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I demoni e il diavolo. I dilemmi etici della politica in Max Weber

DIMITRI D’ANDREA
Articolo pubblicato nella sezione "Chi è senza peccato..."

Premessa

I demoni e il diavolo sono figure ricorrenti nell’ultimo Weber. Metafore utilizzate insistentemente per mettere a fuoco due questioni distinte e anche due diverse accezioni del male. La dedizione esclusiva del singolo ad un demone (Dämon) - alla potenza impersonale che incarna – è la condizione indispensabile per il conferimento di un senso alla vita nella sua interezza in un mondo segnato da un insuperabile pluralismo dei valori e degli ordinamenti di valore (politeismo). Come lo Stato, il demone è sempre uno fra molti. Il male è in questa prospettiva l’esito della diversità, coincide con i demoni degli altri, con altri tipi di bene che non sono quello che il singolo ha deciso di servire con tutte le proprie risorse di tempo e di capacità.
Il diavolo (Teufel), invece, è l’altro interno, l’opposto di uno specifico bene nell’ambito di uno stesso ordinamento di valore. Ed è in particolare intorno al diavolo come potenza del male etico che si sviluppano le riflessioni weberiane in Politica come professione. La politica si configura, infatti, come un ordinamento di vita in cui la possibilità del senso riposa interamente sulla connessione con potenze etiche e in cui tuttavia il rapporto con le potenze diaboliche del male etico diviene inesorabile non appena ci si incammini sul sentiero dell’etica della responsabilità. È il tema dell’irrazionalità etica del mondo: chi fa politica seguendo l’etica della responsabilità accetta di avere a che fare con il diavolo, con un mondo nel quale il male può produrre il bene e dal bene può scaturire il male. Il male non è semplicemente il ricorso alla violenza, ma l’uso della violenza come mezzo per il bene, l’esecuzione di un atto eticamente illegittimo dal punto di vista etico-intenzionale che in una prospettiva etico-responsabile diviene doveroso in virtù dei suoi effetti, delle conseguenze che produce. Senza cessare però di essere in sé eticamente malvagio.
«Il diavolo è vecchio» sentenzia Weber. Come il mondo, verrebbe da dire. Per entrare in contatto con la sua potenza senza esserne travolti occorre maturità (Reife): consapevolezza della complessità - dell’inestricabile commistione fra bene e male che caratterizza il mondo -, capacità di sostenere il peso delle proprie azioni e della rinuncia alla purezza etica che l’impegno politico comporta e, infine, senso del limite per il male che si è disposti a fare in funzione del bene. È questo il “momento Lutero”, il ruolo essenziale dell’etica dell’intenzione come garanzia di un limite al contatto con le potenze diaboliche, come riserva di trascendenza capace di rendere la politica attività nel mondo, ma non completamente del mondo.


1. Un mondo di dèi

A partire dagli scritti del 1916 si succedono con regolarità, sia pure con alcune variazioni, i riferimenti weberiani al politeismo e al pluralismo delle divinità come concezione metafisica adeguata della relazione fra le sfere di valori e i differenti valori al loro interno (cfr. Weber 1917a, p. 563). La pluralità degli dèi diviene una delle cifre caratterizzanti dell’immagine del mondo (Weltbild) di Weber (cfr. D’Andrea 2012): «Il vecchio e sobrio empirista John Stuart Mill ha detto che a partire dal terreno della pura esperienza non si arriva ad un Dio; a me sembra d’uopo aggiungere: meno che mai si arriva ad un Dio della bontà, quanto piuttosto al politeismo» (Weber 1916, p. 42). Il mondo è caratterizzato da un pluralismo che non può essere in alcun modo superato perché su ciò che ha valore non si dà scienza. Quella fra i valori è una scelta senza fondamento: una questione di fede. Il valore è il risultato di un investimento soggettivo che si appoggia su argomenti, ma che è sottratto alla logica della dimostrazione e della scienza.
