I limiti all'uguale cittadinanza
Nel corso dell'intero Novecento, la storia delle donne italiane, sia nella fase iniziale che negli approdi di fine secolo, appare caratterizzata da una forte e perdurante ambivalenza. Gli effetti di questa permangono lungo tutto l'arco del periodo, sebbene come è ovvio non senza importanti modificazioni, tanto da condizionare ancora oggi la presenza sociale, politica ed economica delle donne nello spazio pubblico di una democrazia matura quale è quella italiana. Tale ambivalenza, con cui il femminismo si è dovuto confrontare sin dall'inizio della storia repubblicana, era stata rafforzata nel corso del ventennio fascista e va ricondotta alla perenne oscillazione, largamente presente nel dibattito politico italiano, tra un obiettivo di stampo emancipazionista, finalizzato al conseguimento della piena e sostanziale parità tra i generi da una parte, e il richiamo, formulato in termini identitari di tipo essenzialistico, alla vocazione domestica e materna delle donne dall'altra[1].
Uno sbilanciamento decisamente orientato a riconoscere come fondamentale il ruolo di moglie e madre delle donne italiane fu quello che si manifestò nel corso del ventennio fascista, la cui portata non andrebbe circoscritta a quella fase storica, dal momento che – come vedremo – esso produrrà, al contrario, molte conseguenze di lunga durata, stabilendo una cesura pesante nella storia delle donne italiane. Il regime fascista aveva costruito una propria, virile concezione di famiglia basata su una marcata asimmetria di genere e sulla procreazione come dovere sociale, una sorta di «maternità al servizio dello Stato», come la definisce Victoria de Grazia[2]. In questo contesto la maternità veniva ridotta a una mera funzione, che escludeva ogni idea di libertà femminile, all'interno di una famiglia concepita come cellula base e motore del patriottismo. Al di là della specifica ricostruzione storica di questa fase, molte ricerche hanno sottolineato il carattere perdurante e gli effetti di lungo periodo della deformazione provocata dal fascismo rispetto ad una visione delle donne come, essenzialmente, fattrici per conto dello Stato, che finì con il rendere assai più arduo il cammino verso la cittadinanza. Nonostante il regime fascista abbia contribuito alla modernizzazione della vita delle donne tramite una straordinaria mobilitazione di massa che coinvolse milioni di donne e di ragazze, il tratto distintivo di quell'esperienza resta racchiuso nello slogan ripetuto ossessivamente: "Come la guerra sta all'uomo, la maternità sta alla donna"[3].
Rispetto a questo contesto, una svolta di portata rivoluzionaria, preparata dal ruolo che le donne svolsero nel corso della guerra e all'interno della Resistenza, è rappresentata dal decreto del gennaio 1945, tramite il quale in Italia veniva sanzionato il diritto di voto alle donne. Questo riconoscimento rimetteva in discussione la secolare separazione tra sfera pubblica maschile e sfera privata femminile, concentrata unicamente su famiglia, riproduzione e cura. Le storiche, tuttavia, hanno messo in luce come le potenzialità che il voto alle donne comportava in termini di nuovi assetti sociali e familiari non fu affatto colto dal dibattito politico coevo a quella importante decisione. Né i commenti politici, né la stampa andarono oltre considerazioni banali e riduttive delle potenzialità emancipatorie del riconoscimento dei diritti politici delle donne, riproponendo di fatto visioni di sostanziale minorità femminile, secondo le quali le italiane – incapaci di scegliere autonomamente – nell'esercizio del diritto di voto avrebbero seguito le volontà di padri e mariti[4]. Ad eccezione di alcuni leaders politici, Togliatti e De Gasperi, e di Pio XII, furono pochi a cogliere appieno l'importanza del voto delle donne nel più ampio contesto del rafforzamento della democrazia italiana. Gli stessi dirigenti dei partiti socialisti e laici non sembrano comprendere la valenza insita nella mobilitazione politica delle donne e non si adoperano, a differenza dei due più grandi partiti di massa, per favorire, da parte delle donne, la scoperta della democrazia anche tramite nuove forme di mobilitazione, in primo luogo attraverso le organizzazioni partitiche e femminili. Anche se va precisato che all'interno dei partiti le donne si occupavano spesso di attività marginali, lasciando agli uomini le questioni più rilevanti e "politiche", nuovi modelli femminili cominciano a farsi strada nel panorama nazionale. Erano state la guerra e la Resistenza a fornire legittimazione alla partecipazione politica delle donne, il cui ruolo in quel contesto aveva ampliato e modificato l'identità di moglie e madre delle italiane, sebbene anche in quei frangenti non si fosse superata la classica divisione di genere; tanto che il ruolo svolto dalle donne fu inteso dai partigiani e dalle donne stesse come una sorta di maternage di massa[5].
