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Mondo migrante, aspetti meno evidenti di un problema complesso

ALBERTO CASTAGNOLA
Articolo pubblicato nella sezione "Naufragio con spettatori: noi e i migranti"


1. Un po' di storia

Lo spostamento di intere popolazioni sulla superficie del pianeta non è certo un fenomeno recente, ma le dimensioni che tali flussi stanno assumendo negli ultimi anni e soprattutto le previsioni relative ad un futuro non lontano, impongono una massima chiarezza nelle analisi e soprattutto nel ricorso a delle strategie politiche per contrastarlo o sostenerlo nel modo più umano possibile. Occorre quindi distinguere accuratamente, nelle varie epoche storiche e nella fase attuale di evoluzione dei grandi sistemi economici e sociali, le cause degli spostamenti, le condizioni nelle quali si svolgono e soprattutto i costi che le singole popolazioni in movimento sono costrette a sopportare. È quindi necessario, ad esempio, distinguere se gli spostamenti sono il risultato di una forte spinta esercitata da governi e popolazioni dominanti, sono derivanti dal peggioramento delle condizioni economiche e dalla ridotta disponibilità di risorse vitali, oppure sono il risultato di conflitti in corso. È inoltre assolutamente necessario, in questa fase, individuare con esattezza le conseguenze dei drammatici mutamenti climatici ormai in pieno sviluppo su tutto il pianeta, poiché il profondo disinteresse che caratterizza l’insieme dei governi di fronte alle crisi ambientali porta a sottovalutare gli effetti sulle popolazioni che già sono in corso in un numero rapidamente crescente di aree geografiche.
Nel passato lontano, episodi come la fuga dall’Egitto per sfuggire alla persecuzioni del Faraone descritta dalla Bibbia, sono stati ampiamente documentati, sono impressi nella memoria di credenti di più religioni e sono rimasti come esempi da non dimenticare di rapporti conflittuali tra i poteri e le popolazioni sottomesse. In tempi più vicini, la persecuzione dei Catari e quella contro i seguaci di Valdo, ma soprattutto quelle, numerose, contro gli Ebrei, culminate nella Shoa, sono esempi non trascurabili di movimenti di intere popolazioni per sfuggire a persecuzioni ed eccidi. Più di recente, la spinta fuori dei confini dei milioni di siriani verso la Giordania e la Turchia, o dei tre milioni di venezuelani verso la Colombia, per citare solo alcuni di quelli che appaiono così spesso sui nostri giornali, ma soprattutto l’esodo da tanti paesi africani che tentano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere i paesi europei o le colonne umane che partono dai paesi del centro America e attraversano il Messico con il miraggio di riuscire a entrare negli Stati Uniti, hanno assunto dimensioni che mettono in crisi qualunque politica di accoglienza quando non si trasformano semplicemente nella creazione di campi di concentramento caratterizzati da situazioni disastrose anche per la semplice sopravvivenza.
Vi è però una differenza tra le situazioni dei tempi passati e gli episodi più recenti, che non può essere dimenticata (in particolare nelle analisi proiettate del futuro) e cioè la densità demografica dei paesi di desiderata destinazione. Nell’ultimo secolo in tutti i paesi l’aumento delle popolazioni ha occupato gran parte degli spazi disponibili, e quindi le capacità potenziali di accoglienza si sono fortemente ridotte quasi ovunque (anche nei paesi più industrializzati che nelle fasi precedenti ricercavano manodopera a basso prezzo, come in Germania o negli stessi Stati Uniti). Inoltre dalla crisi del 2007-2008 (ancora non terminata) le esigenze di disporre di manodopera a condizioni super favorevoli si sono fortemente ridimensionate e questo spiega il tentativo di ridurre i flussi in tutti i modi, anche quelli più disumani.