Se la mancanza di oggettività è uno dei tratti distintivi della filosofia weberiana dei valori, il riferimento al politeismo antico carica la relazione fra i valori di un carattere intrinsecamente conflittuale: «chi vive nel “mondo” (nel senso cristiano) non può esperire in sé nient’altro che la lotta tra una moltitudine di valori dei quali ognuno, considerato di per sé, sembra obbligante. Egli deve scegliere quale di questi dèi vuole o deve servire oppure quando vuole o deve servire l’uno o l’altro. Allora però egli si troverà sempre in lotta con uno o più degli altri dèi di questo mondo e in special modo si troverà sempre assai lontano dal Dio del cristianesimo, o almeno da quel Dio che veniva annunciato nel sermone della montagna» (ivi, p. 42). Il pluralismo del politeismo non è dell’ordine della coesistenza (cfr. Alagna 2012, pp. 203-17): come fra gli dèi antichi le relazioni fra i valori si dispongono all’insegna della lotta, dell’alternativa inconciliabile, della pretesa di esclusività.
Nel mondo cristiano la consapevolezza di una pluralità di valori che come divinità si trovano in lotta tra loro per il controllo della condotta umana è stata soppiantata dalla fede in un senso etico oggettivo del mondo. L’immagine del mondo come creazione di un Dio buono e onnipotente che avanza esigenze di tipo etico-pratico e promette redenzione dal male e dalla sofferenza di questo mondo ha dato vita ad un monoteismo etico in cui tutti gli altri valori e ordinamenti di vita sono stati subordinati o svalutati. Nella professione di fede politeista di Weber c’è, dunque, qualcosa di più della “semplice” presa di posizione individuale di chi si autodefiniva completamente privo di sensibilità religiosa (religiös absolut unmusicalich). Il ritorno del politeismo è, infatti, anche un fenomeno sociale legato agli effetti del processo di secolarizzazione, ad una Zeitdiagnose (cfr. D’Andrea 2005) che descrive il proprio tempo come «epoca lontana da dio e priva di profeti» (Weber 1917b, p. 40).
Ad impedire, tuttavia, che si tratti di semplice ritorno interviene una delle categorie più celebri e celebrate dell’universo concettuale weberiano messa a punto intorno al 1915 nel crogiuolo degli studi sulle religioni mondiali e in particolare sul Confucianesimo. Il nuovo politeismo è, infatti, prodotto e fenomeno interno a quel processo di disincantamento del mondo «proseguito per millenni»: «Avviene come nel mondo antico, non ancora sottratto all’incanto dei suoi dèi e dei suoi demoni, ma soltanto in un altro senso: come i Greci sacrificavano ora ad Afrodite e ora ad Apollo, e soprattutto ognuno agli dèi della propria città, così è ancor oggi, che ci siamo disincantati e spogliati della veste mitica, ma intimamente vera, di quell’atteggiamento. Su questi dèi e nella loro lotta domina il destino, non certo la “scienza”» (ivi, p. 33). Disincantamento significa guadagno di oggettività, di impersonalità. Detto altrimenti: perdita di potere del soggetto a vantaggio di forze governate da logiche oggettive e universali (cfr. Accarino 2005, pp. 164-172). A differenza di quello degli dèi, il pluralismo dei valori richiede una scelta che non ammette negoziazioni, né eccezioni da parte del soggetto perché è il prodotto di un incremento di trascendenza: «Gli antichi dèi, spogliati del loro incanto e perciò in forma di potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e ricominciano la loro eterna lotta» (Weber 1917b, p. 34). Il singolo individuo può soltanto scegliere quale dio servire.
Il diavolo (Teufel) è in questo scenario il significante dell’intensità del conflitto fra i valori: «Tra i valori, cioè, si tratta ovunque e sempre, in ultima analisi, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra “dio” e il “demonio” [Teufel]» (Weber 1917a, p. 563). Il diavolo viene convocato per esprimere quell’opposizione inconciliabile che il “due” restituisce meglio della pluralità: «Dipende dalla propria presa di posizione ultima che questo sia il diavolo [Teufel] e quello il dio [Gott], e l’individuo deve decidere quale sia per lui il dio e quale il diavolo [Teufel]» (Weber 1917b, p. 34). Valori e sfere di valore stanno fra loro in un contrasto così radicale come il bene e il male in campo etico. La pluralità deve essere interpretata come proliferazione della logica oppositiva radicale del “due” e non come un suo annacquamento relativistico.


