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Felicità e ragione cinica nella cultura dell'apparire e del desiderare

Francesco Totaro

Ragione cinica e cultura dell’apparire-desiderare

Chiamo ragione cinica la ragione che non soltanto riduce l’orizzonte del pensare e le ambizioni dell’agire, ma considera tale riduzione un vantaggio sia per l’appropriatezza della nostra conoscenza sia per l’organizzazione conveniente della nostra esistenza. Intesa come programma di abbassamento della soglia delle aspirazioni individuali e di riduzione del raggio delle relazioni, la ragione cinica, al di là della sua prima versione storica, è un modello teorico-pratico che ha grande diffusione nella cultura contemporanea e nelle espressioni della soggettività. Quale felicità è compatibile con la ragione cinica? Per parlare del rapporto tra felicità e ragione cinica in un contesto concreto, vorrei considerare due ambiti che oggi sono coinvolti in modo stretto dal perseguimento della condizione di vita felice. Il primo ambito riguarda la sfera dell’apparire; il secondo concerne la sfera del desiderio. Il mio intento è di delineare, con un implicito riferimento immodesto al cammino percorso a proposito dell’illuminismo da parte di Adorno e Horkheimer, una vicenda dialettica nella quale l’apparire e il desiderio, raggiunto il culmine del loro riscatto positivo, si espongono successivamente a un esito di autolesionismo negativo.