Una analisi più articolata è richiesta per il fenomeno della schiavitù, durato per circa due secoli (e non certo completamente sparito ai nostri giorni) dove non si era sicuramente in presenza di movimenti spontanei di popolazioni, ma invece si trattava di un complesso meccanismo economico di “estrazione di forza lavoro selezionata”, funzionale alle esigenze dei processi di colonizzazione interna di vaste parti di territori nazionali o di coloni stranieri già fortemente insediati


2. Frontiere e muri

Negli ultimi anni si sono moltiplicate le barriere che tentano di impedire il passaggio di persone non desiderate, siano esse migranti illegali che terroristi o corrieri della droga. Seguono il percorso delle frontiere tra due paesi e sono costituite da reti continue molto alte o da veri e propri muri difficilmente scalabili e comunque sempre sorvegliati da forze armate. Nel 2014 sono apparse in Italia le prime mappe che evidenziavano tali barriere (cfr. Atlante, il progetto realizzato da Cartografare il Presente, presso l’Università di Bologna e con la partecipazione del Grid di Arendal, in Norvegia). Successivamente , nel 2016 in Francia è apparso un volume poi tradotto in italiano nel 2018, a cura di B. Tertrais e D. Papin, Atlante delle frontiere, muri, conflitti, migrazioni, nel quale erano documentati anche i tentativi di erigere dei muri per evitare rivendicazioni territoriali o migrazioni su grande scala. La trasformazione di tante frontiere da linee di definizione territoriali degli Stati in ostacoli fisici potenzialmente insuperabili è ormai una realtà in almeno settanta situazioni, oltre alle sette in preparazione secondo un articolo del 2019 (cfr. Il mondo diviso, di D. Taino sul Corriere della Sera del 7 luglio 2019). Tali realtà, in forte contraddizione con le visioni di un mondo ormai globalizzato e con le prospettive tante volte evocate di una popolazione mondiale che viaggia ovunque e di culture diverse che moltiplicano i contatti, possono essere classificate in maniere diverse, ad esempio se sono barriere alle entrate o alle uscite, oppure se tentano di ostacolare traffici illegali o l’arrivo di terroristi, oppure se sono dirette a bloccare qualunque movimento migratorio, che a loro volta sono di natura diversa se alimentato da guerre, persecuzioni, motivi economici o, più di recente, da effetti pesanti dei cambiamenti climatici.
In totale, alla caduta della Cortina di ferro (1989) queste nuove barriere erano 15, una diecina in più di quelle esistenti alla fine della seconda guerra mondiale. Negli anni più recenti i muri si sono moltiplicati e sono diventati sempre più alti e più dotati di mezzi offensivi e ormai prevedono sempre l’impiego dell’energia elettrica ad alto voltaggio, l’uso dei droni e dei satelliti per anticipare l’arrivo di terroristi o di migranti, armi da fuoco potenti e moderne. Negli ultimi dieci anni ne sono stati realizzati per oltre diecimila chilometri e tra quelli in costruzione non si può certo dimenticare quello tra Stati Uniti e Messico, per il quale di recente il presidente Trump ha ottenuto di poter utilizzare anche i fondi già stanziati per le forze armate, cioè non avrà preoccupazioni finanziarie per terminare la impressionante barriera di protezione contro gli immigrati di tutta l’America Latina.
Vediamo rapidamente i principali muri presenti in Europa. La Spagna ne ha realizzati verso l’Inghilterra a Gibilterra dal 1908 e verso il Marocco a Ceuta e Melilla dal 1993; Cipro è divisa tra la Grecia e la Turchia dal 2012. Altri muri di minore entità sono stati eretti verso la Russia da Estonia, Lettonia e Lituania. Inoltre paesi come Austria, Ungheria, Bulgaria, Slovenia e Grecia hanno tentato di sigillare le loro frontiere con barriere di ogni tipo volte ad impedire l’arrivo di migranti, provenienti non soltanto dall’Africa o dal Medio oriente.
Complessivamente, dei 27 membri dell’Unione Europea, dieci hanno eretto muri per un totale di circa 1000 chilometri.