2. La scelta del demone: il senso come esigenza, la vocazione come servizio

Questo universo plurale e polemico, fatto di alternative inconciliabili e di esigenze di posizionamento, non si configura, tuttavia, come un dato oggettivo, come un destino - una necessità ineluttabile – che si impone all’individuo indipendentemente dall’assunzione di una specifica postura soggettiva: «Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover riconoscere quei contrasti e nel dover quindi considerare che ogni singola azione importante, e soprattutto la vita nel suo insieme – se essa deve non già scorrere via come un evento naturale, bensì essere diretta consapevolmente – rappresenta una concatenazione di decisioni ultime, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il proprio destino, il che vuol dire il senso del suo agire e del suo essere» (Weber 1917a, p. 563). Il conflitto fra sfere di valore - e fra valori - e la necessità della scelta fra queste potenze alternative è la dimensione a cui si accede se e quando ci si pone la questione del senso e si comincia a pensare alla propria vita come una totalità del cui essere (stata) così e non altrimenti si deve e si può rendere ragione.
Ma il senso possiede anche una dimensione intensiva. Accanto all’alternativa fra senso e natura, consapevolezza e inconsapevolezza, necessità e libertà esiste una gradualità del senso, una intensità della sua esigenza che costituisce un fattore decisivo per l’inasprimento del conflitto fra valori e fra le sfere di valore: «Tra di essi [i valori] non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso. Ben inteso, non è possibile in base al loro senso» (ibidem). Più la richiesta di senso si radicalizza, più il pluriverso politeista diventa conflittuale, maggiore è il tasso di esclusività della dedizione richiesta dai singoli demoni. È il fenomeno della sublimazione [Sublimierung], della progressiva messa a fuoco della logica specifica che governa valori, sfere di valore e ordinamenti di vita e della conseguente crescente consapevolezza delle loro differenze.
Contro le esigenze di senso e contro la pretesa di dare un senso alla vita come un tutto milita l’aspirazione alla comodità della vita quotidiana: «La superficialità della “vita quotidiana”, in questo senso più autentico del termine, consiste appunto nel fatto che l’uomo il quale vive entro di essa non diventa consapevole, e neppure vuole diventarlo, di questa mescolanza di valori mortalmente nemici, condizionata in parte psicologicamente in parte pragmaticamente e del fatto che egli si sottrae piuttosto alla scelta tra “dio” e il “demonio”, evitando di decidere quale dei valori in collisione tra loro sia dominato dall’uno, e quale invece dall’altro» (ibidem). La domanda di senso introduce un elemento di disagio nella vita. Il senso come frutto molesto dell’intellettualismo ha la capacità di rendere più scomoda la vita: la consapevolezza della necessità di scegliere e del carattere inconciliabile delle alternative appesantisce la vita. Per questo l’individuo in qualche misura resiste: il suo desiderio di una vita comoda passa, in primo luogo, per la rimozione - o la mancata acquisizione - di questa preoccupazione per il senso della vita come un tutto.
L’innaturalezza del senso, la scomodità dell’intellettualismo non allude, tuttavia, in Weber ad una sorta di possibile immediatezza del rapporto dell’uomo con il mondo. Anche dove non c’è pretesa di senso, non può esserci accesso al mondo che non passi per la costruzione di significati. Per Weber il mondo è un’infinita pluralità di enti singolari a cui si accede soltanto attraverso la costruzione di significati, attraverso la descrizione della pluralità delle relazioni che consentono di definire individualità e di stabilire somiglianze e appartenenze. Il senso, invece, è la struttura della relazione ad altro che giustifica l’esser così di un ente. Rimanda ad una scelta e contiene un ineludibile riferimento alla trascendenza anche se variamente declinabile. Porre la questione del senso della vita come un tutto significa postularne la intrinseca assenza di valore e ricercarne il senso nella relazione con qualcosa di dotato di valore che ne trascenda la singolarità: una regola, una causa, un ordine (cosmo), una tradizione.
