1.Vita e opere
Giandomenico Romagnosi nasce a Salsomaggiore l’11 dicembre 1761 e muore a Milano l’8 giugno del 1835. L’arco della sua vita è segnato dagli importanti avvenimenti del suo tempo che vive da intellettuale militante, adeguandosi alle condizioni storiche ma maturando contemporaneamente una riflessione nella quale trovano sempre spazio le idee di patria, unità nazionale, indipendenza e sovranità nazionale.
Nelle sue numerose pagine, che spaziano su tutti i campi dello scibile, si trovano indicazioni, dirette e indirette, che mostrano come lo studioso abbia contribuito, con la sua azione e con la sua riflessione, alla formazione della coscienza nazionale e al movimento sociale e patriottico che doveva portare alla indipendenza e all’unità dell’Italia (cfr. Cavaciuti 2012, p. 89). Il riferimento all’indipendenza e all’unità nazionale è presente, oltre che in tutta la sua opera, anche nella sua vita, segnata da un impegno morale e civile, che gli valse persecuzioni e processi.
Nell’età matura esporrà la sua dottrina della conoscenza basata su una antropologia naturalistica che si fonda sulla compotenza causale, ovvero sul risultato dell’incontro di soggetto ed oggetto. Si tratta di una concezione della vita, della conoscenza e dell’uomo, molto complessa e articolata, nella quale si avverte l’importanza da lui data alla natura essenzialmente sociale dell’uomo.
Si tratta di una antropologia che vede l’opera congiunta di natura e società. Questa, a sua volta, è un prodotto della natura, nella quale, comunque, assume importanza il lato attivo, vale a dire la libertà del soggetto. Un ruolo fondamentale, in questa antropologia, gioca anche la fiducia nella “perfettibilità”, che consiste nella possibilità di un progresso “deliberato”, da parte dell’uomo nel quale si incrociano intelligenza, moralità e libertà nazionale (cfr. ivi, p. 78).
Trasferita nel campo sociale questa compotenza costituisce una teoria di relazioni di ordine giuridico, che «devono svolgersi in modo armonico al fine della felicità individuale e collettiva, connettendosi con lo sviluppo dell’incivilimento e, quindi, impostando i principi ed i valori cardine su cui si sviluppano le scelte giuridico- politiche» (Lanchester 2011, p. 6).
L’intento patriottico di Romagnosi si manifesta in modo vario e a varie riprese in tutta la sua vita. In una lettera del novembre 1802, si legge: «I miei voti furono sempre per l’Italia. Io amai di trattenermi a Trento fino a che le turbolenze della guerra si calmassero nella mia patria» (Romagnosi 1931, p. 264).
Scrive anche: «Ognuno conviene che non può esistere vera civile potenza senza patriottismo» (Romagnosi 1839, p. 3). Questo generico appello al patriottismo, senza riferimento specifico al caso italiano, rappresenta, comunque, il riconoscimento del valore del sentimento patrio, «da lui inteso quasi come una religione» (Cavaciuti 2012, p. 87).
Per quanto riguarda il suo indubbio apporto al Risorgimento, oltre alle molte idee tendenti ad una concreta azione risorgimentale, nei suoi scritti ampio spazio è dedicato alla storia e al valore della tradizione italiana intesa al recupero della dignità nazionale come base fondamentale su cui costruire indipendenza e unità nazionale.
Patriota, filosofo, scienziato, sociologo ante litteram, non v’è campo nel quale non si sia cimentato.
Nella sua formazione predominano le idee del secolo dei lumi, il giusnaturalismo e lo scientismo del XVI e XVII secolo, ma si tratta sempre di idee vissute in proprio con una attenzione particolare al piano del sociale.
Data la sua profonda ed eclettica cultura è difficile circoscrivere le sue fonti. Oltre alla conoscenza degli avvenimenti del suo tempo e a una conoscenza profonda della storia italica, si avverte la presenza della cultura tedesca e francese e di tutta la cultura italiana, tra cui primeggia sicuramente l’influsso di Vico. Molto ricchi anche gli influssi francesi e tedeschi: Étienne Bonnot de Condillac (sempre ricordato come suo maestro), vissuto a Parma dal 1758 al 1767, Rousseau, Montesquieu, verso il quale pure non nasconde le sue riserve, per non citarne che alcuni. Ma anche Kant, Wolff, Leibniz, fino a Hegel.