In Africa, il Marocco ha costruito un muro tra i più lunghi del mondo (oltre 2000 chilometri) per bloccare le incursioni delle popolazioni del Sahara occidentale espulse dai loro territori di origine. L’ONU ha ribadito più volte la necessità che il Marocco indica un referendum tra le popolazioni originarie, mentre la parte espulsa e ospitata dall’Algeria, dopo anni di guerriglia come Fronte Polisario, si è costituita in Repubblica Araba Sahrawi Democratica (RASD) che ha ottenuto numerosi riconoscimenti da altri paesi. Dopo la Marcia Verde del 1975 per “riconquistare” la parte sud, il Marocco ha costruito ben cinque basi militari e impegna gran parte delle sue forze armate in difesa del muro, ma evidentemente non ha alcuna intenzione di abbandonare le miniere di fosfato di Bou Craa e le risorse marine della zona. Più a est, sempre sul Mediterraneo, si incontra la complessa situazione della Cisgiordania, attraversata da un muro per circa 700 chilometri, che però solo in parte segue le linee dei vari armistizi che hanno concluso i diversi periodi di guerra aperta, mentre anche al di là del muro si continuano a moltiplicare gli insediamenti di coloni israeliani su territori palestinesi. Il conflitto si riaccende senza soste e a nulla finora sono serviti i tentativi anche internazionali di porre fine ad aggressioni e incursioni, oltre ai quotidiani controlli e divieti che tormentano le popolazioni locali. Passando all’Asia, la situazione più complessa riguarda il territorio del Kashmir, in parte amministrato dal Pakistan, in parte controllato dalla Cina e reclamato dall’India, in parte ceduto alla Cina ma sempre rivendicato dall’India, infine la parte denominata Jammu e Kashmir e amministrata dall’India. Per quest’ultima, qualche mese fa, l’India ha revocato la relativa autonomia concessa nel 1949 e un'area continuamente segnata da guerre e conflitti potrebbe ridiventare una polveriera molto a rischio (per maggiori dettagli cfr. l’articolo apparso su “La Repubblica” del 6 agosto 2019, pag.12). Più di recente, la situazione viene così descritta da “Le Monde Diplomatique” (edizione italiana, 15 ottobre 2019, pag. 18): «L’abrogazione dell’articolo 370 della Costituzione indiana che garantiva l’autonomia dello Stato è avvenuta alla chetichella, mediante decreto presidenziale in piena estate, il 5 agosto». E ancora: «nella regione sono stati dispiegati migliaia di soldati, accanto ai 500 mila già in servizio. Con l’accusa di essere “agitatori”, sono state arrestate quasi 4000 persone, fra le quali dirigenti politici, anche quelli pro-indiani, militanti, avvocati, universitari, giornalisti, uomini d’affari e normali cittadini (anche alcuni minori). Poco prima dell’emanazione del decreto, sono state interrotte le vie di comunicazione, sospese le reti telefoniche e internet, chiuse le scuole, vietati gli assembramenti di più di cinque persone e ridotta la libertà di circolazione». Non possiamo inoltre dimenticare che l’intera regione è oggetto di rivendicazioni territoriali da parte di potenze nucleari, è segnata da conflitti religiosi tra indù e musulmani, è stata caratterizzata in passato da guerre e continui sconfinamenti, il futuro prossimo può quindi riservare drammatiche sorprese di rilevanza internazionale.
Sempre in Asia dobbiamo ricordare le barriere e le “terre di nessuno” che ancora separano la Corea del Nord da quella del Sud, le rigide separazioni tra Uzbekistan e Turkmenistan e intorno all’Afghanistan e all’Iraq. L’Arabia Saudita ha muri realizzati e in costruzione verso l’Iraq e verso lo Yemen, dove è presente militarmente nel quadro del conflitto in corso ormai da anni tra componenti diverse delle popolazioni locali.