Decisiva è qui la forma della relazione. Il senso è il prodotto di una dedizione, di un mettersi al servizio di qualcosa che trascende la particolarità individuale e la sua finitezza: «Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza. Passione nel senso di Sachlichkeit: dedizione appassionata a una “causa”, al dio o al demone che la dirige» (Weber 1919, p. 101). È l’individuo che si pone al servizio di Dio, non Dio che viene convocato al servizio dell’individuo. Cristo è la domanda che interpella e inquieta – che interrompe e sconvolge la comodità della vita quotidiana -, non la risposta alle esigenze vitali ed esistenziali dell’individuo. In linea con questo paradigma teologico, del resto, è anche l’origine della relazione con la trascendenza: la dedizione non nasce da una scelta individuale arbitraria, ma da una vocazione, dalla risposta ad una chiamata con la quale il soggetto è scelto: «Ne vogliamo trarre l’insegnamento che anelare e attendere non basta, e faremo altrimenti: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo alla “richiesta di ogni giorno” [Forderung des Tages] – come uomini e nella nostra attività professionale. Ma ciò è semplice quando ognuno abbia trovato e obbedisca al demone [Dämon] che tiene i fili della sua vita» (Weber 1917b, p. 44).


3. Ecce diabolus: il male come inseparabile compagno del bene

Ma il diavolo non è soltanto l’intensivo del demone, la figura metaforica per esprimere la conflittualità radicale fra gli dèi del politeismo moderno. In Weber il demonio è anche e soprattutto il nome del male, non di una generica alterità di valore (un altro bene, un bene altro), ma del negativo del bene, della sua negazione specifica. Il diavolo è il nome del male come altro dal bene e non come altro bene. Ed è in questa chiave che il diavolo, il demonio, le potenze diaboliche entrano e giocano un ruolo di primo piano nella riflessione weberiana sulla politica: «Chi vuol fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. […] egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza» (Weber 1919, pp. 116-7). La politica ha a che fare con la violenza. Non è certamente soltanto violenza, ma sicuramente non può rinunciare integralmente ad essa. E questo perché la violenza della politica non è per Weber in primis quella della guerra e del conflitto con altri gruppi politici, quanto piuttosto quella esercitata a garanzia della validità degli ordinamenti, quella praticata sui membri del proprio gruppo.
Ma la violenza di cui si serve il politico di professione non è buona in sé, non viene praticata come un bene, magari un bene altro rispetto all’amore del prossimo. Possiede piuttosto le vesti del male necessario: è qualcosa che si fa non perché è bene, ma perché serve al bene, perché è un male indispensabile al bene. È in questo legame con il male la dimensione drammatica della politica: da una parte l’agire politico - del leader e delle masse - può essere dotato di senso soltanto in virtù del perseguimento di una causa (Sache) eticamente qualificata, dall’altra questa causa – questa finalità etica – può essere perseguita soltanto attraverso il ricorso a mezzi eticamente riprovevoli. Mezzi che vengono ritenuti tali anche e proprio da chi vi fa ricorso, e che vengono “riscattati” soltanto in virtù dei loro effetti. La giustificazione dei mezzi attraverso il fine non cambia la natura e la valutazione etica dell’atto in quanto tale. Lo “redime” trasferendo la valutazione dall’atto alla catena degli effetti che produce, ma non ne cambia la natura etica: la violenza rimane un male. E non si tratta soltanto della violenza. L’agire politico si serve ordinariamente – o può servirsi, se necessario - di una vasta gamma di comportamenti eticamente esecrabili: dall’inganno alla menzogna, dal tradimento della fiducia o della parola data alla violazione dei diritti soggettivi.