Sul piano normativo, il significativo riconoscimento della parità tra donne e uomini arriva con la Costituzione, ma anche in questo contesto il riconoscimento del ruolo pubblico delle donne non è privo di ambivalenze. Nelle disposizioni costituzionali, in particolar modo quelle degli articoli 29, 37, 51, possono essere individuati tanto l'obiettivo della tutela della parità, quanto quello della tutela della maternità. All'interno dell'Assemblea costituente, infatti, non mancarono le resistenze al riconoscimento della parità, e il difficile equilibrio tra riproposizione del ruolo tradizionale delle donne all'interno della famiglia e sviluppo di nuovi modelli femminili che si emancipano dalla tutela della tradizione, in primo luogo attraverso il lavoro, fu favorito dal contributo delle ventuno elette all'Assemblea. Anche se solo nella misura del 3,7%, queste donne, sebbene non sempre concordi, riuscirono a limitare lo spirito conservatore che animava molti costituenti. Non è difficile leggere il frutto di queste visioni divergenti nelle stesse clausole di alcuni articoli, come è nel caso dell'articolo 37, in cui l'intenzione, da parte dei costituenti, di tutelare il ruolo della donna come moglie e madre è reso quanto mai esplicito dal richiamo alla sua essenziale funzione familiare, formulata insieme alla garanzia della parità nel lavoro. Così, del resto, nell'art. 29, in cui si riconosce la parità tra i coniugi ma nella salvaguardia dell'unità familiare, o nell'art. 51, in cui la libertà di accesso alle funzioni pubbliche e alle cariche elettive viene riconosciuta secondo i requisiti stabiliti dalla legge.
Ciò che è importante sottolineare è che tali formulazioni finirono con il costituire altrettante limitazioni alla parità, alle quali vanno ricondotti tutti quei ritardi che la democrazia italiana sconta ancora oggi, sia in termini di rappresentanza femminile nelle istituzioni, sia nella segregazione orizzontale e verticale all'interno del mercato del lavoro femminile. Per molti anni, infatti, sia attraverso leggi ordinarie, sia con l'ausilio di una giurisprudenza orientata al mantenimento di una disparità decisionale e di potere tra marito e moglie, risultò preminente l'obiettivo della tutela della maternità, che declassò di fatto quello della parità a questione secondaria[6].
A tal proposito, può essere utile richiamare la sentenza della Cassazione n. 2150 del 1955 secondo la quale: «Non commette abuso dell'esercizio della potestà maritale il marito il quale vieta alla moglie l'esercizio di un'attività professionale che per un verso le impedisca di assistere il marito e i figli e per altro verso non sia resa necessaria dalla condizione finanziaria del capo famiglia». Non è necessario commentare gli evidenti elementi che sono alla base della visione dell'identità femminile sottesa a questa sentenza, che è però interessante da analizzare nella misura in cui, stabilendo un preciso rapporto di potere e di sovranità decisionale tra i generi, contribuisce di fatto a rafforzare la consapevolezza, destinata a divenire sempre più rilevante all'interno degli studi di genere, della diseguaglianza delle donne quale condizione non naturale ma socialmente costruita, una sorta di disabilità artificiale, superabile attraverso opportune politiche pubbliche.