Dialettica dell’apparire

Cominciamo dall’apparire. Nella storia bimillenaria del pensiero filosofico l’apparire è stato per lo più relegato al ruolo di cenerentola. Non è il caso di compilare la lunga lista dei pensatori che, da Parmenide fino a Schopenhauer, hanno invitato a non fidarsi del mondo delle apparenze, ammonendo a non indulgere alla seduzione del molteplice che cade immediatamente sotto i nostri sensi oppure esortando a trascendere il regno umbratile dell’esperienza sensibile. Il vero e il bene sono stati insomma collocati oltre ciò che appare. Friedrich Nietzsche, come è noto, ha stigmatizzato l’intera tradizione di pensiero che l’aveva preceduto come “platonismo” o tradizione “platonico-cristiana”, accusata di avere immolato “questo mondo”, così come appare, sull’altare di un mondo oltre di esso, un “oltremondo” appunto. Soltanto qui la tradizione metafisica, sempre per Nietzsche, ha collocato i valori e il senso dell’esistenza, con la conseguenza che il mondo della nostra esperienza effettiva è stato dichiarato privo di valore e, quindi, ridotto al non senso. Il disprezzo dell’apparire, o del mondo delle apparenze, nel quale siamo immersi, ha portato a un mondo senza verità, essendo tutt’al più la sua verità una elargizione di un dio fuori del mondo. L’avere negato la validità di ciò che appare è stato la causa principale dell’annullamento del mondo, cioè di quel nichilismo sul quale ancora oggi i predicatori del senso pretenderebbero di spargere calde lacrime senza la consapevolezza di essere stati i promotori della patologia che vorrebbero combattere. Nietzsche, dal suo canto, ha preso molto sul serio l’apparire al punto tale da invitare a non parlare più di un mondo delle apparenze, come se ci fosse ancora un mondo “vero” da contrapporgli. Infatti, caduto il mondo vero inteso come mondo oltre o dietro questo mondo, non c’è più motivo nemmeno di continuare a parlare di un mondo apparente. Quest’ultimo non è un mondo meno autentico, al contrario è l’unico mondo nel quale viviamo e al quale dobbiamo attribuire un senso.
È evidente – o dovrebbe esserlo – che quella di Nietzsche è, per noi, una grande lezione sui difetti di dualismo in cui un buon pensiero metafisico, quello cioè che si sforza di dare un senso complessivo alla realtà, non dovrebbe (più) cadere. E di un buon pensiero metafisico dovrebbe far parte la riabilitazione dell’apparire, pur nel permanere della domanda intorno alla sua esaustività o ultimità. Chiedersi infatti se l’apparire è l’ultimo è domanda che può essere formulata o contro l’apparire, cadendo di nuovo nel dualismo e in un atteggiamento dispregiativo della vita, o a favore di esso, per renderne più ricca e più piena la consistenza.
Ma questa decantazione postmetafisica della metafisica, per così dire, o non è stata in grado di farsi valere adeguatamente oppure viene guardata ancora e pur sempre con sospetto. Di fatto, dopo Nietzsche, ha preso piede la cultura non solo del riscatto dell’apparire ma anche della sua autosufficienza. C’è solo l’apparire ed esso basta e avanza. Qui può essere visualizzato l’inizio della fase discendente della parabola dell’apparire, che potrebbe contrariare a posteriori chi, come per esempio Hannah Arendt, l’aveva eretto a cardine dell’azione e del suo carattere sorgivo. Un tale declinare conduce dall’apparire come luogo del librarsi dell’esperienza all’apparire come gabbia. Vale a dire, quell’apparire nel quale inizialmente si sprigionavano le energie un tempo compresse dell’esperienza e in esso giunte positivamente a emanciparsi con “passo di danza” dalla subordinazione a finalità eteronome, si tramuta in un nuovo imperativo categorico dell’esistenza, dal momento che l’esistenza è (costretta a essere) solo apparire. Infatti, se la riflessione esistenzialistica aveva affermato non senza cupa gravità il primato dell’esistenza sull’essenza, l’enfasi gioiosa sull’apparire declama la sua coincidenza con ogni essenza possibile. L’essere in quanto tale si risolve tutto nell’apparire.
La persuasione di fondo dell’autosufficienza dell’apparire, ben al di là del perimetro della filosofia, è in sintonia con le più vivaci analisi sociologiche della soggettività contemporanea. Bauman ha messo in evidenza come nell’immaginario attuale, al posto del cartesiano «cogito ergo sum», sia subentrato un più estroverso «sono apparso in Tv, quindi sono» [1]. Apparire o comparire sul piccolo schermo è indubbiamente il sogno capace di rendere felice chi lo realizza e, probabilmente, anche chi non lo realizza ma ne fruisce per vie indirette, attraverso le possibilità di imitazione e di identificazione con i più “fortunati”.
Ma non è tanto su una fenomenologia descrittiva dei paradisi, effettivi o presunti, dell’apparire organizzato dagli apparati della comunicazione di massa che qui si vuole indugiare. E nemmeno vogliamo cedere alla tentazione di scagliarci contro le mode giovanili, come se i giovani avessero il monopolio della superficialità contrapposta a una presunta profondità del mondo adulto. Del resto, anche la dicotomia tra superficiale e profondo ha perso legittimità, almeno da quando Hegel ci ha messo sull’avviso che il profondo va ricercato proprio in ciò che sta in superficie; altrimenti, si potrebbe aggiungere, è senza spessore. Intendiamo invece sollevare una questione cruciale che ci sembra insieme superficiale e profonda: se l’apparire diventa l’assillo determinante dell’esistenza, quale tipo di etica ne scaturisce e, quindi, quale ricerca della felicità viene incoraggiata?
Anzitutto viene in risalto un profilo di soggettività protesa a dare priorità assoluta all’immagine di sé e al suo costante aggiornamento, in funzione del quale vengono approntate strategie della esibizione o, con parola attualmente in auge, di visibilità. Esibizione e visibilità contano ancora di più dei risultati prodotti e diventano un risultato in sé. L’automanifestazione è vissuta come momento di gloria coincidente con tutta la felicità che può essere concessa, poiché, che ci sia una felicità al di là della performance effimera, non è nemmeno pensabile. L’apparire è qui e ora e, a sua volta, anche la felicità dell’apparire è qui e ora. L’apparire è bene comunque, perché è sempre bene a se stesso. Manifestarsi è essere che non rinvia oltre l’essere della manifestazione. Una versione più prosaica e secolarizzata dell’alétheia heideggeriana sembra prendere il sopravvento su ogni retorica ancora tardoromantica del nascondimento inaccessibile a ogni manifestazione. La felicità dell’apparire è costretta a essere “spudorata”, poiché non è costretta a riconoscere zone di confine oltre cui non si possa andare. La felicità è in ogni caso tutta qui.
Subito a ruota emerge un profilo di relazione basato sulla necessità di apparire sempre più di altri. Il proprio apparire riesce quanto più gli altri scompaiono. Se anche ad altri viene concesso di apparire, tale apparire è consentito a patto che sia funzionale al proprio apparire; diversamente scatta la lotta per l’apparire, dove la posta in gioco diventa l’esclusività dell’apparire medesimo. Escludere rende allora felici e l’ideale della perfetta esclusione diviene l’ideale della perfetta felicità. La relazione con gli altri serve essenzialmente ad avere la conferma della propria potenza di apparire. La soggettività dell’apparire è rigorosamente individualistica. La sua felicità è quella di un individuum niente affatto disposto a con-dividere e si concentra interamente nel desiderio di sé. Se felicità, attraverso la radice *dhe, rinvia a una ratio (anche nel senso di relazione oltre che di motivo di una condotta) di feconditas, qui la fecondità rimbalza su se stessa e si contrae nella piccola ipertrofia dell’io incurante se non di sé. Possiamo chiamare la cura del sé perseguìta grazie alla non cura di tutto ciò che lo circonda e lo trascende “felicità della ragione cinica”? Forse è una passabile approssimazione alla cosa, la quale, a ben vedere, ha una consistenza quasi gelatinosa che sfugge a una definizione precisa.