È del tutto evidente che la relazione con il diavolo è direttamente connessa all’adozione di una postura etico-responsabile: «Tutto ciò a cui si aspira mediante l’agire politico, che opera con mezzi violenti e sul terreno dell’etica della responsabilità, mette in pericolo la “salvezza dell’anima”» (ivi, p. 118). Chi segue la Verantwortungethik accetta di venire a patti con il diavolo perché il proposito di cambiare il mondo deve prendere atto che nel mondo dal bene non può derivare soltanto il bene e dal male soltanto il male. Impegnarsi per cambiare il mondo significa farsi carico della inestricabile commistione di bene e di male che può comportare la necessità di compiere il male per conseguire un bene più grande. Essere posseduti dal demone della politica significa, dunque, per Weber mettersi al servizio di una causa – di una trasformazione del mondo – eticamente giustificata che richiede di assumere l’irrazionalità etica del mondo come orizzonte intrascendibile e, conseguentemente, la possibilità di fare il male per ottenere il bene come una necessità insuperabile. Il demone della politica richiede un patto con il diavolo: «Anche i primi cristiani sapevano molto bene che il mondo è governato da demoni [Dämonen] e che chi ha a che fare con la politica – vale a dire con la potenza [Macht] e con la violenza [Gewaltsamkeit] – stringe un patto con potenze diaboliche [diabolischen Mächten] e che, per ciò che riguarda il suo agire, non è vero che dal bene può derivare solo il bene e dal male solo il male, ma spesso accade il contrario. Chi non lo vede, è di fatto politicamente immaturo [ein Kind]» (ivi, p. 113).
La pericolosità del diavolo, la sua capacità tentatrice è legata alla necessità del male per la realizzazione del bene. La forza del diavolo è la mescolanza, la contaminazione, il reciproco implicarsi di ciò che è assiologicamente eterogeneo. Il mondo è il regno del diavolo non perché l’agire umano è dominato (secondo un certo realismo politico) da motivazioni egoistiche o amorali, ma perché anche i progetti eticamente qualificati non possono che essere realizzati con e attraverso il male. Il mondo è il regno del diavolo perché è eticamente irrazionale, perché è quell’insieme di fenomeni in cui male e bene sono inestricabilmente connessi, in cui non c’è coerenza assiologica fra le azioni e i loro effetti, in cui manca la chiarezza delle distinzioni e la nettezza dei confini. Il diavolo è di questo mondo perché in questo mondo bene e male sono inestricabilmente e paradossalmente connessi.


4. Il diavolo è vecchio, le sue vie tortuose

Se la tentazione del diavolo è la responsabilità per il mondo, perché non declinare tale responsabilità e adottare una postura etico-intenzionale che si disinteressa degli effetti sul mondo e si concentra esclusivamente sulla qualità assiologica della singola azione? Perché non rinunciare definitivamente a fare il male per produrre il bene ed agire solo ed esclusivamente per testimoniare le capacità etiche dell’uomo?
A questo nodo di questioni la risposta di Weber si muove su due piani distinti: uno strettamente individuale, l’altro relativo al mondo nella sua oggettività. Sul piano etico individuale la risposta è esplicita e insistita in tutta la conferenza: l’estrema difficoltà e l’assoluta radicalità richiesta dalla purezza (etica). La purezza è dei santi e di loro soltanto: se si sceglie di seguire la via dell’etica dell’intenzione «si deve essere santi in tutto, quanto meno nella volontà, si deve vivere come Gesù, come gli apostoli, come San Francesco e i suoi pari, e solamente allora questa etica è dotata di senso ed è espressione di una dignità. Altrimenti no» (ivi, p. 108). Non è vero che in termini assoluti la purezza non è di questo mondo, ma è tuttavia estremamente rara e richiede virtù etiche straordinarie per lo più indisponibili ai comuni mortali. La difficoltà estrema della purezza etica è legata in primo luogo alla radicalità della rinuncia ai beni del mondo che questa comporta: «Propriamente i Vangeli non si oppongono in maniera specifica alla guerra – che essi non menzionano particolarmente -, bensì si oppongono in definitiva a tutte le possibili istituzioni giuridiche proprie del mondo sociale, se questo vuole essere un mondo della “civiltà” dell’al di qua, cioè della bellezza, della dignità, dell’onore e della grandezza della “creatura”. Chi non trae le necessarie conseguenze, Tolstoj stesso lo ha fatto solo in prossimità della morte, dovrebbe sapere che rimane giocoforza legato alle istituzioni giuridiche proprie del mondo dell’al di qua, le quali contemplano per un tempo incalcolabile la possibilità e l’inevitabilità della guerra per la potenza» (Weber 1916, p. 42).