Anche l’America Latina presenta diverse situazioni molto pesanti, con barriere in costruzione in Brasile verso i paesi confinanti, a Cuba con l’enclave statunitense di Guantanamo, che risale addirittura al 1903, ma soprattutto con il grande muro, ormai in via di completamento, che separa Gli Stati Uniti dal Messico, anche perché su questa linea si esercita la pressione migratoria proveniente dai paesi dell’America centrale e dell’America meridionale, come dimostrano le recenti marce di migliaia di persone che hanno attraversato il Messico per giungere al confine.
In questa sede abbiamo tuttavia tralasciato di indicare le numerosissime rivendicazioni di piccole zone e di isole oggetto di rivendicazioni continuamente riaffermate e le controversie frontaliere che fanno emergere forme mai sopite di cattivo vicinato. Si tratta di episodi apparentemente di poca importanza, ma che nella storia hanno spesso costituito l’occasione per legittimare invasioni e conflitti, sempre meno giustificati alla luce dei processi di globalizzazione economica da tempo in corso, ma che spesso danno luogo ad aggressioni poco tollerabili, come dimostra la recente pretesa della Turchia di imporre con la forza una fascia di sicurezza sul territorio della Siria.
Infine, è importante rilevare che molte delle fonti qui utilizzate ci tengono a sottolineare che nella maggioranza dei casi le barriere, per quanto elevate e dotate di mezzi offensivi aggiornati, si sono alla fine dimostrate incapaci di contenere le pressioni umane provenienti dall’esterno, oppure che in molti casi la decisione di erigere un muro era di fatto solo un mezzo per dimostrare che un governo era in grado di bloccare i flussi esterni e quindi rappresentava solo una azione dimostrativa, politicamente efficace anche se poi nei fatti mostrava di essere scarsamente utile. In realtà, la rapida crescita e la crescente consistenza del numero dei muri realizzati e in programma, costituiscono un indicatore non trascurabile delle difficoltà che incontrano moltissimi Stati ad affrontare i problemi di natura globale, in particolare la moltiplicazione dei focolai di terrorismo e l’aumento dei movimenti migratori causati dalla crisi climatica, che sta rendendo ancora più drammatici gli effetti delle cause che hanno caratterizzato gli ultimi decenni (fame, incremento demografico, sfruttamento delle risorse naturali, guerre e repressione dei movimenti popolari). Molti governi cioè si affidano a delle barriere fisiche non essendo in grado di risolvere i problemi sociali che affliggono le rispettive popolazioni o dei migranti che premono ai loro confini in cerca di una accoglienza considerata impossibile.


3. I flussi complessivi

Limitando l’analisi ai dati più recenti, è innegabile che le correnti migratorie degli ultimi mesi abbiano caratteristiche diverse da quelle degli anni precedenti, in quanto le cosiddette “rotte balcaniche” hanno dimostrato una maggiore importanza. Secondo i dati dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, dal primo gennaio al primo settembre del 2019 sono stati 60.460 i migranti arrivati in Europa e di questi oltre la metà, 33.999, sono entrati in Grecia, 18.758 in Spagna, 5.234 in Italia, 1.585 a Malta e 794 a Cipro. Di quelli arrivati in Italia ben 4300 hanno utilizzato piccole imbarcazioni e sono sbarcati in zone poco frequentate. Inoltre, sempre al 1 settembre 2019, sul totale degli stranieri sbarcati ben 748 sono dei minori non accompagnati, una componente dei flussi migratori che dovrebbe essere analizzata a fondo, per capire se esprime solo dei ricongiungimenti familiari oppure nasconde livelli massimi di