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Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi

Mara Morini
Articolo pubblicato nella sezione "La rappresentanza politica tra quantità e qualità"

1. Introduzione

Nelle scienze sociali gli studi sulla rappresentanza politica hanno fornito un contributo determinante all’analisi del rapporto tra governanti e governati e al funzionamento dei regimi democratici rappresentativi. Ampio spazio è stato rivolto al legame tra la rappresentanza politica e la rappresentanza “sociologica” per indicare il livello di “rappresentatività”, somiglianza e similarità di colui o di colei che impersona alcune caratteristiche sociodemografiche presenti nella società nelle istituzioni politiche. Tuttavia, chi rappresenta può anche essere considerato un “delegato” o un “mandatario” che svolge un’attività in piena autonomia a nome di un qualcosa (un principio, un valore, un’idea, un programma) o di qualcuno/a (il rappresentato/a) nell’ambito di qualche associazione o istituzione. Spesso questa associazione ha costituito il fulcro delle analisi del nesso fra la rappresentanza politica e i regimi politici moderni, in particolare quello rappresentativo, ponendo in luce la rilevanza della procedura elettorale quale “condizione necessaria” (ma non sufficiente) per l’esistenza della rappresentanza politica. In questo caso il concetto di rappresentanza assume la valenza di “responsabilità”, ad esempio, di un governo, di un partito o di un candidato/a dinanzi al corpo elettorale che ha legittimato la sua posizione nelle istituzioni rappresentative attraverso le elezioni. In base alla teoria della rappresentanza come responsabilità i governanti rispondono delle loro azioni, “rendono conto” delle proprie scelte politiche agli elettori e il rapporto tra eletti ed elettori è basato sul processo di “aggregazione degli interessi” presenti nelle società ad opera dei partiti politici (cfr. Sartori 1995, pp. 285-327).
Storicamente, lo sviluppo dei partiti politici ha consentito di semplificare il quadro delle variegate domande, dei bisogni e delle volizioni dei cittadini e delle cittadine entro programmi politici o ideologie che hanno contraddistinto “l’età dell’oro” della democrazia partiti in Europa. Come vedremo, la trasformazione organizzativa e identitaria dei partiti politici di massa, iniziata nella seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, avrà implicazioni sulle modalità di processo della rappresentanza politica elettiva e sul rapporto di fiducia fra i governanti e governati. Accanto a questa concezione della rappresentanza partitica, che ha dominato l’elaborazione teorica e l’analisi empirica della scienza politica, si è affermato un filone di ricerca – “la teoria dei gruppi” - volto a studiare il processo di articolazione degli interessi dei gruppi presenti nella società (cfr. Mattina 2010). Quali sono i principali studi di questo fenomeno? Come si è sviluppato nel tempo? Quale tipo di interazione esiste tra la rappresentanza politica dei partiti e dei gruppi di interessi?
Nel tentativo di rispondere succintamente a queste domande occorre, prima di tutto, definire il concetto di interesse per poi descrivere l’azione dei principali soggetti coinvolti. Gli studi sinora condotti hanno dimostrato l’articolata e complessa realtà della rappresentanza degli interessi che assume configurazioni diverse in base a specifiche aree geografiche, alle caratteristiche (forma di governo, sistemi di partito, sistemi elettorali, governance, etc...) e al tipo di cultura politica dei sistemi politici dove le agenzie di rappresentanza operano con intensità ed effetti diversi nella produzione di politiche pubbliche (cfr. Ferrera 2011).
Nell’era della disintermediazione che ha cambiato il modo di dare voce alle varie richieste proveniente nella società, ha intensificato gli strumenti della lotta politica e ampliato il gap tra rappresentante e rappresentato, la rappresentanza degli interessi è ancora molto attiva nell’influenzare i decisori pubblici e merita ulteriori approfondimenti e ricerche nella riflessione politologica.


