a dirsi convinto che gli Stati Uniti volessero distruggere la scuola pubblica e la stessa identità culturale del vecchio continente.
Di fatto, alle insidiose suggestioni di questo modello non sono sfuggite in Italia, la riforma dei cicli scolastici, voluta dal Governo dell’Ulivo, con la legge 10 febbraio 2000, n.30, e, ancor più, la riforma Moratti (legge 28 marzo 2003, n.53) che esalta la “scuola delle tre i”, impresa, informatica, inglese!
A metà degli anni Novanta, il Rapporto Delors all’Unesco, in continuità con il Rapporto Faure, costituisce un vigoroso tentativo di ricentrare sull’educazione la crescita individuale e lo sviluppo sociale, ricordando anche alle politiche nazionali che l’educazione è un bene pubblico che non può essere lasciato alle logiche del mercato. La riforma Moratti riprenderà alcuni elementi materiali di questo Rapporto ma non sembra averne adottato lo spirito.
2. L’istruzione educativa: imparare a pensare
È della metà degli anni Novanta anche il Libro bianco della Commissione europea sull’istruzione e la formazione. Con enfasi propositiva, ispirata a una sorta di umanesimo illuminista, il Libro annuncia e promette che la società del futuro sarà “una società conoscitiva”. L’avvento di tale società sarebbe accelerato da alcuni fattori che agiscono in modo trasversale e pervasivo. Si tratta, in particolare, delle nuove tecnologie dell’informazione e delle telecomunicazioni che hanno rivoluzionato la produzione industriale; della crescita esponenziale dei saperi scientifici e tecnici che generano una civiltà del progresso; della libera circolazione dei capitali, dei beni e dei servizi favorita dalla mondializzazione dell’economia.
Nella convinzione che questi processi possano essere governati, il Libro suggerisce, quali strumenti di governo, l’istruzione e la formazione: accrescere la cultura generale e sviluppare l’attitudine al lavoro e all’attività.
L’avvento di una società delle conoscenze non esautora o indebolisce la funzione della scuola e dell’educazione formale ma sollecita una rinnovata consapevolezza della specificità di contributo che l’istituzione scolastica può e deve dare alla vicenda educativa di ciascun cittadino. Il Libro stesso sostiene che, nella società del sapere, l’identità sociale e culturale dev’essere costruita a partire dalla scuola, la cui funzione resta insostituibile.
Infatti, se tutta la società tende a configurarsi secondo il paradigma conoscitivo, la scuola, che è il luogo delle conoscenze criticamente organizzate, il luogo dei saperi sistematici, è chiamata ad esprimere questa sua specificità attraverso l’impianto delle materie e l’organizzazione dei tempi e delle modalità dello studio. Il Libro bianco ritiene, perciò, che tocchi alla scuola fornire a ciascuno studente una “cultura generale”, cioè un sapere significativo e comprensivo della realtà, una capacità di cogliere il significato delle cose ma anche di valutare le tavole valoriali e i sistemi di significato, per orientare la libertà delle scelte. La “cultura generale” coincide con l’istruzione di base che costituisce la finalità educativa della scuola e dovrebbe fornire a ciascuno studente una capacità di conoscenza e di orientamento, anche nella scoperta delle proprie radici, nel riconoscimento delle differenze, nella comprensione degli altri.
Insomma la scuola, assumendo la razionalità critica quale parametro conoscitivo, dovrebbe insegnare a “pensare”, volendo adottare la distinzione suggerita da John Dewey tra “sapere” relativo a oggetti particolari e definiti, e “pensare”, che riguarda la capacità rielaborativa e prospettica delle conoscenze stesse. È questa l’accezione di “cultura”intesa da Bruner come “produzione di significati”, rilevazione e attribuzione di significato al mondo degli uomini e delle cose.
Nella mancata risposta alla sfida della società conoscitiva è reperibile una prima spiegazione della genericità e, perciò, dell’insignificanza delle conoscenze scolastiche.
Forse la scuola fornisce dei saperi, ma non forma mentalità; tenta di spiegare il mondo, regionalizzato nelle materie di studio, ma non aiuta a comprenderlo nella “unitas multiplex” che lo anima, e comunque anziché precedere la società, come aveva auspicato il Rapporto Faure, la scuola ne è dipendente, anche perché oggetto di attenzione marginale da parte della politica e sottoposta a continui ritocchi, senza un’idea alta e compiuta di istruzione educativa, sulla quale poter misurare la pur generosa e accresciuta fatica quotidiana.
Se cerchiamo ulteriori spiegazioni del deficit conoscitivo specifico della scuola, dobbiamo indagare come viene concepito e costruito il sapere nella forma della disciplina scolastica e, perciò, qual è l’oggetto materiale e formale dell’insegnamento.
Se assumiamo quale esito della modernità il superamento della razionalità scientifica, intesa come paradigma esplicativo della realtà e come ideale regolativo dell’impresa conoscitiva, rileviamo che le stesse scienze della natura e le scienze dell’uomo sono impegnate a ripensare il loro statuto epistemologico, perimetrando l’ambito delle rispettive competenze e adottando la condizione di strutturale limitatezza del pensiero. Riconoscono così, il profilo inconcluso di ogni sistema di conoscenze, di ogni sapere, e ne rivendicano la parzialità e il limite quali condizioni per continuare a pensare e a sviluppare le conoscenze. Cadute le pretese dello scientismo, i saperi, consapevoli del senso finito più che definito delle verità acquisite, tendono a configurarsi come “luoghi interrogativi”, non più dogmatici ma problematici, logici e non ideologici, definiti ma non definitivi.