Già in questa presa di posizione si affaccia, tuttavia, una seconda ragione di difficoltà della purezza. Una ragione tutta cognitiva: il mondo è complesso e il diavolo persegue vie tortuose. Disincagliarsi dalle ambiguità, dalle ambivalenze del mondo per essere intonso dai suoi lati oscuri, dal male che si annida nelle sue pieghe è difficile perché il male segue vie complicate e chi pensa che la purezza (in ogni ambito) sia semplice è un ingenuo destinato a vedere deluse le proprie aspirazioni. Non solo nell’etica: «E ciò vale anche e precisamente per quel punto di vista, l’intellettualismo, che la gioventù – come oggi fa, o per lo più si immagina semplicemente di fare – odia come il peggiore dei diavoli [Teufel]. A essa si conviene infatti il detto: “Badate, il diavolo è vecchio; invecchiate e lo capirete” [Bedenkt, der Teufel, der ist alt, so werdet alt ihn zu verstehen]. Ciò non nel senso dell’atto di nascita, ma nel senso che, anche di fronte a questo diavolo [Teufel], se si vuol farla finita con lui, non vale ricorrere alla fuga, come avviene oggi così volentieri, ma bisogna scrutare fino in fondo le sue vie per vedere la sua potenza e i suoi confini» (Weber 1917b, p. 39). Per sfuggire al male occorre rifuggire da soluzioni semplicistiche, occorre avere la consapevolezza della complessità del mondo e della indisponibilità di soluzioni immediate. La forza del diavolo sta la complessità e la contraddittorietà del mondo: acquisirne consapevolezza è la condizione per non restarne irretiti.
C’è poi il piano di ragionamento che riguarda il rapporto fra etica dell’intenzione e mondo. Quali sono gli argomenti weberiani contro l’adozione di un atteggiamento etico-intenzionale? E questo rifiuto riguarda soltanto l’etica dell’intenzione come guida per l’agire politico? La risposta esplicita di Weber a questa domanda o dilemma etico è innanzitutto che l’adozione di un atteggiamento etico-intenzionale significherebbe rinunciare alla politica, ad un ordinamento di vita incapace di essere definitivamente ed integralmente emancipato dalla violenza strumentale. Questa risposta lascia, tuttavia, aperta la questione più radicale: non varrebbe allora la pena di prendere definitivamente le distanze da un mondo - quello politico - così irrimediabilmente compromesso con il male, e dedicarsi alla salvezza dell’anima lontano dalla violenza e dal male necessari a combattere politicamente il male e l’ingiustizia? Detto altrimenti: quali sono le ragioni della doverosità etica della politica, le ragioni etiche dell’impegno politico e, più in generale, quelle di una postura di tipo etico-responsabile?
Weber non formula esplicitamente la sua presa di posizione su questo punto. E, del resto, nel rispetto della sua visione pluralistica in merito alle questioni metafisiche e normative ultime, si tratta di un orientamento consapevole della propria mancanza di un fondamento assoluto e conclusivo. Il rifiuto dell’etica dell’intenzione come atteggiamento etico di fondo dell’agire – sia politico, sia tout court etico - si radica nella rinuncia che questo comporta non soltanto alla politica (che non può mai emanciparsi integralmente dalla violenza strumentale), ma, più in generale, all’impegno di fare tutto ciò che è in nostro potere per combattere il male nel mondo. L’etica dell’intenzione è disinteressata al mondo. Crede che il mondo sia non soltanto irredimibile, ma anche sostanzialmente immutabile. Ciò che rende razionalmente sostenibile questa postura è, tuttavia, proprio la credenza di cui Weber era sprovvisto: quella in un altro mondo in cui i torti subiti in questo verranno compensati. Se questo è l’unico mondo che abbiamo la responsabilità nei suoi confronti si impone come l’orientamento più persuasivo (cfr. Marini 1988, p. 516). È difficile non opporsi con tutti i mezzi al male se non si dispone della fede in un luogo in cui il dolore immeritato e il torto impunito (cfr. Weber 1919, p. 112) saranno compensati.