2. Il concetto di interesse e di gruppo politico

Il concetto di “interesse” risente delle trasformazioni politico-sociali avvenute nei secoli. Ha assunto, infatti, diverse sfaccettature che mettono in luce le dicotomie insite nel campo semantico del termine (cfr. Bitonti 2014, p. 670). L’interesse può essere inteso come un danno, un vantaggio, oggettivamente dato e soggettivamente percepito, materiale e immateriale, individuale e collettivo o un atteggiamento condiviso. Ogni concetto è riconducibile ad un periodo storico preciso e/o allo scopo dell’azione. Il concetto di “danno” risale al Medioevo quando l’interesse era considerato ciò che si otteneva dopo aver prestato una somma di denaro. L’idea del vantaggio si è diffusa con maggiore rapidità per indicare un tornaconto o un’utilità, che si contrappone all’idea negativa del danno, assumendo un’accezione decisamente più positiva. La differenza fra oggettivamente dato e soggettivamente percepito apre una serie di questioni di difficile risposta perché riguarda la valutazione ex ante o ex post degli attori, la loro razionalità, le loro percezioni o le dimensioni prescrittiva e descrittiva (cfr. Pritoni 2021, pp. 22-23). Generalmente si pensa che l’interesse produca un beneficio materiale, prevalentemente economico, ma può riferirsi anche alla sfera dell’irrazionalità, delle emozioni scaturite dalla sua componente immateriale. L’interesse individuale o collettivo rappresenta un punto cruciale per l’analisi della rappresentanza degli interessi. L’interesse o gli interessi rappresentati da un gruppo di natura collettivo sono l’attività precipua dei gruppi di interesse e di pressione nell’esercizio di influenzare le sedi del processo decisionale.
L’evoluzione storica e terminologica del concetto di interesse ci consentono di avere una definizione che tiene conto dei molteplici aspetti collegati all’attività dei gruppi politici. Nella letteratura politologica la più nota definizione è quella di David Truman (1951, p. 33) per il quale il gruppo di interesse è: «Qualsiasi gruppo che, sulla base di uno o più atteggiamenti condivisi, porta avanti certe rivendicazioni nei confronti di altri gruppi sociali per l’instaurazione, il mantenimento o l’ampliamento di forme di comportamento inerenti all’atteggiamento condiviso». Spostandosi su un’altra dimensione analitica, Philipe Schmitter (1992, p. 457) considera i gruppi di interesse come «organizzazioni di carattere permanente, dotate di personale a tempo pieno, che si specializzano nell’opera di individuazione, promozione e difesa degli interessi, influenzando o contestando le politiche pubbliche».
Al di là delle diverse definizioni che si riscontrano negli studiosi dei gruppi nella pubblicistica vi sono tre termini che solitamente sono utilizzati in maniera interscambiabile, pur presentando, in realtà, significative differenze concettuali e analitiche: gruppo di interesse, gruppo di pressione e lobby (lobbying).
In cosa si differenziano i gruppi di interesse da quelli di pressione o dalle lobbies? Questi termini non sono sinonimi perché con la prima espressione si sottolinea l’obiettivo, la finalità del gruppo ovvero l’”interesse” da perseguire. Il secondo indica l’azione, l’elemento dinamico e processuale dell’esercizio dell’influenza in riferimento all’uso della “pressione” (Petrillo 2019). Inoltre conta anche il luogo e la dinamica del processo decisionale. Nella letteratura anglosassone si predilige l’utilizzo del termine “gruppo di pressione” perché vi è una diversa concettualizzazione del policymaking. In Gran Bretagna dove il processo di formazione delle decisioni avviene nell’esecutivo (e con un ruolo decisivo del partito del governo: party government) i gruppi sono considerati come attori che premono nelle sedi del potere, ma non partecipano attivamente alla fase di formulazione delle decisioni. Negli Stati Uniti dove il processo decisionale è più policentrico si preferisce l’utilizzo del termine “gruppo di interesse” perché è maggiormente coinvolto nel processo decisionale dove la struttura e l’attività dei partiti politici è storicamente e nei fatti più debole.
L’idea della mobilitazione, dell’attivazione politica dell’interesse è, invece, associata all’idea di fare lobbying. Il termine lobbying richiama i corridoi (le lobbies) degli edifici parlamentari o degli alberghi dove i rappresentanti erano soliti incontrare gli esponenti dei gruppi di interesse. Tra le definizioni ricordiamo quella di Luigi Graziano (1995, p.13) in base alla quale il lobbying è «l’insieme di tecniche e di attività che consentono la rappresentanza politica degli interessi organizzati. Il lobbying è la faccia politica dei gruppi di interesse, una volta che decidano di perseguire finalità pubbliche (...) Ha come finalità quella di influire sulle decisioni dell’attività di governo tramite l’informazione e la mobilitazione di volontà politiche». In sintesi le lobbies sono agenzie di rappresentanza di interessi che si mobilitano politicamente attraverso scambio di informazioni a fini di persuasione tra legislatori e gruppi di interesse che possono ricorrere all’uso della minaccia di sanzioni (cfr. Pasquino 2004, p. 420).
Il termine lobbying ha assunto, specialmente in Europa e nei contesti privi di una seria legislazione/regolamentazione del fenomeno, una connotazione negativa associata a fenomeni di corruzione che non rientrano nel classico circuito della rappresentanza politica. Negli Stati Uniti o nell’ambito del policy making dell’Unione Europea l’attività di lobbying è molto frequente e incisiva a tal punto che sono previste delle vere e proprie scuole per lobbisti che imparano le tecniche di pressione e le competenze di natura giuridica, economica e tecnologica per poter incidere nella stesura dei draft legislativi.