Altrettanto difficile definire un quadro complessivo dei suoi allievi, i quali tutti, da Cattaneo, a Ferrari, a Cantù, seppero continuare il suo insegnamento con libertà di pensiero e nella linea del Risorgimento.
Pur nel riconoscimento della libertà, il corso incontrastabile e inarrestabile dell’incivilimento è guidato dalla divina provvidenza (cfr. Romagnosi 1850, p. 418) che altro non è che «una educazione sociale della natura e dell’industria umana» (ivi, p. 180), un continuo processo verso il perfezionamento morale, civile, economico e politico della comunità.
Il tema dell’eguaglianza e quello della libertà sono sempre presenti nella sua riflessione. Sul primo nel 1792 pubblica Cosa è uguaglianza, che tratta il tema della differenza tra uguaglianza di fatto e di diritto, e sul secondo nel 1792 pubblica Crisi e libertà. Primo avviso al popolo. Si tratta delle prime considerazioni sugli avvenimenti della Rivoluzione francese, nelle quali lo studioso, prudente nei confronti delle inclinazioni democratiche di quegli anni, assume chiaramente un atteggiamento antidispotico che lo accompagnerà per tutta la vita.
Tra i suoi scritti di natura giuridica ricordiamo Genesi del diritto penale (1791), nel quale emerge una prospettiva sistematizzante volta ad «elevare il sapere giuridico a rango di scienza» (De Pascale 2012, p. 4). È del 1805 l’Introduzione allo studio del diritto pubblico universale. Opera fondamentale per la sua visione del giuridico considerato, “nella sua vera essenza”, come un insieme di norme determinate dai rapporti reali e necessari della natura, il cui scopo deve essere il rafforzamento delle strutture civili e politiche della società. Sul piano giuridico è anche da ricordare la compilazione del Codice di Procedura Penale, l’unico Codice italiano non derivato da quelli francesi.
È del 1815 Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa, ampia trattazione dei problemi pedagogici e didattici, dove emerge il valore della libertà e dove Romagnosi espone la sua visione della costituzione. Scritta tra la caduta del Regno Italico Napoleonico e la Restaurazione austriaca, l’opera aveva come obiettivo quello di fornire una base per la Costituzione dell’auspicato nuovo Stato italico indipendente.
La scienza delle costituzioni, che ricomprende lo scritto del 1815, pubblicata postuma nel 1850, «dedicata alla mia patria quale tributo che io le debbo» (Romagnosi 1850, p. 6), può essere considerata la espressione più matura delle sue idee.
Importante anche l’apporto teorico e filosofico di Romagnosi alla statistica che contribuì a fondare come disciplina, e che considerò strumento indispensabile di conoscenza per ogni buona amministrazione. Una vera statistica civile, scrive, consiste in un «catalogo, completo e organizzato in modo razionale, delle componenti di uno Stato ‘civile’, ovvero in una descrizione delle sue ‘forze’, e cioè territorio, popolazione e governo, con lo scopo di insegnare allo statista o all'amministratore a comprendere il rapporto fra il tutto e le sue parti e ad agire con sicurezza in ogni parte della pubblica amministrazione» (Romagnosi 1827, p. 291).