5. Momento Lutero: venire a patti col diavolo senza arrendersi

Non resta, dunque, che arrendersi al diavolo? Che consegnarsi senza resa alla logica del male minore, del male per il bene? Una logica senza fine e senza freno che porta a fare per un grande bene mali terribili? Questo sarebbe, in realtà, l’esito del percorso argomentativo weberiano, se la sua proposta normativa coincidesse sic et simpliciter con l’etica della responsabilità (per questa tesi cfr. Schluchter 1987, pp. 20-56; Schluchter 2004, pp. VII-XXXVII). Ma, appunto, le cose non stanno così. Contro questa interpretazione della tesi conclusiva della conferenza del 1919 c’è, prima della esplicita affermazione nelle pagine finali della complementarità delle due etiche, il riferimento al Grande Inquisitore di Dostoevskij (cfr. Weber 1919, pp. 111-112). Il vecchio cardinale di Siviglia compone, insieme ai bolscevichi e agli spartachisti, la ristretta pattuglia di esempi di etica della responsabilità ed è sorprendente come sia spesso sfuggito che non si tratta, nella prospettiva di Weber, di esempi esattamente positivi. Nel monologo/dialogo con Cristo nel carcere di Siviglia, il Grande Inquisitore rivendica esplicitamente di essere passato dalla parte del diavolo (cfr. Dostoevskij 2013, pp. 36-37) e lo fa con gli argomenti tipici dell’etica della responsabilità (cfr. Esposito 1993, p. 70; Marini 1988, p. 516): la necessità di prendersi cura di chi non è all’altezza della salvezza promessa da Cristo (cfr. Dostoevskij 2013, pp. 32-33). Il Cardinale di Siviglia si è schierato con il diavolo per amore dell’uomo, ha deciso di servirsi del male – della politica e della violenza - per alleviare le sofferenze terrene a cui Cristo ha abbandonato quella parte di umanità, milioni e milioni per ogni generazione, inadeguata al peso della libertà che il redentore ha voluto, anch’egli per amore, lasciare all’uomo.
Ma qual è stato l’esito dell’impresa dell’Inquisitore? La risposta weberiana è una condanna senza appello di ogni possibile monopolio normativo dell’etica della responsabilità: la costruzione di un potere politico come tutti gli altri, di un regime autarchico e dispotico come molti nella storia dell’umanità. Un potere terreno la cui finalità etica non produce alcuna differenza nell’esistenza politica dei sudditi. Sulla stessa linea, del resto, la sorprendente e per certi versi profetica valutazione lapidaria delle esperienze rivoluzionarie contemporanee: «Non vediamo che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, proprio in quanto fanno uso di questo mezzo della politica [il potere dietro il quale vi è la violenza], giungono esattamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore militare? In che cosa, se non nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, si differenzia il potere dei consigli degli operai e dei soldati da quello di un qualsiasi detentore del potere del vecchio regime?» (Weber 1919, pp. 106-107). Esiste una inerzia dei mezzi che vanifica la differenza dei fini. La dittatura (del proletariato) per la fine del dominio dell’uomo sull’uomo non soltanto è sempre una dittatura, ma costituisce un mezzo capace di inibire la realizzazione del fine, di sovrascriverlo malgrado i propositi soggettivamente sinceri dei protagonisti.
La natura diabolica dell’etica della responsabilità si esaspera nell’incapacità di un limite assoluto all’uso del male. Certo, esiste un limite di contesto: un vincolo costituito dalla proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini. Ma questo non impedisce che grandi obiettivi, emancipatori o immunitari, rendano utilizzabili mezzi terribili. Per fronteggiare i rischi che derivano all’uomo politico dal contatto con le potenze diaboliche che abitano il mondo politico sono necessarie una qualità personale (una qualificazione carismatica del leader) e una strategia etica. O meglio: occorre una dote personale che apra ad una specifica postura etica che tenga insieme istanze e logiche opposte e contraddittorie. L’uomo politico weberiano deve essere in grado di non sottrarsi al contatto con il male, ma al tempo stesso deve possedere le risorse umane ed etiche per non esserne fagocitato.