La scuola non può non sentirsi sollecitata da questo processo a ripensare lo statuto dei saperi, oggetto di insegnamento. La disciplina scolastica, nella forma organizzativa della propria struttura concettuale, deve poter esprimere il “potenziale interrogativo”, cioè la capacità di proporsi quale ermeneutica e non solo come esegesi della realtà, perché l’esegesi è esplicativa, mentre l’ermeneutica è interpretativa. E se sapere vuol dire spiegare, pensare è un esercizio di interpretazione significativa delle cose.
3. Un’altra educazione è possibile
Sotto questo titolo sono state pubblicate dagli Editori Riuniti, le riflessioni e le proposte sviluppate nel primo Forum mondiale dell’educazione, tenuto a Porto Alegre nell’ottobre del 2001. Quelle intense giornate, che accolsero 15 mila partecipanti provenienti da 60 paesi, vollero ricollocare, nell’orizzonte di speranza del secolo che nasceva, la comune volontà di centrare sull’educazione la costruzione di un mondo nuovo, alternativo a quello progettato, con fredda determinazione, dalle politiche neoliberiste del capitale e degli organismi mondiali, economici e finanziari.
L’imputato principale del Forum fu la globalizzazione economica, opportunamente distinta dai processi di mondializzazione, e la questione centrale da sciogliere riguardava i vantaggi e i rischi, per la cultura e l’educazione, di tale globalizzazione. Infatti, la domanda inquietante è se la globalizzazione economica preluda alla omologazione delle culture e, perciò, se l’economia lavori, più o meno consapevolmente, a ridurre il mondo a mercato: un processo che, nel suo esito conclusivo, segnerebbe l’avvento del pensiero unico che, come dice Serge Latouche, è metafora suggestiva per definire il regno quasi incontrastato di una concezione del mondo fondata sul liberismo economico più rigoroso.
La scuola, nei vari Paesi europei e anche in Italia, ha già subito le suggestioni di questo processo e, come già accennavo, ha imboccato una deriva aziendalistica e privatistica.
Eppure, per la sua dichiarata apertura all’universo culturale e per la tradizionale coltivazione di un umanesimo plenario, la scuola disporrebbe di strumenti propri per arginare possibili derive. Per esempio, di fronte all’omologazione culturale che avanza, potrebbe ripensare l’intero impianto delle materie di studio come confronto dell’identità di ciascuna con la differenza delle altre, secondo il modulo dell’unità molteplice. Potrebbe così rilevare la geografia plurale del mondo adottando la fenomenologia comparativa quale metodo di definizione delle identità ma anche di esaltazione delle differenze culturali. Rientrerebbe, così, nel profilo di tutte le materie l’intenzionalità di una educazione interculturale, finalizzata a formare mentalità comprensive e divergenti, capaci di pensare al plurale e di trovare il senso delle culture altrui. Nel 2008, Anno europeo del dialogo interculturale, il Consiglio d’Europa, proponendo quale tema “Vivere insieme nell’uguale dignità”, ha inteso sostenere che la finalità ultima dell’educazione interculturale è la convivenza delle culture, in una ritrovata e piena accezione di democrazia.
Già Dewey aveva enunciato la stretta relazione tra democrazia e educazione fino a sostenere che l’educazione è una pratica democratica e la democrazia è un esercizio educativo. Ma l’affermazione va intesa anche come proporzione relativa di qualità dell’una e dell’altra, come a dire che la qualità dell’educazione dipende dalla qualità della democrazia e viceversa. Ora, se consideriamo i livelli di qualità della nostra democrazia, possiamo stabilire se siamo cittadini di una democrazia educativa e se siamo soggetti di una educazione democratica.
Se, come scrive Dewey intendiamo per educazione una attività che modella, che plasma, che forma, abilitando alla vita sociale, non possiamo prescindere dal fattore immediato che è l’ambiente sociale, il quale, con influenza sottile e pervasiva, agisce su tutte le fibre fisiche e psichiche dell’individuo, formando disposizioni mentali e condotte di vita. Chiamiamo indiretta questa azione formativa per distinguerla dall’azione diretta delle istituzioni educative, che formano secondo una dichiarata intenzionalità.
La famiglia e la scuola sono i “luoghi” intenzionalmente finalizzati all’educazione. Anch’essi sono ambienti sociali, ma sono (o dovrebbero essere) costruiti in funzione delle loro finalità educative. La società, invece, nella complessa articolazione delle istituzioni e dei soggetti collettivi ma anche nei suoi modelli relazionali, è un ambiente sociale che si forma secondo dinamiche non sempre intenzionali: condiziona e influenza, ma diventa educativo nei suoi effetti solo quando l’individuo, da vero cittadino, partecipa e condivide un’attività comune. Partecipando all’attività sociale, portando il suo contributo, conferma la sua appartenenza alla vita sociale, si educa alla convivenza democratica.
Dunque, è il livello di partecipazione individuale a determinare la qualità educativa dell’ambiente sociale. Altrimenti, poiché l’ambiente agisce comunque, finisce per addestrare, per fornire gli strumenti e i mezzi riproduttivi della mentalità dominante e utili a conservare le abitudini comuni. L’amara verità che Dewey ci ricorda è che noi non educhiamo mai direttamente, ma indirettamente per mezzo dell’ambiente, e che è una grave responsabilità permettere che un ambiente casuale svolga il suo lavoro “formativo” di mentalità e comportamenti, anziché attendere a costruirlo per farne un ambiente educativo, giacché ogni ambiente è casuale se non viene pensato e costruito per educare. La democrazia politica e sociale del nostro Paese è scivolata nella casualità, nell’improvvisazione, nell’approssimazione: se è un ambiente casuale, risulta destituito di potenzialità educativa.
Indicazioni bibliografiche