Ciò che infatti diventerà con il tempo sempre più chiaro è che l'esclusione delle donne dalla sfera pubblica a motivo degli interessi della comunità familiare appare fondativa della stessa particolare declinazione della loro presenza nella sfera pubblica, della loro cittadinanza parziale e limitata. Se è a partire dall'incapsulamento familiare che la dimensione pubblica dell'identità delle donne deve ritagliarsi uno spazio, è proprio nella riflessione che assume il genere come prospettiva teorica che le ambivalenze della nozione di cittadinanza si mostrano con maggiore evidenza. Così stando le cose, le difficoltà dell'inclusione delle donne nello spazio pubblico non sarebbero solo o tanto un fenomeno di ritardo o di resistenza, ma sintomi di quella opposizione originaria che aveva costruito le donne come non cittadine proprio in quanto affidava loro il ruolo essenziale di mogli e madri di cittadini, vale a dire di soggetti in primo luogo garanti dell'unità familiare[7]. È la famiglia stessa a eludere le questioni di giustizia e a produrre le disuguaglianze, e proprio in quanto tale essa costituisce un nodo problematico per le teorie della cittadinanza; quale corpo separato rispetto alle dinamiche di ampliamento di libertà, responsabilità e uguaglianza che investono la dimensione pubblica, la famiglia si mostra contesto particolarmente resistente. Ne è prova il fatto che questo corpo intermedio tra l'individuo e lo Stato non fu collocato entro il linguaggio filosofico politico moderno, né entro quello giuridico dei diritti e dei doveri dei cittadini, concepiti come individui atomizzati, isolati e privi di legami, caratterizzati unicamente dalle responsabilità verso la dimensione pubblica. Sulla base di questa interpretazione la famiglia viene intesa come "base naturale" dell'esistenza maschile, una condizione pre-politica che si colloca in una dimensione separata rispetto al libero incontro tra cittadini maschi nella comunità politica. In quest'ultimo ambito, le differenze interne all'unità familiare gerarchicamente strutturata non si palesano, ed esse possono essere confinate ai margini della scena pubblica, sia grazie all'esclusione di uno dei due generi dai diritti civili e politici, sia per via della rimozione del quadro privato e familiare. Come nota Saraceno, la divisione tra responsabilità pubbliche e responsabilità private rispetto ai bisogni da soddisfare trova il suo fondamento ontologico nella divisione del lavoro fra i sessi, che fornisce a sua volta un volto diverso alle forme di dipendenza che caratterizzano la struttura delle relazioni tra i generi nella società. Mentre la parziale o totale dipendenza economica delle donne dai mariti è apertamente manifestata nei codici sociali, la dipendenza dei mariti dal lavoro di cura delle mogli è rimossa e non tematizzata come tale. Ecco allora che l'originaria ambivalenza presente nella configurazione della cittadinanza femminile assume fattezze di vero e proprio dilemma. Se infatti le donne subordinano al lavoro di cura la loro partecipazione al mercato del lavoro non riescono ad acquisire cittadinanza economica ed autonomia; mentre le donne che svolgono il lavoro di cura in aggiunta al lavoro remunerato devono affrontare innumerevoli tensioni, nel difficile obiettivo di trovare un equilibrio fra vita familiare e vita lavorativa. Come è possibile che le donne svolgano tutto il lavoro domestico e di cura, senza l'aiuto dell'altro genere o della collettività, senza ridurre fortemente la loro libertà civile, sociale, politica? Se non si riconoscono i diritti di chi si prende cura dei non autosufficienti (bambini, malati, invalidi, anziani) non si attribuisce né valore sociale a quel lavoro, né alcun diritto a chi ha bisogno della cura. Ragionare in termini di cittadinanza compiuta per le donne significa quindi riflettere anche sulle varie forme di dipendenza di cui è piena la vita associata e da cui dipende la stessa vita individuale. Dare per scontate queste realtà nella famiglia e nello spazio privato significa negare la loro legittimità in quanto possibile fonte di diritti sociali, ma soprattutto rimuovere il vincolo che di fatto la dimensione della cura crea alla piena cittadinanza di chi si fa carico di questa particolare declinazione del lavoro[8].