Dal punto di vista umano la qualità decisiva è la maturità (Reife), la chiara consapevolezza che il diavolo è maestro di complessità e che, per non esserne sopraffatti, è necessario essere coscienti dei rischi che si corrono quando si ha a che fare con lui: le «potenze diaboliche [diabolischen Mächte] che entrano in gioco» nella politica «sono spietate e producono, per il suo agire e anche per lui stesso dal punto di vista interiore, conseguenze alle quali egli è abbandonato senza difese se non le percepisce con chiarezza. “Il diavolo non è nato ieri” [Der Teufel, der ist alt]. E non fa riferimento agli anni o all’età la frase: “bisogna diventare vecchi per capirlo” [so werdet alt, ihn zu verstehen]» (ivi, p. 118). Essere maturi significa aver compreso che il mondo è complesso e che le strade del male sono tortuose e paradossali, che niente è perfettamente innocente e che non esistono soluzioni semplici e definitive. La maturità consiste, dunque, nella capacità di sostenere il peso del contatto con il male senza fuggire, ma anche senza illudersi che questo non metta a repentaglio la nostra integrità etica: «Non è importante l’età. Quanto piuttosto l’occhio addestrato a percepire senza pregiudizi le realtà della vita [die Realitäten des Lebens], e la capacità di sopportarle e di essere interiormente alla loro altezza» (ibidem).
La maturità ci rende capaci di un atteggiamento di fondo etico-responsabile, ma, al tempo stesso, apre all’esigenza di un agire politico orientato esclusivamente in base ad esso: «Suscita invece un’enorme impressione sentir dire da un uomo maturo – non importa se vecchio o giovane anagraficamente - il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: “non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo”» (ivi, p. 119). Il riferimento a Lutero introduce la tesi della complementarità delle due etiche: «Pertanto l’etica dell’intenzione e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la “vocazione per la politica”» (ibidem). Completamento reciproco non significa equivalenza: l’orientamento etico prevalente del politico di professione deve essere per Weber di tipo etico-responsabile, l’azione politica deve tendere ad un miglioramento del mondo che impone il realismo dei mezzi e la disponibilità a ricorrere al male (in primis alla violenza) per realizzare un bene più grande o per scongiurare un male maggiore. Reciproco completamento non significa neppure superamento della loro irriducibile opposizione ed esclusività (questa invece la tesi di Rossi 2018, p. 39).
La forma della complementarità è, piuttosto, quella della coesistenza conflittuale, della presenza residuale, ma inespungibile, della logica e del paradigma etico-intenzionale a correzione ed emendazione dei limiti dell’etica della responsabilità, al pendio scivoloso di una giustificazione dei mezzi a partire dai fini aperta potenzialmente a tutto. L’etica dell’intenzione impone un limite assoluto a ciò che si è disposti a concedere al diavolo, a ciò che si è disposti a fare per evitare un male o assicurare un bene. L’etica dell’intenzione consente al politico di professione di dire che ci sono mezzi che nessun fine può giustificare, che esiste un limite assoluto a ciò che la politica può fare. Di più: consente di concepire una trasformazione politica del mondo che consista non solo e non tanto nella realizzazione di nuovi fini, quanto piuttosto nella esclusione di alcuni mezzi. Le dichiarazioni dei diritti umani o la codificazione dei crimini contro l’umanità sono appunto il tentativo, certo precario e talvolta ineffettuale, di rendere alcune condotte politicamente indisponibili. Di sottrarre alla politica mezzi che le sono stati tragicamente propri.
Weber non ci fornisce alcuna indicazione normativa sul peso relativo delle due etiche nell’agire del politico di professione. E non esplicita neppure come questa esigenza di reciproco completamento dovesse tradursi nella difficile temperie politica in cui la conferenza venne pronunciata. Ci suggerisce, tuttavia, che la politica per tenere aperta una dimensione di libertà in un mondo sempre più governato da logiche sistemiche e per dare un senso alla vita di chi la pratica non può essere niente di meno che un’attività che tiene insieme, in equilibrio precario e conflittuale, un’esigenza di realismo e il rifiuto di farsi risucchiare interamente dalla logica del mondo. Deve accettare la sfida del diavolo, ma non consegnarsi integralmente a lui.


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