disperazione. Alla fine del mese di ottobre è stato pubblicato il “Dossier Statistico Immigrazione 2019” elaborato da Idos e Confronti e sono quindi disponibili moltissimi altri dati e delle analisi particolarmente approfondite. Su scala globale, i migranti sono aumentati di oltre 14 milioni, arrivando a giugno del 2019 a complessivi 272 milioni, pari a più di uno ogni trenta abitanti della Terra. Di questi, circa 24 milioni sono rifugiati e richiedenti asilo, ai quali si aggiungono oltre 41 milioni di sfollati interni, cioè persone costrette a spostarsi dai luoghi di origine e a vivere in altre regioni di uno stesso paese, in genere a causa di guerre e invasioni. Circa 5 milioni sono i rifugiati palestinesi assistiti dall’Unrwa, che portano a oltre 71 milioni i migranti forzati a livello planetario. Nel più ristretto contesto dell’Unione Europea che al suo interno ha una popolazione straniera di 39,9 milioni di persone (pari al 7,8% della popolazione complessiva di 512 milioni di abitanti) l’Italia si colloca al terzo posto tra i paesi aderenti, dopo la Germania, con 9,7 milioni e l’Inghilterra, con 6,3 milioni, e precedendo la Francia e la Spagna, che hanno ciascuna meno di 5 milioni di residenti stranieri. Infine, un dato del Dossier riveste particolare importanza politica e sociale: gli stranieri irregolari presenti sul territorio italiano. Rispetto ai 530.000 stranieri irregolari stimati all’inizio del 2018, si è calcolato che entro il 2020 possano raggiungere i 670.000, cifre ben lontane dai 90.000 stimati un anno fa dal Ministero degli Interni, con tutte le conseguenze che si possono immaginare sul piano umano e su quello della sicurezza.


4. Le previsioni più attendibili

Il moltiplicarsi dei conflitti tra Stati o al loro interno e soprattutto i dati sempre più preoccupanti del riscaldamento climatico, che inciderà in misura crescente sulla fuga di intere popolazioni dai loro ambienti naturali diventati invivibili, alimentano delle previsioni dei movimenti migratori finora non immaginabili. Alcuni ambientalisti calcolano dei flussi migratori dell’ordine dei 250 milioni di persone in cerca disperata di nuovi spazi dove insediarsi per sopravvivere. La rivista PNAS nel numero di maggio 2019 ha stimato in 197 milioni il numero dei migranti ambientali (cfr. l’editoriale di G. De Mauro in rivista “Internazionale” del 5 luglio 2019, p. 5). Una recente stima elaborata dalla Banca Mondiale prevede spostamenti superiori ai 140 milioni di persone, quindi più del doppio di quelli verificatisi negli anni più recenti. Questo significa che i flussi attuali che mettono in gravi difficoltà l’Italia (e numerosi altri Paesi, dalla Grecia al Libano, dalla Colombia alla Giordania) sono in realtà ben poca cosa rispetto ad un futuro molto vicino.
Eppure già oggi le strutture di accoglienza assomigliano quasi sempre a dei campi di concentramento, il numero di chi sfugge ad ogni riconoscimento o registrazione cresce senza sosta, aumentando le situazioni illegali e criminali, e soprattutto sembrano essere ormai assolutamente inadeguati gli eventuali processi di integrazione e di accoglienza qualificata sperimentati in alcuni paesi più avanzati, come ad esempio la Svezia. Sul piano delle politiche governative, già oggi assistiamo sgomenti a interventi approssimativi, in forte ritardo, poco alimentati in termini di risorse, spesso gestiti da entità mafiose o da organismi che intendono solo lucrare sui finanziamenti pubblici. In prospettiva, quindi, non si può prevedere che un rapido peggioramento delle attività di accoglienza mentre le pressioni esterne sono anch’esse destinate ad aumentare.