Decisamente fondamentale la dimensione giuridica e istituzionale della sua riflessione dove emerge soprattutto una visione del giuridico legata alla socialità e un’importante e dettagliata riflessione sulla costituzione. In essa compaiono qua e là anche riferimenti alla democrazia, chiamata anche «democrazia assoluta rappresentativa», «perocché dalla nazione partono tutti i poteri, tutti ritornano a lei e tutti sono costantemente sorvegliati, contenuti e repressi da lei» (Romagnosi 1850, p. 194). Problematico, comunque, individuare l’apporto alla democrazia da parte di Romagnosi il quale, in verità, critica la democrazia pura che considera governo parziale. Per comprendere le sue posizioni a riguardo bisogna risalire all’importanza da lui sempre riservata al tema dell’unità, da una parte, e al tema della libertà, della partecipazione, e della sovranità nazionale, dall’altra. Sotto il primo punto di vista la democrazia nella sua forma pura è decisamente manchevole. Ricorda, infatti, che la democrazia pura «nella quale tutto si facesse dalla moltitudine unita» è possibile solo «fra piccolissime società né è durevole fra gli uomini soggetti a diverse opinioni e a diverse passioni» (ivi, p. 190). Ma se si riflette sulla democrazia considerata dal punto di vista dell’importanza che nella vita politica ha la comunità nazionale la “democrazia rappresentativa” o “repubblica rappresentativa” diventa il punto di arrivo dell’incivilimento. L’apporto alla visione democratica è da ricercare, quindi, nell’importanza che lo studioso riserva ai temi della libertà e della partecipazione della comunità alla vita politica più che nell’attenzione alla forma di una democrazia rappresentativa parlamentare come andava delineandosi nella Francia. Romagnosi non sembra, infatti, porsi il tema della mediazione tra comunità e decisione politica nei termini di una democrazia rappresentativa parlamentare. La proposta costituzionale di Romagnosi non coglie, infatti, la vitalità del nascente parlamentarismo. Il suo soffermarsi sulla monarchia rappresentativa, o l’aver accennato ad una “democrazia assoluta rappresentativa”, non significava iniziare a discutere sulla possibilità di istituire parlamenti. Si trattava piuttosto del problema del controllo “degli atti legislativi del re”, o del “governatore”, non certamente di una accettazione del grande principio del secolo XVIII “quod omnes tangit ab omnibus comprobari debet”. Su questo punto, con riferimento al principio democratico, non si può certamente parlare di una propensione di Romagnosi per la democrazia, ma non come meta finale, bensì “allo stato attuale dell’incivilimento”.
2. Una filosofia civile
Negli importanti scritti comparsi negli Annali di statistica Romagnosi tiene a precisare proprio il senso dell’incivilimento in polemica con l’idea di progresso dell’illuminismo (cfr. Questioni 1827, p. 292, e 1828, p. 117). Convinto dell’unità della sfera pratica, i cui momenti non agiscono separatamente nella vita reale, Romagnosi precisa che il progresso da lui delineato si differenzia dall’astratta perfettibilità illuministica in quanto caratterizzato dalla ricchezza che proviene dall’interezza della sfera pratica e, quindi, dall’unione di economia, diritto, morale e politica.
Il primato risorgimentale umanistico emerge chiaramente nell’importante saggio Dell'indole e dei fattori dell'incivilimento con esempio del suo risorgimento in Italia (cfr. Romagnosi 1832).
La comunità è un corpo vitale unitario, un uomo collettivo, un organismo vivente, costituito di territorio, popolazione e governo, al quale si arriva mediante lo studio delle leggi che regolano il corso del suo perfezionamento ed incivilimento nella vita associata.
Questo organismo tende ad uno scopo, che è l’incivilimento e/o perfezionamento, fatto di cultura, di lusso, ma soprattutto di buona convivenza. Da qui la naturalità di un processo che «non abbisogna di spinte artificiali solamente ha bisogno delle condizioni della libera concorrenza» (ivi, p. 256). Si tratta di un processo che si svolge in modo endogeno e che non solo ha i suoi tempi, ma è anche proiettato in un futuro difficile da presagire. La perfezione dell’incivilimento funge, perciò, da modello per l’ordinatore dello stato ed è solo quando il grado di incivilimento sia stato raggiunto che «si può innestare la monarchia rappresentativa. Pria dunque che il corpo sociale abbia acquistato questo grado di incivilimento sarebbe impossibile di fondare o di mantenere questa specie di governo» (ivi, p. 215).