Dialettica del desiderio

Siamo così giunti in prossimità del secondo ambito che, a nostro avviso, si presta a essere considerato in un’ottica di dialettica negativa: il desiderio. Anche il desiderio non ha goduto di una buona reputazione nella storia del pensiero filosofico e, a un livello più ampio, nei modelli culturali. In ciò ha condiviso il destino delle passioni. Non si vuol certo dire che passioni e desiderio non abbiano avuto cittadinanza nella riflessione filosofica e nella più generale produzione culturale (tutta la produzione drammaturgica ruota intorno alla espressione delle passioni e dei desideri). Martha Nussbaum, specialmente nell’opera La fragilità del bene, ha rimesso in primo piano il loro ruolo nella stessa elaborazione teorica dei grandi filosofi classici come Platone e Aristotele. Non si può però sottovalutare il fatto che nella intera tradizione premoderna il desiderio, a differenza del bisogno, non è stato considerato autosufficiente oppure fonte legittima, di per sé solo, dei comportamenti. Sempre Aristotele, equilibrato ponderatore di desiderio e intelletto, parlava di un desiderio guidato dall’intelletto, pur rimarcando l’esigenza per il secondo di mettere le mani nella pasta ricca di fermenti del primo. Non stiamo poi a scomodare i grandi padri della modernità quali Cartesio e Spinoza, per carpire anche a essi affermazioni di controllo, di sterilizzazione o di sublimazione delle passioni e del desiderio. Remo Bodei, che pur nella sua riflessione ha preso le distanze dalla definizione kantiana delle passioni come «cancro della ragione» e ha proposto una lettura del precontemporaneo superatrice del dualismo ragione-passioni, non ha potuto non riconoscere che un siffatto superamento è argomentabile proprio in quanto le passioni «lasciano in realtà che sia la “ragione” stessa a stabilire l’obiettivo e il raggio della loro azione, individuando gli oggetti su cui riversarsi, misurando il punto su cui arrestare l’impeto, dosando la virulenza di atteggiamenti dissipativi» [2]. Quanto al comune sentire, il detto «l’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re» la dice lunga sull’alone di sconvenienza che ha reso normalmente inaccettabili, nel costume educato, le pretese del desiderio immediato. Il desiderio, insomma, si poteva esprimere purché accompagnato e autorizzato da una “facoltà” più adulta.
L’evento della cultura contemporanea è invece quello del desiderium superiorem non recognoscens. Il desiderio diventa fonte diretta, e non sottoposta a istanze superiori, dell’agire legittimo. L’analisi freudiana delle pulsioni ha l’effetto di sdoganarle rispetto alla pretesa di controllo da parte della ragione. Nel regno pulsionale giace una riserva di spontaneità e di autenticità che la ragione, tanto più in quanto ragione compromessa da stereotipi imposti estrinsecamente, minaccia strutturalmente di comprimere e di reprimere mediante meccanismi colpevolizzanti. Con Freud viene finalmente sconsacrata l’endiadi di desiderio e colpa. I desideri non sono obbligati a essere casti per potersi accreditare. A questo punto, anzi, l’umanità si accorge indispettita degli enormi costi che ha dovuto pagare (e continua a pagare) in termini di repressione del desiderio. In Eros e civiltà Herbert Marcuse, tra i pochi padri riguardati senza ostilità nella stagione di contestazione dei secondi anni Sessanta del secolo scorso, mette a nudo l’inutile repressione aggiuntiva esercitata da una civiltà dove la razionalità “amministrativa” usa la tecnologia per perpetuare la logica del lavoro alienato e non per dare via libera all’esperienza della felicità. Se la rinuncia alla espressione della istintualità erotica è il prezzo (troppo caro) che occorre pagare alla civiltà, non si può non emanare un verdetto di crudele insensatezza a suo carico. Subito a ridosso di quegli anni ruggenti, Jean-François Lyotard fu il propugnatore di una strategia liberatoria del desiderio nell’orizzonte di un’economia libidinale che sarebbe stato giusto far subentrare all’economia capitalistica, non prevedendo la capacità di quest’ultima di inglobare anche le istanze del desiderio. In ogni caso, per dirla in sintesi, qui l’affermazione del desiderio si colloca in una grande prospettiva di emancipazione antropologica e di rigenerazione storico-politica.
La lista degli artefici della rivoluzione del desiderio è troppo lunga e si mescola, tra l’altro, con i temi più originali del pensiero femminista. Attraverso processi successivi di assimilazione, e anche di raffreddamento, il desiderio arriva ad assumere – o a recuperare – una valenza di tipo trascendentale collegandosi al tema tradizionale dell’appetitus boni presente in ogni attività umana e, più in generale, in ogni realtà (“tutte le cose tendono al bene” o, quantomeno, “a un bene”). Nel più recente cursus metaphisicus che intende legare metafisica e affetti, e persino passioni, la via del desiderio diventa una sorta di sesta prova dell’esistenza di Dio, dal momento che solo l’infinità contenutistica del divino può adeguare l’infinità meramente formale del desiderio umano. Per questa via però il desiderio non vale più soltanto in quanto tale, ma è assunto come vettore orientato a una meta finale, dalla quale ultimamente riceve dignità e spessore.