5. Le vittime nel Mediterraneo

È ormai noto a tutti che ogni afflusso di migranti e rifugiati attraverso il Mediterraneo è accompagnato da un numero molto elevato di naufragi e di morti in mare, anche se le notizie di ogni singolo evento appaiono per uno o due giorni sui quotidiani e sugli schermi televisivi, accompagnati da commenti pieni di orrore e commiserazione, ma poi scompaiono senza lasciare tracce, come se non rappresentassero un costo umano insopportabile dei fenomeni migratori. Vi è invece un’altra fonte, molto sistematica e impressionante e troppo spesso dimenticata, che raccoglie i dati relativi ad ogni singola vittima e aggiorna continuamente questa lista che getta una luce ben diversa sugli attuali spostamenti di esseri umani. Questo compito immane è stato assunto a partire dal 1993 dall’organizzazione non governativa olandese United for Intercultural Action (United), una rete di organizzazioni antirazziste di 48 paesi, che raccolgono tutte le notizie di stampa e di altre fonti, che permettono di individuare e descrivere le vittime. In effetti i primi dati vennero raccolti a partire dal 2989, ma il 1994 è il primo anno in cui la base delle informazioni ha raggiunto un livello significativo. In Italia, la versione della “Lista” del maggio 2018 è stata pubblicata da Il Manifesto del 22 giugno dello stesso anno e poi ripresa dalla rivista Internazionale del 5 ottobre del 2018. All’epoca, il numero dei morti aveva raggiunto le 34.361 unità, ma il numero reale è sicuramente stato molto maggiore poiché la lista comprende solo le persone decedute documentate, cioè identificate con sicurezza. La stessa fonte tiene a precisare che ci sono migliaia di morti di cui non riescono a sapere nulla, e che non si hanno elementi sul numero di persone che sono morte nella traversata del Sahara o che sono rientrati nel paese di origine, mentre almeno 700 persone sono rimaste vittime di scontri con le polizie di frontiera o con gruppi armati locali. Inoltre precisa che la maggior parte delle persone è morta annegata, ma che la lista comprende anche circa 500 persone morte mentre veniva esaminata la loro richiesta di asilo, mentre erano rinchiuse nei centri di detenzione o in carcere. In totale, quasi 400 si sono suicidate e altre 600 sono morte per mano di altri. Non si può inoltre dimenticare che si hanno consistenti movimenti di intere popolazioni in altre zone del pianeta (in Medio Oriente, in Asia, in America latina) caratterizzate da perdite umane analoghe, ma per le quali non esiste alcuna documentazione. Abbiamo quindi a disposizione una fonte molto attendibile, ma che copre solo una parte del fenomeno migratorio, che non ha carattere ufficiale, ma che è il risultato di un lavoro gravoso e difficile, volto ad aggiungere alle analisi sociali ed economiche delle informazioni preziose sul costo umano della fuga da decine e decine di paesi, gran parte africani. Ogni politica migratoria dovrebbe tenere presente queste cifre e cercare di prevenire i rischi della traversata di un mare di dimensioni piuttosto limitate e ancora non percorso da eventi climatici estremi come i tifoni e gli tsunami. Non si tratta solo di tenere aperti i porti o di spingere per aumentare l’accoglienza da parte dei paesi europei, ma di modificare le cause che costringono intere popolazioni ad abbandonare i paesi di origine.


6. Prospettive e ipotesi di intervento

Ad ogni tragedia in mare, ad ogni salvataggio effettuato dalle imbarcazioni delle organizzazioni non governative, si ripetono critiche alle (scarse) politiche di intervento, si moltiplicano suggerimenti più o meno fantasiosi per risolvere in qualche modo una situazione di gravità crescente, ma sul piano concreto ben poco è stato fatto dai governi, specie da quelli in prima linea per ragioni geografiche, in materia di tentativi di forzare le frontiere o superare i mari. Ovviamente non si tratta di un problema di facile soluzione, ma ci sembra importante, guardando essenzialmente la situazione dell’area Mediterranea, esaminare alcune possibilità di azione che finora sembra siano state quasi completamente trascurate. Non si tratta di proposte concrete, ma piuttosto di riflessioni e interrogativi che potrebbero aprire nuove linee di azione o strategie innovative di intervento.