Si tratta dell’acquisizione «di uno spirito pubblico quale frutto di un tardo incivilimento che altro non è in sostanza che un’educazione sociale della natura e dell’industria umana... è l’opera non dell’individuo ma della specie, non di una sola vita ma di più generazioni» (Romagnosi 1850, p. 180).
Importanza ai fini della comprensione dell’incivilimento merita il tema della felicità, che rappresenta l’obiettivo della filosofia civile e che ha una dimensione squisitamente pubblica. Su questo tema Romagnosi ha molti debiti tra cui anche quello con gli Stati Uniti dell’America che «han fatto in cinquanta anni ciò che i conquistatori non fecero in 300» (Romagnosi 1832, p. 248). Ma il debito maggiore è certamente quello contratto con gli utilitaristi. La felicità si può raggiungere attraverso una fusione di diritti e doveri e solo collettivamente. Si tratta di tendere alla «massima felicità distribuita nel maggior numero», ma Romagnosi individua anche un obiettivo minimale che è compendiato nell’espressione che gli uomini siano «infelici meno che sia possibile». Si inserisce a questo punto anche il tema del bene comune, «nel che consiste la giustizia sociale» (Romagnosi 1850, p. 266), il cui riferimento chiarisce la preferenza di Romagnosi per l’interesse generale rispetto a quello individuale.
Romagnosi delinea, quindi, attraverso la legge naturale di socialità, una teoria della natura delle cose che prescrive «ciò che alla società umana è realmente necessario, dal momento che per l’autore all’origine delle società civili stanno proprio i ‘puri rapporti reali e naturali delle cose’; anche l’elemento del sapere è utile, ma esso interviene sempre con ruolo di supporto» (De Pascale 2012, p. 5).
Illuministicamente l’ordine naturale è anche un ordine di ragione; che si erge a modello nel momento in cui la vita associata si costituisce e intraprende il lento, continuo e inarrestabile cammino della propria evoluzione.
3. Dalla costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa alla repubblica costituzionale rappresentativa
Se il costituzionalismo è la cifra interpretativa del periodo in cui vive Romagnosi, esso è anche la cifra che permette di interpretare il pensiero di Romagnosi con riferimento al tema della sovranità nazionale, del consenso, della pubblica opinione, della rappresentanza.
Esiste una continuità tra il riformismo nel suo aspetto più avanzato che, pur restando collegato al dispotismo illuminato lo assume come mezzo per superare ogni visione assolutistica dello stato, da una parte, e, dall’altra, lo sbocco risorgimentale non solo inteso come moto unitario ma come moto tendente a organizzare uno stato a struttura costituzionale. Il pensiero di Romagnosi si gioca tra questi due poli. E nel suo pensiero si rintracciano tracce di quel settecento francese, che fa capo a un d’Holbach, che discute sul problema della rappresentanza, ma anche tracce delle esperienze inglesi verso le quali Romagnosi, sulla scia di Filangieri, si mostra piuttosto critico. Considera, infatti, la costituzione inglese una mostruosa meccanica dei poteri nella quale sopravvivono caste e privilegi (cfr. Romagnosi 1850, passim) contro i quali si è sempre schierato.
Anche le riflessioni sulla costituzione sono da ricollegare alla teoria dell’incivilimento. Romagnosi è consapevole della naturalità ma anche della storicità degli ordinamenti giuridici che rispecchiano il processo di incivilimento. Da qui le due massime contenute nell’elenco di principi validi universalmente: «Niuna generazione può assoggettare alle sue leggi le generazioni future, Tutte le leggi di diritto o di ordine pubblico, e tutte quelle che versano sopra oggetti che passano da una ad altra generazione sono rivocabili dalla generazione vivente» e «Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cangiare la sua costituzione», formulate nella Scienza delle Costituzioni (Romagnosi 1850, p. 600).
In Della costituzione di una monarchia nazionale rappresentativa (1815) Romagnosi si poneva il problema dell’importanza della costituzione e della sua produzione. Nella edizione postuma si legge: «Una buona costituzione è il miglior regalo che si possa fare al monarca e al popolo: al monarca per la sua potenza e per la sua gloria, al popolo per la sua sicurezza e la sua prosperità» (ivi, p. 6).