Dall'Italia all'Unione europea. Un contributo alla riformulazione del concetto di uguaglianza
Nella prima parte di questa riflessione abbiamo preso in esame la relazione ambivalente che si stabilisce tra la ricerca dell'uguaglianza tra uomini e donne e il richiamo alla specifica identità femminile. Nonostante nel dettato costituzionale siano presenti, come si è visto, entrambe queste strategie, l'art. 3 appare senza dubbio lungimirante nell'individuare come compito della Repubblica la rimozione degli ostacoli che i cittadini possono incontrare nello sviluppo della persona e nella partecipazione alla vita politica, economica e sociale. Sebbene la piena applicazione di tale articolo sia da collocarsi temporalmente a partire dalla fine degli anni '70 e poi con l'avviarsi, con la legge n. 125 del 1991, della stagione delle azioni positive, è importante sottolineare che nelle intenzioni dei costituenti era ben presente la consapevolezza che per garantire l'uguale partecipazione alla vita della comunità ci si dovesse spingere fino alla valutazione dei differenti contesti reali in cui gli individui operano e che non fosse sufficiente un formale richiamo all'uguaglianza di fronte alla legge.
Proprio rispetto a questa peculiare sensibilità è possibile tracciare un ideale contributo che anche dal nostro paese è transitato nello spazio europeo. Sto pensando alla formulazione della nozione di Uguaglianza presente nel Capo III della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, solennemente proclamata a Nizza nel dicembre 2000 e da ultimo inserita nel Trattato di Lisbona. Dopo aver affermato l'uguaglianza di fronte alla legge, la Carta formula, nell'articolo 21, il diritto a non essere discriminato, affermato sulla base di un elenco solo esemplificativo e quindi potenzialmente ampliabile, di elementi quali, tra gli altri, la lingua, la nazionalità, il sesso, la religione e l'orientamento sessuale. Se però questo articolo esprime un importante diritto negativo fondato sul principio di non discriminazione, è l'articolo 23 ad andare coraggiosamente verso l'affermazione in termini positivi del diritto alla parità di trattamento tra uomini e donne, dando così più sostanza al concetto di uguaglianza cui questa parte della Carta è dedicata. Vorrei sottolineare come tanto in questo articolo quanto, in forma più attenuata, nell'art. 3 della Costituzione italiana, operi la consapevolezza che le condizioni di fatto in cui gli individui si trovano ad agire sono spesso ambiti caratterizzati dalla diseguaglianza, intesa quindi come necessario terreno di partenza dell'analisi e non come mera, ipotetica eventualità. In sede europea, questo elemento assume un particolare significato perché, nell'obiettivo di conseguire la parità di trattamento tra donne e uomini, esplicitamente citati nel titolo dell'art. 23, l'Unione si impegna a promuovere politiche specifiche, non solo in ambito lavorativo ma in tutti i campi della vita sociale e politica, nessuno escluso. Il richiamo esplicito ad azioni positive in grado di dare piena attuazione al principio di parità di trattamento appare in questo contesto assai significativo, dal momento che ad esso si fa corrispondere uno specifico commitment da parte dell'istituzione politica, impegnata ad ottenere l'effettivo godimento del diritto alla parità ben oltre la mera titolarità. Lo sguardo teorico, e conseguentemente l'obiettivo dell'azione politica, è oramai decisamente spostato verso le condizioni di fatto e il conseguimento dei risultati, e non si assesta solo al limite angusto della garanzia delle condizioni di partenza. Il diritto alla parità di trattamento diventa nell'articolato spazio giuridico europeo, e non solo nella Carta, un diritto fondamentale, in grado di indirizzare nell'ottica del gender mainstreaming le stesse politiche dell'Unione. Il suo esteso ambito di validità lo fa entrare in rapporto diretto con gli altri diritti – civili, politici e sociali – dando al contempo sostanza a quell'idea di indivisibilità dei diritti che si trova espressa in molti documenti dell'Unione. Sostenendo che la parità deve essere affermata in tutti i campi, la Carta supera quella stessa visione, tipicamente liberale, tradizionalmente orientata a mantenere una netta separazione fra pubblico e privato e che nel godimento dei diritti di cittadinanza da parte delle donne ha rappresentato un limite significativo, una delle principali cause della loro cittadinanza dimezzata[9]. In termini di conseguimento della parità fra donne e uomini, sia l'art. 3 della Costituzione italiana, sia il Capo III della Carta europea fanno propria una visione propulsiva del diritto, individuando in esso uno strumento in grado di modificare assetti sociali consolidati, a favore di un mutamento della relazione fra i generi.