In primo luogo prendiamo in considerazione il caso della Libia. È evidente che le attività degli “scafisti” si svolge indisturbata (se non viene addirittura alimentata) a causa dell’esistenza di due diversi governi, che negli ultimi mesi sono in aperto conflitto militare. Però è possibile che tra satelliti e flotta americana non si possano individuare con un certo anticipo i punti di raccolta e di imbarco di ciascuno scafo, facendo arrivare sul posto mezzi navali e terrestri in grado di ostacolare la partenza o di mappare con precisione i gruppi che organizzano i viaggi?
Ancora, sappiamo che le Agenzie dell’ONU hanno difficoltà ad assumere nuove responsabilità se non ricevono dai paesi membri i necessari finanziamenti, però l’UNHCR potrebbe elaborare un progetto da sottoporre ai paesi europei (e l’Italia potrebbe dichiararsi fin da ora disposta a versare la sua quota), in modo da arrestare i trattamenti disumani degli africani già arrivati in Libia e di rendere molto più difficili i contatti degli “scafisti” che taglieggiano i “viaggiatori”.
In secondo luogo, un’analisi accurata dei flussi di migranti potrebbe rivelare che i principali paesi di origine sono di fatto solo sette od otto, e i motivi della fuga sono diversi tra paese e paese, ma abbastanza evidenti. Si potrebbero quindi creare degli uffici in loco per raccogliere le richieste di emigrazione secondo i paesi desiderati, prevedendo poi in un secondo momento di organizzare dei viaggi protetti o dei “corridoi umanitari”, evitando in tal modo la traversata dell’Africa (che dura dai due ai tre anni per quelli che sopravvivono agli stenti) e poi lo sfruttamento disumano da parte degli “scafisti”. Ovviamente una tale procedura non arresterebbe subito i flussi attuali, ma potrebbe rivelarsi preziosa per orientare un fenomeno destinato ad aumentare massicciamente, specie per le conseguenze del cambiamento climatico.
Un terzo tipo di intervento riguarda l’ipotesi “aiutiamoli a casa loro” che al di là dell’uso strumentale e superficiale che ne è stato finora fatto, nasconde in realtà una linea di intervento, nazionale e internazionale, piuttosto significativa e che merita di essere approfondita. Finora questa idea è stata sempre accompagnata e inficiata da un comodo riferimento alle leggi sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo – da tempo sottoposta a dure critiche, non fosse altro che per la modestissima consistenza dei fondi finora stanziati - , ma soprattutto dal fatto che viene troppo spesso realizzata per sostenere investimenti ad alto rendimento per le imprese dei paesi “donatori”, mentre dovrebbe comprendere soltanto opere di grande utilità per i paesi in peggiori condizioni economiche o ambientali, per creare occupazione e redditi per le fasce più povere delle popolazioni locali. Si dovrebbe quindi modificare in profondità uno strumento finora al servizio dei paesi con aspirazioni coloniali e gli interventi del Fondo Monetario e degli altri organismi internazionali ancora ispirati ad un liberismo specie finanziario che è stato nel secondo dopoguerra causa di non poche crisi strutturali di paesi soggetti alla fame ed agli altri meccanismi del sottosviluppo. Ovviamente è una riflessione poco realistica, ma che forse potrebbe risultare opportuna il giorno in cui venissero finalmente affrontate le minacce climatiche all’intero pianeta.
Un quarto livello di intervento - avviabile invece anche subito -, dovrebbe riguardare i rimpatri, che da un lato stentano a decollare, dall’altro vengono effettuati senza analizzare le condizioni in cui si troveranno coloro che hanno abbandonato il paese di origine sotto la spinta di una molteplicità di cause (belliche, economiche, ambientali o politiche) che non sono certo migliorate nei due-tre anni di loro assenza. In molti casi i governi dei loro paesi erano all’origine della decisione di migrare oppure non hanno alcun interesse a favorire il reinserimento. Invece non si parla mai di questi problemi e la quasi totalità dei rientri non prevede misure o progetti di reinserimento di alcun tipo. Evidentemente si tratta di avviare interventi di natura completamente nuova, per le quali oggi non si riscontra molto interesse da parte dei paesi di iniziale destinazione dei flussi migratori, però ciò significa non intervenire sulle cause di fondo e continuare a restare esposti a flussi migratori incontrollabili.