La funzione immediata della sovranità nazionale è la decretazione di una costituzione. Ma, accanto alla funzione immediata della sovranità nazionale, si pongono le altre funzioni, vale a dire la pubblicità degli atti amministrativi e la loro conoscenza e sono queste a doversi avvalere di rappresentanti. Questi saranno estratti a sorte tra gli eletti comunali di ciascun dipartimento, con l’obbligo al ricambio annuale affidato alla sorte come strumento anticorruzione. Il timore della corruzione sembra potersi risolvere, nell’impianto costituzionale romagnosiano, «nell’immedesimare, più che si può, l’interesse del rappresentante con quello del rappresentato» (ivi, p. 32) e con la proposta di costituire «la classe legislativa dei dotti», già impegnati nell’amministrazione pubblica a livello provinciale con cariche vitalizie, con la funzione di indagare lo «stato dell’amministrazione e i bisogni della Nazione».
Il problema della rappresentanza si collega col problema della legge fondamentale. L’importanza del diritto pubblico viene in primo piano e sembra che sotto questo rispetto Romagnosi segua alcune considerazioni presenti nella cultura italiana, anche meridionale, del suo tempo. Basterebbe ricordare il Testamento forense (1806) di Galanti che aveva rivelato l’importanza del diritto pubblico ai fini della definizione della forma di governo e dello spirito della nazione. Ed è sempre Galanti ad aver precisato che la legge fondamentale ha due aspetti: 1) la legge fondamentale come necessità di principi che determinano la forma di governo e le regole del suo funzionamento e 2) la legge fondamentale come costituzione. Qui interviene, o comincia ad intervenire, il problema politico del come si formi una costituzione su cui anche Romagnosi si soffermerà partendo dalla sua dottrina della compotenza.
La costituzione può essere considerata, infatti, come documento scritto contenente la legge fondamentale di una nazione ma anche come ordinamento, ossia come struttura e organizzazione del complesso delle istituzioni dello Stato
Nel suo primo significato, precisa Romagnosi: «per essere buona deve essere armonizzata nelle sue parti, disciplinata nel suo regime, guarentita nella sua esecuzione» (ivi, p. 7). Questi elementi formali sono strettamente legati alla base sociale. Anche su questo punto Romagnosi è legato ad alcuni fermenti, ancora solo in nuce, presenti nelle riflessioni del tempo sul fondamento sociale delle leggi. Si tratta di vedere nel principe non un arbitro esclusivo ma un “regolatore universale”, un ordinatore, un “mediatore”, delle diverse esigenze ed istanze sociali anche se con una sua sfera di autonomia, che Romagnosi intende preservare, ma anche disciplinare.
Per quanto riguarda l’armonizzazione essa avviene attraverso «poteri talmente distinti e così ben contrastanti, che, lungi dal collidersi, tendano all'opposto con una felice cospirazione ad eccitare e conservare robusta la vita dello stato», ovvero di un congegno dove appunto «il contrasto deve assomigliare a quello di una macchina bene costituita: [dove] tutto sia legato, ma le sue vibrazioni siano libere come quelle del cuore». Per quanto concerne la disciplina Romagnosi ritiene che una buona costituzione sia tale «quando le disposizioni sono specificate in modo che si sappia qual cosa far si debba da ognuno in tutti i momenti e le circostanze giornaliere dell'amministrazione» (ivi, p. 7).
Ma importante è anche l’accenno alla garanzia di esecuzione che avviene attraverso corpi o individui «rivestiti d'autorità», perché la stessa costituzione deve «dunque disporre e far muovere i poteri pubblici col reciproco conato delle passioni ordinarie tenute sempre in movimento colla speranza e col timore» (ivi, p. 8).
Un cenno importante Romagnosi fa anche alla «forza morale della pubblica opinione» che deve consolidare «la costituzione con una potenza tanto più forte, quanto è più libera e inesorabile; tanto più è estesa, quanto il pensiero è più esteso della realità» (ivi, p. 8).
