Spesso il termine "decrescita" viene confuso con quello di recessione e perciò percepito negativamente. Nel sentire comune è difficile comprendere il cambiamento di paradigma alla base di questo concetto. Può illustrare brevemente la differenza tra decrescita e crescita negativa?
La decrescita è uno slogan, che vuole in primo luogo sottolineare la necessità dell'abbandono dell'obiettivo della crescita illimitata. Chi la accosta alla crescita negativa non ha mai letto una riga di quello che scrivo. Sappiamo perfettamente che nelle nostre società non c'è niente di peggio che un rallentamento della crescita, la decrescita è concepibile soltanto all'interno di un sistema basato su una logica diversa. L'obiettivo è quello di una società dove si vivrà meglio, lavorando e consumando di meno.
Il problema è che siamo dentro alla teologia della crescita e non ne vediamo la stupidità.
In questo contesto il termine "decrescita", o meglio "a-crescita", è una parola blasfema, significa diventare ateisti della crescita e quindi essere nuovamente capaci di vedere la realtà. Dobbiamo divorziare dalla ragione geometrica sulla quale si basa la società della crescita, fondata sulla dismisura.
In questo senso la decrescita è un progetto che esiste già dalla fine degli anni sessanta. È l'idea di un "eco-socialismo", di una "eco-democrazia" sostenuta da Ivan Illich, Cornelius Castoriadis, André Gorz. Per trent'anni hanno predicato nel deserto, poi i tempi sono maturati quando è diventato evidente che una società della crescita, oltre a non essere desiderabile, non è sostenibile dal punto di vista ambientale.
Un altro errore comune è quello di assimilare decrescita e sviluppo sostenibile, mentre lei al contrario sostiene che lo «sviluppo sostenibile rappresenta un ingannevole tentativo per salvare la crescita»[1]. Perché?
Perché il problema della finitezza delle risorse naturali è noto da tempo, già il rapporto del CLUB di Roma del 1972[2] denunciava il problema ambientale. Per non cambiare rotta, gli ideologi del sistema hanno inventato la formula dello "sviluppo sostenibile", che è un ossimoro, in quanto dietro lo sviluppo c'è la crescita e la crescita non è sostenibile[3].
Le critiche "da sinistra" a questa teoria sollevano dubbi sulla capacità della società della decrescita di garantire piena occupazione e consentire allo stato di continuare a fornire servizi pubblici. Partiamo dal tema del lavoro. Occorre una riformulazione concettuale, un ripensamento del valore che questo termine ricopre all'interno della nostra società, per immaginare un tipo di occupazione diverso da quello attuale?
È necessaria una vera e propria rivoluzione mentale per concepire il lavoro in modo diverso. In primo luogo, occorre limitare il più possibile il lavoro salariato. In questa direzione andrebbero certamente rivalutate le due componenti rimosse di quella che Hannah Arendt[4] definisce la "vita activa" e cioè l'opera dell'artigiano o dell'artista e l'azione propriamente politica. Sempre riprendendo la suddivisione della filosofa tedesca, dovremmo anche cercare di recuperare la parte di vita "contemplativa". Siamo diventati tossicodipendenti del lavoro, al punto che nel mondo anglosassone c'è un nome per questo tipo di dipendenza, che viene chiamata workaholism. È evidente che rallentare è una necessità, anche in questo ambito dobbiamo ritrovare il senso della misura, riducendo drasticamente il tempo di lavoro[5].
Riducendo le ore lavorative e la produzione, questa è l'altra obiezione frequente, come sarà possibile mantenere adeguati livelli di welfare state? Immagina un diverso tipo di tassazione? Per esempio basata sul tempo dei cittadini, come propone Francesco Gesualdi[6]?
Non dobbiamo parlare di livelli di welfare, ma di felicità. Dobbiamo interrogarci su cosa sia il benessere e distinguere tra i bisogni fondamentali e tutti gli altri. La decrescita propone di fare di più e meglio con meno, le persone devono avere più tempo libero. Occorre liberare tempo dal lavoro, per permettere la realizzazione personale dei cittadini.
L'approccio dualistico di larga parte della tradizione filosofica occidentale è stato e continua ad essere di ostacolo alla costruzione di un nuovo tipo di società, che coniughi la questione sociale con quella ambientale? Come ricongiungere 'oggettivo' e 'soggettivo', 'natura' e 'cultura'?
Da una parte abbiamo il paradigma cartesiano, illuministico, di strumentalizzazione della natura, che è alla base del capitalismo, ma che ha finito per colonizzare anche l'anticapitalismo, mentre il primo socialismo era anti-industrialista.
Dall'altra abbiamo quello che chiamo "il mito della torta", cioè l'idea di soddisfare le esigenze sociali aumentando la potenza produttiva, del quale la sinistra non è ancora riuscita a liberarsi. Già nel 1848 Marx sosteneva che la produzione fosse abbastanza forte da soddisfare i bisogni di tutti e che la vera questione fosse quella della redistribuzione della ricchezza. Da allora la produzione è aumentata di 30 volte, perché questi guadagni non sono stati trasformati in riduzione del tempo di lavoro?
In questo senso può essere efficace la strada indicata dal filosofo Hans Jonas[7], il quale ha cercato di ricongiungere filosofia e scienza naturale, individuando una rifondazione dell'etica a partire dalla filosofia della natura?
Non sono un filosofo di professione, ma certamente mi sento in sintonia con l'idea del principio di responsabilità, inteso come imperativo etico. Se guardiamo all'impronta ecologica mondiale, è evidente che noi occidentali non rispettiamo questo principio.
Se non ci sarà un cambiamento consapevole nella direzione delineata, ritiene reale il rischio di una soluzione autoritaria al problema dell'esaurimento delle risorse?
Sicuramente il rischio è fortissimo, alcuni segnali ci sono già. Basta pensare alla guerra in Iraq, combattuta per il petrolio. L'amministrazione Bush non ha esitato a ricorrere alla guerra per controllare le risorse naturali necessarie al mantenimento degli stili di vita occidentali. Del resto, se il 20% della popolazione consuma più dell'86% delle risorse del pianeta, per mantenere questo livello di consumo occorrerebbe distruggere 9/10 della popolazione mondiale. Per scongiurare il rischio di un eco-totalitarismo, occorre suscitare nelle persone un numero sufficiente di comportamenti virtuosi, in direzione di un cambiamento consapevole teso a rifondare la democrazia. In questo consiste la scommessa della decrescita.