Cosa avviene invece quando il desiderio viene sganciato da prospettive storicamente liberatrici e da riferimenti “metafisici” e viene declinato secondo calcoli di piccola economia individuale? Non siamo qui in presenza di un desiderio che desidera se stesso avendo tagliato i ponti con ogni ambizione ulteriore? Il desiderio che desidera se stesso è indubbiamente una figura principe della sensibilità romantica, e una figura ad alto rischio, perché in grado di spingere la soggettività all’autoconsunzione per la sproporzione delle aspirazioni ideali rispetto agli oggetti ai quali esse si applicano. Invece l’autodesiderarsi, se così si può dire, che attualmente è davanti a noi si spende piuttosto nel consumo di oggetti sempre a portata di mano. Viene meno il vagheggiamento di mete inaccessibili e si mira a traguardi ravvicinati. Ci si desidera in quanto potenziali fruitori di oggetti che, a loro volta, vengono programmati per soddisfare qualsiasi desiderio. L’economia capitalistica avanzata è diventata essa stessa economia “libidinale”: non soddisfa bisogni ma desideri o, meglio, soddisfa desideri che sono diventati essi stessi dei bisogni irrinunciabili. La rappresentazione nobile di questa trasformazione enfatizza un passaggio “rivoluzionario” dal comando della produzione a quello del consumo: finalmente il produttore si mette al servizio del consumatore e realizza il sogno dell’economia dal volto umano! Senza sottovalutare il nuovo potere che consumatori intelligenti e critici potrebbero esercitare sul tipo e sulla qualità della produzione, non si può ignorare che l’economia della soddisfazione dei desideri è caratterizzata dall’idea della quantità illimitata dei desideri stessi e dallo sforzo incessante di programmarne l’obsolescenza affinché la macchina del desiderio non abbia mai ad arrestarsi. Il desiderio viene allora soddisfatto e, insieme, continuamente ricreato grazie alla percezione indotta della mancanza, cioè del sentirsi esclusi dal last trend.
Il consumatore desiderante è così impegnato in una interminabile fatica di Sisifo: pur avendo tutto vicino non riesce mai ad appropriarsi di tutto e deve subire sempre di nuovo il pathos della distanza. Quest’ultimo, s’intende, è tutto il contrario dello scotto che l’uomo superiore alla «morale del gregge» dovrebbe nietzschianamente pagare per essersene staccato; è invece la sofferenza che ognuno deve scontare per non essere mai abbastanza in. La dinamica del desiderio si basa infatti sulla contrapposizione tra essere in e essere out , sulla desiderabilità del primo e la indesiderabilità del secondo.
Ed è proprio su questo ritmo sincopato di soddisfazione-mancanza che poggia l’offerta di felicità attraverso il consumo di oggetti. La felicità del consumo consiste nella fruizione del breve intervallo di soddisfazione che si colloca tra due mancanze. Allo stress della ricerca del bene desiderato subentra l’acquietarsi del senso di mancanza in attesa di una inevitabile mancanza successiva. Del resto, questa idea di felicità “effimera” o événementielle non è quella presente in una parte non trascurabile della saggezza filosofica contemporanea? Una tale immagine della felicità, tanto chiara da sembrare inoppugnabile, spiana la strada alla indifferenziazione dei suoi contenuti: qualsiasi cosa vi può rientrare, purché sia in linea con il movimento di carica-discarica pulsionale. Ha tutto ciò a che fare con la ragione cinica? Se la felicità, ripudiando mete “poste troppo in alto”, consiste nel dare seguito a qualsiasi moto pulsionale e se ogni moto pulsionale diventa assolutamente inderogabile, quali che siano i costi che la sua soddisfazione comporta per gli altri e persino per il futuro di se stessi, allora, molto probabilmente, la risposta è sì.
Qui si palesa il punto di declino della dialettica del desiderio. La riabilitazione del desiderio prende infatti la china della sua banalizzazione e approda, nella indifferenza dei contenuti, allo svuotamento di una funzione di felicità che andrebbe intesa come realizzazione piena della persona nella durata della sua esperienza. L’appiattimento del desiderio sull’immediatezza di contenuti equivalenti conduce il suo positivo riscatto antropologico nel cul de sac del suo depotenziamento. Da chance di realizzazione, il desiderio si trasforma in una palla al piede ai fini della “fioritura” dell’umano. La pratica “cinica” di un desiderio depotenziato e controproducente è però inadeguata all’ampiezza di verità di cui l’umano è capace e, come tale, falsa. Peter Sloterdijk, di recente, ha detto che «l’età del cinismo consiste nel fatto che gli uomini conoscono le proprie bugie e tuttavia continuano a praticarle» e che in realtà «si tratta di immoralismo e di un atteggiamento mentale semicriminale con cui il pensiero filosofico non può avanzare di un passo» [3]. Questa affermazione ha di mira l’insostenibilità della “cattiva coscienza” delle ideologie. Ma, a nostro avviso, il cinismo non è solo il tratto stilistico dei ripetitori delle ideologie; esso è ideologico nel suo stesso contenuto teorico-pratico. In definitiva, il cinismo è una menzogna sull’umano che viene normalmente praticata; perciò finisce con l’apparire come la sua verità insuperabile, pena l’esposizione al rimprovero di ipocrisia. In tal modo il cinismo può presentarsi persino come la virtù di uomini disincantati e di qui è breve il passo all’affermazione che si può essere felici soltanto se si è cinici. Ogni altra posizione sarebbe invece condannata all’illusione e alla infelicità che ne consegue. Il ribaltamento della verità è pertanto il capolavoro del cinismo.