L’opinione pubblica è anche il fondamento della moralità, ma essa è tale solo se possiede amor di patria e capacità di difesa (Romagnosi 1815, p. 122). La pubblica opinione può legare la società civile a quella politica solo se illuminata e savia, da qui un programma di educazione molto importante nella sua riflessione.
Si passa dal problema della legge fondamentale al problema del consenso e si tratta di un passaggio agevolato dall’unione di diritto, politica e morale su cui Romagnosi si sofferma e che può far pensare che la sua visione abbia sempre avuto quel fondamento repubblicano che si chiarirà quando preciserà le ragioni per cui sostituisce alla «monarchia costituzionale rappresentativa» la «repubblica costituzionale rappresentativa» (Romagnosi 1850, p. 186).
Romagnosi si pose per tutta la vita il problema di salvaguardare nella sua integrità e unità il potere del sovrano, ma, quando parla di repubblica costituzionale, usa il termine governatore e non solo quello di sovrano e riconosce apertamente la nazione come “potere predominante”, in cui deve essere riposta “l’ultima garanzia costituzionale”. I fermenti repubblicani sono chiari e il tema dell’unità nazionale è centrale così che può riprendere il neologismo etnicarchia come sinonimo di dominio nazionale, «il solo veramente repubblicano»: «Coll’escludere il potere assoluto si esclude essenzialmente la monarchia pura, l’aristocrazia pura, la democrazia pura ed ogni altro parziale governo, e si sostituisce l’etnicarchia, ossia il dominio nazionale, il solo veramente repubblicano, perocché tutto ciò che è parziale, non è veramente pubblico, e pubblico è soltanto ciò che si riferisce a tutto il complesso d'una società cosi che non si escluda parte alcuna di lei» (ivi, p. 188).
4. L’etnicarchia
La dimensione unitaria della nazione, che accompagna sempre la riflessione di Romagnosi, trova il suo sbocco nella etnicarchia, termine col quale si definisce il concetto di nazione e il principio di nazionalità, da sempre fondamentali nella sua riflessione. L’etnicarchia rappresenta la forma politica più sviluppata della civilizzazione, una forma di governo non più parziale, come potevano essere considerate appunto la monarchia pura, l’aristocrazia pura, la democrazia pura. È il destino che «chiama oggi ogni Nazione incivilita a costituirsi in un Corpo unico, regolare ed indipendente, il quale, forte per resistere agli urti esterni ed interni, somministri agli individui, ai quali la natura accomuni bisogni, lingua, genio ed interessi, tutti i soccorsi economici, morali e politici» (ivi, p. 197). Sia opera del destino, o del progressivo incivilimento delle nazioni, dovuto anche alla libertà dell’uomo, opera dunque del tempo e della natura, il «dominio nazionale» è compatibile solo con la repubblica nazionale rappresentativa; cioè con un governo unito, ma che nulla ha a che vedere con l’impero, con il «comando di una persona, avvalorato dalla potenza sociale». Il lento e inarrestabile sviluppo del potere economico, dell’agricoltura e dell’industria, e del potere morale, cioè della libertà religiosa e civile, tende incessantemente all’equilibrio dei «diritti» e delle «utilità». Equilibrio che si può esprimere solo nella costituzione politica basata sul principio dell’integrità nazionale (cfr. ivi, p. 252). Con la etnicarchia Romagnosi ritiene di poter far passare anche la filosofia politica al rango di scienza: «Credo dunque cosa degna della nuova èra, condotta dalla attuale pienezza dei tempi, di elevare la politica filosofia ad una scienza ultima ed universale che contempli la nazionale dominazione nella sua più eminente stabilità, come lo scopo-limite dell’arte sociale» (ivi, p. 252).
La perfezione, conseguita con l’incivilimento, non è però raggiungibile, ma serve da «modello e da meta»... alla quale «l’ordinatore dello stato» si sforzerà di avvicinarsi: «Benché l’ordinatore d'uno stato più o meno vicino alla sua maturità sia persuaso di non poter raggiungere mai questa perfezione, ciò non ostante essa gli serve di modello e di meta alla quale si sforzerà d'avvicinarsi» (ivi, p. 252).