Non è difficile riconoscere nel percorso novecentesco della riflessione teorica e della pratica politica femminista, sia in ambito italiano che di molti altri Stati europei, la richiesta crescente di un riconoscimento pubblico dell'identità di genere che condurrà con il tempo alla consapevole messa in discussione del neutralismo liberale. Esattamente rispetto a questo tema va riconosciuta la principale sfida che lo sviluppo novecentesco del femminismo ha posto alla tradizione liberale, anche grazie alla messa in campo di concetti come discriminazione e oppressione, rintracciabili nei contesti democratici proprio a partire da stigmatizzazioni, stereotipi e discriminazioni indirette rivolte agli individui in quanto appartenenti a gruppi specifici. È così divenuto sempre più chiaro che, per le donne, il giusto riconoscimento nello spazio pubblico è necessario per vincere autodisprezzo e mancanza di stima derivante dall'appartenere ad un genere discriminato e svalutato. Per diventare soggetti liberi, partecipi delle molte varianti della dimensione pubblica, senza dover forzatamente rinunciare alla propria appartenenza di genere a vantaggio di una presunta neutralità che di fatto significa mimesi rispetto al modello di identità maschile dominante, è necessaria una consapevolezza collettiva, in grado di produrre strategie criticamente riflessive capaci di superare i limiti imposti dalla tradizionale struttura sociale di genere. E nell'acquisizione di questa consapevolezza il femminismo ha dato un contributo fondamentale.
Nel tentativo di rendere più ospitale lo stesso concetto di uguaglianza, il femminismo apre un varco all'interno della concezione neutra e formale dell'uguaglianza liberale, favorendo un riconoscimento nuovo e positivo delle specificità di genere che non mette in discussione solo le identità delle donne, ma anche l'organizzazione sociale in cui queste operano. Questo spostamento si configura come un primo, decisivo passo verso la possibilità, certo non priva dei necessari bilanciamenti, di riconoscere anche le molte altre differenze – etniche, culturali, religiose, linguistiche; una direzione verso cui sembrano orientarsi, non senza tentativi ed errori, le democrazie contemporanee. In questo senso si può a ragione affermare che il contributo offerto dal femminismo alla cultura politica italiana e poi europea va nella direzione di sviluppare appieno, nel tentativo di prendere sul serio l'uguaglianza, i potenziali di libertà ed emancipazione presenti all'interno della tradizione liberale, proprio assumendo fino in fondo le molteplici e spesso invisibili forme assunte dalla diseguaglianza. Come già Mill aveva lucidamente individuato, l'attiva presenza delle donne nella sfera pubblica non costituisce affatto un elemento marginale della democrazia, ma un tassello al contrario essenziale di un assetto politico che sarebbe riduttivo identificare come semplice forma di governo[10]. Il contributo delle donne alla vita sociale e politica della comunità dà contemporaneamente forza a quelle ipotesi teoriche di analisi delle democrazie che dal piano solo istituzionale tendono ad includere le reali condizioni dei cittadini nello spazio pubblico, spostando l'attenzione sulle possibilità da esso offerte rispetto alla libertà e ai percorsi di autorealizzazione di tutti i cittadini e di tutte le cittadine.