3. La rappresentanza degli interessi: gli approcci

Nelle scienze sociali lo studio della rappresentanza politica degli interessi è riconducibile a due importanti approcci: il pluralismo (cfr. Bentley 1908; Truman 1951; Dahl 1961) e il neocorporativismo (cfr. Schmitter 1974; Lehmbruch 1982).
L’approccio pluralista trova un precursore in Alexis de Tocqueville e un momento fondativo degli studi sui gruppi politici con l’opera The Process of Government di Arthur Bentley che nel 1908 delinea un’analisi empirico-descrittiva volta a sottolineare quanto il processo decisionale sia influenzato dall’attività dei gruppi e come attraverso lo studio dei gruppi si possa comprendere ogni aspetto dell’attività politica: «quando i gruppi sono adeguatamente definiti, ogni cosa è definita. Dicendo ogni cosa, io intendo ogni cosa» (cfr. Bentley 1908: trad. it. 1983, p. 256). Il contesto americano favorisce lo sviluppo dell’attività dei gruppi organizzati nel processo decisionale anche in virtù del tipo di società civile fortemente basata sull’associazionismo che consente di analizzare le funzioni e le caratteristiche dei diversi gruppi di pressione. Nel tempo l’approccio pluralista si è sviluppato lungo tre direttrici di analisi: quella liberale, quella cristiano-sociale e quella socialista. L’adesione a ciascuno di questi filoni indica una concezione diversa del rapporto fra società e istituzioni. Nella concezione cristiano-sociale il ruolo della famiglia e della Chiesa assumono un ruolo significativo nella intermediazione tra individuo e Stato così come nella tradizione socialista le associazioni dei lavoratori sono fondamentali per la rappresentanza politica degli interessi. L’approccio liberale dà rilevanza alla volontà degli individui che si organizzano liberamente in gruppi per difendere i propri interessi. In questo caso i vari gruppi presenti nella società competono tra loro per l’accesso alle sedi decisionali del potere che ratificano la volontà dei cittadini/gruppi nell’implementazione delle politiche pubbliche. I gruppi sono raffigurati come girasoli che si orientano nella direzione della luce del sole (il potere) che rappresenta la sede decisionale. I vari gruppi presenti nella società si distinguono principalmente per la dimensione dell’organizzazione, per la quantità di adesioni, per l’expertise e per le risorse finanziarie. Avere tutti o una buona parte di queste caratteristiche può determinare una maggiore o minore incisività nel processo decisionale, ma mette, al contempo, in luce le differenze oggettive tra i gruppi. È nota la considerazione di Elmer Elric Schattschneider che «il coro pluralista canta con un forte accento dei quartieri alti» per indicare che non tutti i gruppi hanno uguali condizioni di accesso al potere e, conseguentemente, di influenzare il processo decisionale.
Nella seconda metà degli anni Settanta il neocorporativismo si afferma come un paradigma in netta contrapposizione all’approccio pluralista. Si basa sulla convinzione che è mutato il rapporto fra Stato e gruppi di interesse. Non si tratta di una competizione tra più gruppi, ma di un vero e proprio monopolio della rappresentanza politica degli interessi da parte di uno o pochi gruppi per settore. Attività peculiare di questi gruppi nell’ottica neocorporativa è il coinvolgimento degli interessi organizzati nel processo di policy. In questo caso è lo Stato che sceglie i propri interlocutori privilegiati - sindacati e le associazioni degli imprenditori (Berger 1981) – e non viceversa. Nell’impostazione metodologica di Schmitter l’analisi del ruolo di questi attori è rivolta prevalente alla dimensione dell’input ovvero della trasmissione della domanda sociale allo Stato; nella versione di Lehmbruch si pone l’attenzione al processo di output che studia i modi attraverso i quali le scelte si formano e vengono attuate. Come osserva Pritoni (2021, p. 65) il pluralismo e il neocorporativismo sono «modalità di rappresentanza degli interessi tra loro inconciliabili». I pluralisti rivendicano piena autonomia e libertà di esercizio della rappresentanza laddove gli interessi rappresentati dai neocorporativisti sono essenzialmente riconosciuti e selezionati dallo Stato. Tuttavia entrambi gli approcci sono stati fortemente criticati sia per la loro impostazione di base sia per la natura frammentata e settoriale del policymaking soprattutto in contesti di multi-level governance. L’approccio pluralista ripone molta fiducia nell’assidua mobilitazione degli individui per organizzarsi in gruppi e trascura la rilevanza dello Stato laddove l’approccio neocorporativo è stato efficace a descrivere la realtà della rappresentanza delle categorie negli anni Settanta quando il potere contrattuale dei lavoratori era decisamente più forte rispetto agli anni della globalizzazione economica.
Nell’incapacità di interpretare i mutamenti sociali e con essi i sistemi di rappresentanza degli interessi, si è diffuso un altro approccio - “processo di produzione dell’influenza”- che suddivide il processo di rappresentanza dei gruppi di interesse nell’analisi della mobilitazione, del lobbying, dell’accesso istituzionale e dell’influenza. La ricerca empirica al momento è prevalentemente focalizzata in Occidente, con approfondimenti dei casi degli Stati uniti e dell’Unione Europea, ma stanno emergendo anche altre aree geografiche quali i Balcani, l’Europa dell’Est e il continente africano.
Elaborato da David Lowery e Virginia Gray (2004) il processo di produzione dell’influenza mira a spiegare il processo attraverso il quale i gruppi di interesse si mobilitano, accedono nelle sedi del potere per influenzarne il processo di policy. Lo studio della rappresentanza degli interessi ad opera dei gruppi non si concentra prevalentemente sul ruolo dei gruppi nel sistema politico (livello macro), o nel settore di policy  (livello meso), ma studia le singole azioni (livello micro) dei gruppi nelle diverse fasi del processo decisionale. La globalizzazione, l’internazionalizzazione e l’europeizzazione delle politiche pubbliche hanno de facto cambiato l’approccio allo studio della rappresentanza degli interessi ad opera dei gruppi, ma non hanno modificato la rilevanza che essi assumono nei processi di intermediazione della politica.