L’etnicarchia, dominazione nazionale unitaria all’interno di un determinato territorio, è dunque un dover essere, la meta da raggiungere. Si innestano, a questo punto, anche le minuziose riflessioni romagnosiane sulle relazioni internazionali e sulla situazione europea a lui contemporanea, che costituiscono «un vero e proprio trattato di relazioni internazionali della restaurazione», attento allo «jus publicum europaeum così come si era consolidato durante il XVIII secolo e del sistema di ricostruzione derivante dalla Santa Alleanza postcongresso di Vienna» (Lanchester 2011, p. 12).
La potenza degli stati, costituiti sulla base del criterio dell’etnicarchia, si basa sull’equilibrio come principio fondamentale di politica estera, sulla capacità di «rispettare» e «farsi rispettare come l’intento pratico della politica fra le genti, raggiungibile attraverso il credito di confidenza ed il credito di considerazione» (ivi, p. 398). «Il credito di confidenza è costituito dall’opinione che si ha della lealtà o stabilità morale del principe o del gabinetto... Il credito di considerazione è costituito dall’opinione della potenza di quel dato stato politico» (ivi, p. 398).
A suo giudizio l’Europa è pronta per diventare un’Europa delle Nazioni, unitarie, indipendenti, rette da governi temperati. Si mostra critico, tuttavia, sui progetti federativi, «federazioni di pigmei» (ivi, p. 251), espedienti che non potranno mai sostituire l’unità nazionale.
La capacità di lettura della realtà politica e sociale è accompagnata in Romagnosi dal bisogno di sistematizzare che lo porta, dopo le considerazioni teoriche sulla costituzione, alla costruzione minuziosa di un progetto costituzionale nel quale si individuano alcune linee di tendenza e alcuni principi fondamentali tipici delle sue considerazioni teoriche. Innanzitutto la priorità data all’ordine, che già nell’Introduzione allo studio del Diritto pubblico universale (1805) considera il principio fondamentale dell’azione umana. Esso presuppone che differenti parti di una macchina cooperino al perseguimento del risultato opportuno, ciascuna nel suo funzionamento ma tutte unite tra di loro.
Quindi l’importanza data all’unità del potere, se per lui «Uno è l’interesse nazionale, una è la sovranità, una la rappresentanza, una la volontà sociale, uno ed ingenito il diritto di star meno male e di godere in proporzione dei servigi resi alla società. Una dunque deve essere la mano che tenga lo scettro per predominare le volontà particolari e dirigerle all’unità nazionale» (ivi, p. 199). Ma lo studioso ha anche la certezza che sia la comunità sociale, questo corpo naturale, che può anche essere interpretato come una macchina, un meccanismo di precisione, a dettare, attraverso la sua vita, le vie verso l’incivilimento, vale dire una meta di perfezione che si presenta come un dover essere che il buon ordinatore dello stato deve perseguire.
Romagnosi esalta la dignità dell’uomo che vive in una comunità sociale, fondamento di ogni realtà giuridica e politica di cui la costituzione segue lo sviluppo. Da qui l’importanza centrale della nazionalità nella quale la comunità di lingua e di storia si realizza: «La repubblica monarchica forma l’ultimo stato in cui si consuma e consolida la rivoluzione politica d’una nazione incivilita» (ivi, p. 414): «Dunque ogni governo veramente costituzionale è un governo essenzialmente repubblicano. La monarchia dunque veramente costituzionale è essenzialmente una repubblica con un capo governatore» (ivi, p. 170). Alla fine la sua visione prefigura una “concezione liberale”, fondata sulla contrapposizione che Romagnosi chiama «antagonismo costituzionale»: «un doppio antagonismo; l’uno diretto, e questo sarà quello dei tutori verso il governo; e l'altro indiretto, e questo sarà quello della nazione verso i suoi tutori» (ivi, p. 34).
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