Una quinta modalità di azione riguarda in particolare gli effetti delle modificazioni del clima, destinate in ogni caso a continuare nei prossimi anni. È ormai accertato che siamo di fronte ad uno spostamento delle linee climatiche (compreso tra i seicento e i mille chilometri nei due emisferi) quindi in realtà potremmo calcolare con una certa precisione quali popolazioni saranno esposte all’aumento della siccità e del caldo e quindi alle riduzioni dell’acqua e dei prodotti agricoli da loro coltivati. Gli incendi in Amazzonia e in California, ma anche quelli in Alaska e in Siberia costituiscono un indicatore poco discutibile di ciò che sta per succedere. Quindi sarebbe ora di prevedere delle misure di carattere non solo nazionale almeno per mitigare gli effetti più gravi, onde rendere meno consistenti i flussi migratori provenienti da questa fascia della superficie del pianeta, che comprende anche paesi a forte densità demografica.
Un sesto intervento riguarda la possibilità di avviare processi di rimboschimento e di riassetto idrogeologico concepiti come obiettivi urgenti e relativamente poco costosi di contrasto al riscaldamento globale. Esistono all’estero esempi molto utili da studiare e da imitare, e anche iniziative come quella della regione Lazio di piantare sei milioni di alberi (“uno per ogni cittadino” può significare anche il coinvolgimento diretto della popolazione, riducendo i costi e facendo aumentare il senso della responsabilità climatica). In molti casi sarebbe possibile affidare parte dei compiti agli ex agenti forestali, oggi integrati nell’Arma dei carabinieri, oppure organizzando campi scuola a giovani geologi per completare i loro percorsi formativi.
Infine, un ultimo livello di intervento dovrebbe riguardare gli attuali campi esistenti in Italia, che ospitano per lunghi mesi anche chi ha la fortuna di vedere riconosciute le rispettive condizioni per la richiesta di asilo. L’ipotesi è di utilizzare questi “tempi morti” per almeno due tipi di formazione. La prima è quella linguistica, relativa al potenziale paese di destinazione, la seconda è tecnico-professionale, per dotare ogni rifugiato almeno dei rudimenti di un mestiere o di una professionalità, utili a livello personale (per evitare crisi di identità) e per l’impiego nel paese di destinazione. Ciò può sembrare troppo complesso o costoso nella attuale situazione, ma potrebbe rivelarsi prezioso per affrontare un fenomeno destinato ad aumentare nei prossimi anni.
Tutte queste riflessioni, come si vede, hanno un diverso grado di realizzabilità, ma in genere vengono rifiutate appellandosi a costi economici ritenuti insostenibili o in quanto frutto di una preoccupazione eccessiva circa il futuro del clima del pianeta. Invece sarebbe forse opportuno considerarle delle stimolazioni per intraprendere linee di lavoro fortemente innovative, ma soprattutto per affrontare in modo adeguato problemi umani troppo a lungo trascurati. Su questa linea di pensiero e di maturazione politica si possono approfondire ad esempio il recente volume di Valerio Calzolaio (Migrazioni. La rivoluzione dei Global Compact, Edizioni Doppiavoce, 2019), l’articolo di Claudia Fusani apparso su Tiscali News del 18 ottobre 2019, intitolato I paesi europei non accolgono i migranti “promessi” e i rimpatri non funzionano e alcuni articoli apparsi su “Internazionale”, in particolare K. Schregenberger, Rifugio precario (6 settembre 2018) e R. Schulz, Lavoratori stagionali in Lapponia (5 luglio 2019).
Si tratta quindi di approfondire le analisi e di formulare proposte dotate di coerenza economica e poi di esercitare maggiori e documentate pressioni sui governi nazionali e regionali in carica.



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