4. Gruppi di pressione e partiti politici: due facce della stessa medaglia?

Se la teoria dei gruppi considera il processo di rappresentanza degli interessi come una funzione che nasce nella società e, quindi, di natura extra-parlamentare, è altresì vero che anche i partiti politici, soprattutto quelli di massa, dotati di una forte organizzazione territoriale, sono agenti aggregatori dei molteplici e variegati interessi della collettività. Nella letteratura scientifica raramente i due approcci - teoria dei gruppi e dei partiti politici - hanno avuto punti di contatto; gruppi e partiti politici sono stati per lo più considerati come corpi intermedi alternativi con un gioco a somma zero all’interno del processo di rappresentanza. Alcuni tentativi di individuare punti di contatto tra i due attori si sono basati su alcune specifiche dimensioni d’analisi: il grado di contatti formali e informali, l’affinità ideologica, le dimensioni materiali e strategiche.
Da un punto di vista teorico il concetto di gruppo di interesse e di partito politico sembrano essere species del genus gruppo politico (cfr. Pasquino 2016, p. 419) nel quale l’adesione volontaria, la minore o maggiore dimensione dell’organizzazione, la funzione di aggregazione (processo di formulazione di domande alle strutture decisionali ) e articolazione degli interessi (la conversione di domande in scelte politiche alternative) non sembrano fornire dimensioni discriminanti i due attori politici. Vi è, quindi, la convinzione che i partiti politici si possono distinguere dai gruppi di interesse perché sono gli unici attori che competono alle elezioni e gestiscono direttamente il potere attraverso il personale politico che ottiene cariche pubbliche (cfr. Fisichella 1972, p. 21). Ad una più attenta analisi le differenze tra i due attori politici sembrano riguardare anche la capacità mobilitativa, il grado di responsabilità, il tipo di membership e lo status giuridico. I gruppi di pressione mobilitano minoranze, hanno un’adesione volontaria dei membri che nasce dall’esigenza di difendere o sostenere una singola questione politicamente rilevante (issue) ed è contemplata la contemporanea appartenenza degli individui a più gruppi. I gruppi sono associazioni private che non rendono pubbliche le iscrizioni e non sono valutati pubblicamente per le loro attività. I partiti lottano per il potere attraverso la persuasione della maggioranza degli elettori cui sono responsabili nell’esercizio delle funzioni di governo; come tali i partiti sono attori disciplinati giuridicamente i cui atti sono pubblici e l’iscrizione al partito è esclusiva; l’iscrizione determina diritti e doveri nei confronti dell’organizzazione e della dirigenza di partito.