Oltre la felicità cinica

Dobbiamo tornare alle spalle della riabilitazione dell’apparire e del desiderio, una volta che ci rendiamo conto della trappola della dialettica negativa in cui sono caduti? Oppure si tratta di uscire dalla trappola riportando apparire e desiderio in un contesto che non li renda unilaterali e autosufficienti? Il contesto nel quale l’apparire va ripensato è quello dell’essere, pena la sua degenerazione patologica. Ciò vuol dire che occorre lasciare apparire ciò che è degno di apparire, insomma l’apparire dell’essere e per l’essere, mentre va controllato l’apparire per l’apparire o l’apparire fine a se stesso. Non per volontà di censura, bensì perché l’apparire senza essere che appare culmina nell’autonegazione, nell’apparire che finisce col non avere nulla da mostrare. Analogamente, il contesto nel quale va riconsiderato il desiderio è quello che ne fa un momento della tensione alla pienezza umana, in relazione alla quale esso sia tutelato e dalla dispersione e dal permanere definitivo nella mancanza. Beninteso, non è affatto il caso di disprezzare il profilo “basso” indispensabile alla quotidianità del vissuto. Ciò che è in questione è il desiderio che si ritorce esclusivamente nel calcolo delle convenienze e nella depressa soddisfazione delle «piccole voglie». Ora, il cinismo, nella sua versione estrema, è proprio la volontà di calcolo appagata di se stessa e delle proprie astute (oppure ottuse?) operazioni. Esso prospera nella cultura appiattita sull’apparire e sul desiderare patologicamente autosufficienti. Uscire dalla “miseria” di tale cultura è il primo passo per la fuoriuscita dalla felicità cinica.



[1] Cfr. Z. BAUMAN, Media, spettatori, attori, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 5.
[2] R. BODEI, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991, p. 10.
[3] N. FÜRSTENBERG, Intervista all’autore di «Sphären»,
www.caffeeuropa.it/attualita/55sloter-intervista2.html
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