Tuttavia, l’evidenza empirica dimostra che pur essendo “attori simili, ma diversi”, i partiti politici e i gruppi di pressione hanno avuto rapporti di reciproca interpenetrazione. Vi sono stati casi in cui i gruppi di pressione hanno controllato i partiti attraverso il finanziamento, l’attività di reclutamento della classe dirigente e le scelte politiche; parimenti, i partiti hanno controllato i gruppi in modo tale da diminuire l’autonomia rappresentativa dei gruppi e di specifici interessi settoriali. Anche se vi possono essere punti di contatto comuni su alcuni temi, i partiti politici solitamente hanno programmi politici molto puntuali che non rappresentano espressamente la singola volontà dei gruppi, ma sono plasmati dalla struttura delle fratture sociali (cleavages) la cui politicizzazione delinea il quadro dell’offerta politica nella competizione elettorale (Rokkan 1970, Schattscheneider 1960).
È con la trasformazione organizzativa e ideologica del partito di massa che si può notare un primo allontanamento teorico ed empirico dall’attività dei gruppi di pressione. L’affermazione del partito “pigliatutti”, svincolato da principi ideologici e dove la competizione elettorale assume sempre più un ruolo rilevante (cfr. Kichheimer 1966), ha modificato il ruolo dei gruppi di pressione, come il caso dei sindacati e dei partiti socialdemocratici hanno messo in rilievo a causa delle dinamiche politiche ed economiche collegate alla globalizzazione e all’internazionalizzazione dei mercati. Quest’ultimi hanno rielaborato la propria piattaforma programmatica passando dalle questioni di welfare a quelle della difesa dei diritti civili e della tutela dell’ambiente.
Il vuoto politico, lasciato dai partiti politici di massa nella rappresentanza di specifiche tematiche ritenute rilevanti per le comunità sociali, è stato riempito da altri gruppi che sono espressione di un associazionismo e di un capitale sociale in crescente evoluzione. I gruppi di pressione sono stati intesi come “cinghie di trasmissione” in una società sempre più frammentata (cfr. Rasmussen e Reher 2019), ma i processi di europeizzazione delle politiche pubbliche in un sistema di governance multilivello hanno ulteriormente messo in rilievo la difficoltà del processo di aggregazione degli interessi da parte dei partiti politici e delle istituzioni.
Che fine ha fatto, quindi, la “speciale alleanza” (cfr. Minkin 1991) tra i due attori? L’analisi empirica ha dimostrato che esistono ancora legami tra partiti (socialdemocratici) e gruppi di interessi, ma il caso italiano, che si era caratterizzato per la loro “parentela” (cfr. La Palombara 1964; Morlino 1991) con i partiti politici, risulta essere completamente diverso con un ruolo decisamente più dilagante degli attori burocratici e dei gruppi di interesse (cfr. Capano, Lizzi e Pritoni 2014). I partiti hanno perso la loro funzione di gatekeepers degli interessi, soprattutto nell’Europa occidentale, hanno diminuito la capacità di ascolto e rappresentanza delle istanze provenienti dalla società, ma sono diventati sempre più parte integrante delle istituzioni (cfr. Ignazi 2012). Come aveva osservato Schattscheneider, -«la debolezza dei partiti è più visibile della forza dei gruppi di pressione»; «l’efficacia dei gruppi di pressione è direttamente legata alle condizioni dei partiti. I gruppi prosperano sulla debolezza dei partiti»; «La condizione fondamentale per la prosperità di un sistema di pressione crescente, è un sistema di partito in cui questi non sono in grado di usare il loro potere» (Schattschneider 1960; trad. it 1998, p. 29).


5. Conclusione

Da questo breve excursus sulle principali teorie che hanno analizzato la nascita, le funzioni e lo sviluppo nel tempo delle principali agenzie di rappresentanza - gruppi e partiti politici - il quadro che emerge non è del tutto negativo. Abbiamo visto come i gruppi di pressione sono attori indispensabili per il pluralismo della rappresentanza degli interessi perché possono migliorare la qualità del processo decisionale e la quantità di istanze rappresentate. I gruppi di pressione possono, infatti, socializzare il conflitto, dare una voce a chi non riesce ad essere rappresentato dai partiti tradizionali e ottenere la possibilità di influenzare l’agenda politica di un governo. I gruppi possono costituire un “contropotere all’azione dei governanti” chiusi nelle loro sedi del potere e possono esercitare il controllo sulle scelte che riguardano determinate aree di policies. Tuttavia, i gruppi devono essere organizzazioni più trasparenti nei bilanci, nella democrazia interna e nel tipo di interessi rappresentati. Meno interessi privati e più interessi pubblici che possano riguardare anche il «modo di dare espressione agli interessi non organizzati perché più deboli e forse elettoralmente meno corteggiabili: gli interesse degli emarginati, dei pensionati, dei poveri, de vecchi, e al limite, dei consumatori» (Pasquino 2016, p. 424). È, altresì, opportuno che i regimi democratici rappresentativi si adoperino per regolamentare bene l’attività dei gruppi di pressione per garantirne trasparenza ed efficacia nella dinamica di rappresentanza degli interessi.
La trasformazione e la crisi dei partiti politici hanno, paradossalmente, favorito la dispersione della rappresentanza degli interessi tra numerosi attori di varia natura. Da un lato, sono proliferati associazioni, movimenti, think tank, policy community, issue networks o account Internet che offrono una “iper-rappresentanza” occasionale e instabile (cfr. Mastropaolo 2015). Dall’altro lato, i partiti si sono adattati all’ambiente in cui operano e sono ricorsi all’uso dei mass media, in particolare i social media, perché meno dispendiosi e più agevoli per veicolare i messaggi agli elettori. A livello di élite, il processo di disintermediazione della politica ha posto le condizioni per l’affermazione di una ipo-rappresentanza che ha bypassato i corpi intermedi e favorito i processi di leaderizzazione e personalizzazione della politica. In base a queste prospettive la rappresentanza politica non è quantitativamente in crisi, ma è opportuno ripensare la funzione dei corpi intermedi nella società e il loro spazio fra i cittadini e lo Stato per conservare una buona qualità della democrazia, connessa al criterio di responsabilità (accountability) dell’operato dei governanti nei confronti dei governati e, quindi, ad una valutazione complessiva del rendimento sociale.


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